Del risveglio e dei pensieri successivi…

Sunday morning and I’m falling, I’ve got a feeling I don’t want to know…

Evidentemente la domenica mattina si realizza una particolare atmosfera atta ai pensieri più strani, alle sensazioni incontrollate, al torpore misto nausea. Eppure stamattina decifrare i segnali della memoria non sarebbe nemmeno difficile, cosa pensare del resto se uno finisce con lo svegliarsi con una canzone in testa che sembra una marcia funebre?

La conclusione sarebbe piuttosto ovvia, tutti i motivi che hai per essere depresso potrebbero spuntare come funghi dal sottobosco e sorprenderti mentre ancora stai per svegliarti. Ti alzi e poi ti svegli con il granchio nel cervello come me. Invece, per una volta, la memoria che ti abita dentro prende il sopravvento, evidentemente stanca del “ti piace vincere facile?” del te stesso paranoico, che pare una sorta di asso pigliatutto, una volta tanto che vada al diavolo.

Mi metto a pensare ai Soundgarden, agli anni novanta, a che decennio fantastico fossero e a come ha fatto a finire su un loro disco una canzone oppressiva come “4th Of July”… magari si sono sbagliati,  eppure non sono un gruppo poi così solare come testimoniano tante loro liriche a partire da “The Day I Tried To Live” e non ci vanno nemmeno tanto leggeri con le distorsioni, no probabilmente la canzone sul quattro di luglio ha un suo perchè, e lo stesso Cornell si è svegliato una mattina (magari una domenica mattina) rincorso dai suoi fantasmi e si è rifugiato nella scrittura, semplicemente.

Gli anni novanta io li considero un po’ casa mia, ci stavo da dio. L’atmosfera che si respirava era proprio qualcosa di diverso, una creatività, una voglia di fare ecco più semplicemente tutto appariva infinitamente più profondo ed ispirato. Finalmente veniva spazzato via quell’alone di superficialità e disimpegno proprio del decennio precedente e venivano fuori persone con cose da dire. In mezzo a tutto questo Seattle (un posto grigio e buio dove, a quanto pare, piove quasi sempre) sembrava brillare di luce propria e fu una cosa strana anche perchè si tendeva ad accomunare gruppi che in comune avevano poco… prima c’erano state le “scene”: la bay area a San Francisco, l’hardcore new yorkese, il punk inglese, il death metal svedese… avevano senso, ma circa Seattle l’accorpamento era proprio solo una questione geografica. I Mudhoney non suonano come i Soundgarden, i Nirvana non suonano come gli Alice In Chains: hanno poco in comune, questo è assodato. Poi ci sono i progetti laterali, e qui si vede, più che nella musica dei singoli gruppi, perchè Seattle fosse un posto speciale dove tutti conoscevano tutti e si poteva tranquillamente sedersi attorno ad un tavolo e creare qualcosa di intenso e toccante, senza nessun problema. I gruppi nati dal rimescolamento dei componenti dei singoli gruppi furono devvero speciali, tendo a ricordarmi soprattuto Temple Of The Dog, dove ascoltai per la prima colta l’ugola di Cornell e pensai che fosse un cantante fenomenale…

I Mad Season, il cui disco finisce per essere una pagina veramente molto poetica nel libro della musica nata a Seattle… che ciclicamente non manca nel mio stereo… The music that we made, The wind that carries on and ongod knows I’m gone…

Ed i Three Fish con una sorta di concept album dal fascino indiscutibile:

Qui c’è lo spirito, di quegli anni, di quell’atmosfera, al di là di brani più noti, di gruppi idolatrati, la musica creata a Seattle era qualcosa di bello nel suo piccolo, ma che ha finito per implodere su stessa quando il music business ha tentato di appropriarsene.

Forse… L’uccello del paradiso si posa sulla mano che non tenta di afferrarlo?

Be Lethal, Leisel!

Come succede a tutti, aprendo la posta il simpatico portale ti mette a disposizione delle notiziuole nazional popolari dall’indubbio interesse, tipo l’insopportabile Belen e i suoi tatuaggi/amanti, la vita di Richard Chamberlain dopo “Uccelli di rovo” o metodi astrusi ed impraticabili di pagare senza soldi (???). Ebbene lo sport non passa più tra i miei interessi da un po’ di tempo essendo assolutamente stanco di tutto il circo mediatico (ed economico) che ci ruota attorno, non ho nemmeno festeggiato il ritorno in serie A della mia squadra del cuore, tantomeno mi interessano le suddette notizie, però stamattina qualcosa ha attirato la mia attenzione: il caso di Leisel “Lethal” Jones, nuotatrice australiana.

Pare che la nuotatrice, già vincitrice di alcune medaglie a livello olimpico e mondiale, abbia messo su peso e sia finita nel mirino dei tabloid! Dico ma… stiamo scherzando o  siamo proprio a corto di argomenti?? Tralasciando il fatto che ognuno è padrone di gestire il proprio corpo come meglio crede, faccia la nuotatrice come chessò la massaia, è insopportabile pensare che ci sia qualcuno immediatamente pronto a giudicarti in base al tuo fisico e non a quello che vali. Non voglio dire che atteggiamenti di questo tipo portino direttamente a disturbi dell’alimentazione o complessi di inferiorità, ma probabilmente aiuta e, se posso dire la mia (e posso visto che questo è il mio blog!), mi piacerebbe che ci si emancipasse tutti da questo stereotipo che lega la bellezza (ed il successo) al responso della bilancia o dello specchio, aldilà di questo ci sono persone con sentimenti e pensieri, con una personalità che merita rispetto (fino a prova contraria 🙂 ).

Inoltre lei nuota e non fa la modella e, a sentire il suo allenatore, addirittura, le sue prestazioni in vasca non ne risentono… quindi di cosa stiamo parlando?? Di nulla, ne ero sicuro. Ed infatti lei riceve la solidarietà della sua squadra e del suo allenatore, fa spallucce e tira dritto per la sua strada. Servirà a poco perchè temo che certi attaggiamenti irrispettosi ed ignoranti non si estingueranno mai, però voglio farle i complimenti e stringerle idealmente la mano. Avevo deciso di non seguire più lo sport, ma per lei posso tranquillamente fare un’ eccezione e tifare senza ritegno, falli neri “Lethal”!!!

Tre ragazzi immaginari (più uno)

Sottotitolo: Tentativo di discorso su un esordio mirabile in forma di pseudo recensione.

Quel grandioso decennio noto all’umanità come anni ’70 sta volgendo al termine, il mondo è stato appena sconvolto da quel fenomeno dissacrante e (positivamente, forse) distruttivo come il punk. Alcune grandi bands del passato sono in grave crisi di identità, pensate ai Black Sabbath e ai Led Zeppelin, anche se qualcuno si avvantaggerà clamorosamente del dissidio per prendere una boccata d’aria e far uscire addirittura un concept album, assolutamente distante dal minimalismo imperante, che entrerà di diritto nella storia del rock e della musica stessa, sto ovviamente parlando del memorabile “The Wall” dei Pink Floyd, cui seguirà anche il famoso film di Alan Parker con Bob Geldorf.

E il famigerato punk che fa? Essenzialmente si trova davanti ad un bivio, da una parte la frangia più estrema, a tratti nichilista e a tratti consapevole, sta per inasprire ulteriormente i toni con l’Hard Core (gruppi come i Discharge, i Crass, i Black Flag, Minor Threat o Dead Kennedys), dall’altra quella intimista ed introspettiva che diventerà meglio nota con il nome Post-Punk o New Wave, con l’evolversi del movimento. I Cure fanno parte di questo movimento, sono attivi a partire dal 1976, ma il primo singolo non esce prima del 1978 e il primo long playing esce nel maggio del 1979.

Prima di entrare nello specifico, anche se è stato già detto, occorre specificare che, come già precisato in precedenza, esistono due versioni del disco, quella a sfondo rosa è quella originale, quella col collage bruciacchiato è quella americana che differisce nella scaletta includendo anche alcuni brani usciti nel regno unito come singoli nello stesso periodo. Personalmente preferisco la seconda versione, anche perchè i singoli inclusi sono brani di assoluto rispetto come “Killing An Arab”,”Jumping Someone Else’s Train”o “Boys Don’t Cry” non credo che valgano una deboluccia cover di Jimi Hendrix (“Foxy Lady”) e nemmeno gli altri brani presenti nell’edizione originale e non in quella successiva che è quella che tratterò qui e che è uscita l’anno dopo (1980). Tra l’altro, volendo fare i sofisti, le versioni su CD e su LP differiscono ancora alla traccia n°5: il CD presenta “So What”, un divertissement il cui testo cita alcune pubblicità, mentre l’ LP include “Object”.

Però sarà il caso di parlare della musica… dovendo descrivere il disco mi vengono subito in mente alcuni termini come urgente, adolescenziale, passionale, istintivo, intenso e coinvolgente. E’ un esordio che lascia il segno, magari è ancora immaturo nel suono, ma è un fatto assolutamente positivo, non ci hanno pensato troppo sopra, non avevano tempo, non avevano soldi e avevano poca esperienza… tuttavia avevano una gran voglia di esprimersi e l’urgenza di doverlo fare e di confrontarsi col mondo. Questo spesso fa produrre dei dischi molto importanti ed è assolutamente questo il caso, sarà anche immaturo ed adolescenziale ma lo è in un modo splendido, come lo sono pellicole come “Paranoid Park” o “Fucking Åmål”, poichè hanno, nei loro personaggi o nell’atmosfera del disco, al contempo il fascino di chi fa qualcosa per la prima volta e l’incoscienza che porta con sè il non avere un’idea precisa di cosa si sta per affrontare. E poi si sente la passione grondare dalle note, senza il bisogno di doversi confrontare con il passato o atteggiarsi in una qualche maniera. Questo disco E’ l’ espressione del gruppo, del suo nucleo portante, dal quale prenderà vita molto del suono che li caratterizzerà nel futuro.

All’irruenza nichilistica del punk si è sostituita a tratti l’introspezione (“Another Day”) oppure il sentimentalismo incendiario di “Fire In Cairo”, quello in preda alla paranoia di “10:15”, il terrore di un rientro a casa in “Subway Song”, “il tentativo di realizzare una canzone pop anni ’60” come in “Boys Don’t Cry” o, addirittura, le citazioni colte come in “Killing An Arab” che fece alzare un certo polverone all’epoca quando nessuno colse i riferimenti letterari (“Lo Straniero” di Albert Camus nello specifico) e tutti pensarono a un testo xenofobo, cosa che il gruppo smentì clamorosamente devolvendo in beneficenza i proventi della vendita del singolo. Del punk restano il minimalismo in produzione (tuttavia potrebbe derivare più facilmente dalla carenza di fondi) e gli arrangiamenti taglienti. La loro evoluzione è assolutamente tangibile e, per giunta, riuscita: un incredibile punto di partenza per una carriera, non priva di trasformismo (anche considerando i continui cambi di formazione che li caratterizzeranno fin dall’inizio con l’abbandono del bassista Michael Dempsey in favore di Simon Gallup -e del suo thunderbird!- che poi diventerà uno dei pilastri del gruppo negli anni) ma anche di uno sfoggio di talento difficilmente riscontrabile in altre compagini.

Una piccola curiosità deriva dal fatto che il titolo venne poi ripreso nell’omonimo film anti-omofobico del 1999 con Hilary Swank (che per questa interpretazione vinse anche l’Oscar!) a regia di Kimberly Peirce…

La musica illustrata

La grafica ha da sempre accompagnato la musica, fin da quando i singoli finivano per essere raccolti in Lps e questi necessitavano di una copertina, ma sicuramente anche prima, musica e immagini hanno camminato assieme nel percorso affascinate dell’evocazione, delle sensazioni.

Ultimamente la tendenza è andata anche oltre, grazie ad artisti assolutamente dotati come i nostri malleus o steuso che hanno prestato il loro talento ed i loro inchiostri alle locandine dei vari concerti, cui, in alcuni casi, mi sono onorato di partecipare e acquistare, riempiendo le pareti della mia stanza con la loro bravura e vena artistica.

Tuttavia oggi è soprattuto egli americani che voglio trattare, in particolar modo di Jacob Bannon e John Blaizley.

Il cantante dei Converge, da Salem Massachussets, oltre a fornire elegantissimi artwork per le copertine (ed il merchandising) degli albums della band madre, lavora assiduamente anche per altri gruppi, con uno stile in grado di far confluire tecniche come la fotografia e l’uso dell’aerografo con risultati assolutamente epressivi e vibranti, perfettamente in linea con l’espressività di un gruppo sicuramente intenso e, per certi versi, sorprendente come i Converge. Attivo su svariati fronti, con molti progetti collarterali, l’etichetta deathwish e l’attività grafica, Mr. Bannon sembra, magicamente, trovare il tempo per tutto.

In attesa di dare continuità allo splendido “Axe To Fall” del 2009, con un disco probabilmente in uscita nell’anno in corso dal titolo non ancora sicuro di “All we love we leave behind” il nostro continua la sua attività nei campi più disparati, mantenendo un livello qualitativo francamente alla portata di pochi.
Mi permetto di proporre un brano tratto dal loro ultimo (capo) lavoro.

Own these dire nights
Own their seething lies
Own my damage, own my sears
They paint a broken life’s shattered art

And time won’t turn
My wretched world

John Baizley invece proviene da Savannah, Georgia e già il nome di questa città dovrebbe evocare qualcosa in voi, visto che ultimamente è la patria dello sludge avendo dato i natali a gruppi come Mastodon e Kylesa, per i quali, tra l’altro, ha curato l’artwork di “Static Tensions”. Il suo stile, rispetto a quello di Jacob Bannon, è decisamente più classico usando mezzi più tradizionali come chine, inchiostri, tempere e avendo come evidente punto di riferimento l’art noveau e, in particolare, Alphonse Mucha.

Da sempre piuttosto refrattario a fornire spiegazioni circa i testi del suo gruppo, come a proposito del significato delle sue illustrazioni, Baizley risulta essere una specie di mosca bianca (chissà perchè mi vengono in mente i Tool) in un mondo dove probabilmente ormai tutti sanno tutto di tutto anche grazie a quella macchina da informazione che è internet… il suo gruppo ha da poco fatto uscire un interessante doppio CD che, nella migliore tradizione cromoterapica (i dischi dei Baroness si intitolano con il nome dei colori), si intitola “Yellow and Green” e rapprensenta una energica sterzata verso territori di più facile ascolto rispetto al passato, senza snaturarne troppo l’attitudine. Da buon lemming, sono giorni che questa canzone non mi esce dalla testa…

…And what you did next
Was second to none
You really let us down…

Dell’ augusto disgusto

Sorrido al pensiero che tra poco sarà agosto. Fa ridere pensare a quel che significa per molti in attesa della classica ora d’aria gentilmente concessa dai propri datori di lavoro. Fa ridere ritenere che in molti finiranno per non giovarsene affatto, fa ridere pensare che finiremo per andare in vacanza tutti assieme come tanti pecoroni e una tristezza disperata nei pensare ai luoghi di villeggiatura, a quel mare assediato. Ancora una volta agosto, per quel che mi concerne, è un mese terribile: tutti finiscono per dileguarsi nel nulla, mancano solo le balle di fieno che rotolano solitarie trasportate dal vento.

Credo che mi chiuderò in casa, leggerò qualcosa, farò suonare il basso e mi metterò ad urlare fortissimo.

L’ultima seduta

Marilyn, l'ultima seduta Finalmente, dopo un bel viaggetto motociclistico, affiancato dal vento e, per quanto possibile, con il naso all’insù ad ammirare lo splendido panorama valdostano sottro il cielo terso e brillante, si giunge a Bard, uno dei primi paesini che si incontrano proveniendo dal piemonte. Il forte è austero ed inavvicinabile, esattamente come me lo ricordavo, i muri spessi e le fenditure per l’artiglieria, il suo dominare severo la vallata sottostante, questo da solo o con il semplice borgo incastonato nella roccia sottostante varrebbe l’ora di viaggio, ma ci sono ben due mostre da visitare: Alberto Giacometti e Bert Stern.

Mi riesce piuttosto difficile parlare dell’opera dell’artista elvetico, molte delle sensazioni raccolte visitando la mostra rimangono lì dove sono, senza che io possa esplicitarle a caldo: è un percorso tortuoso, interiore, difficile… i disegni dalle mille linee solo apparentemente disordinate, le sculture al tempo stesso fragili ed imponenti… le parole non mi sono ancora venute in soccorso, a parte una: affascinante.

Con la mostra fotografica della signora Monroe la cosa mi riesce forse più facile, dato che volenti o nolenti, nessuno può esimersi dall’aver mai visto una sua fotografia, o conoscere anche per sommi capi la sua vita.

Personalmente l’ho snobbata abbastanza fino ad oggi: è l’effetto che mi fanno i miti invasivi -quelli che ti fanno conoscere i media quasi per forza, senza che tu l’abbia chiesto- di solito si ritrovano la mia porta chiusa in faccia come rivendicazione di indipendenza. Tempo fa mi era capitato di vedere i due film a regia Billy Wilder (un grande!) e forse, anche in considerazione del fatto che mi piacquero, un minimo interesse in più è riuscita a suscitarlo. Poi la questione con i Kennedy: uno come James Ellroy ci potrebbe trarre benissimo un libro come “Black Dhalia”… chissà se l’ha fatto o magari ci ha solo pensato.

Nonostante il mito costruito, quello che esce dagli scatti di Stern è una persona con tutti i suoi limiti, cicatrici sull’ addome, angoscia negli occhi e braccia ricoperte da una tenue peluria (guarda cosa vado a notare, alla fine). Per quel che mi concerne non è un’ icona di bellezza (la Danae lo è), è, probabilmente, molto di più un’ icona del suo tempo, una rappresentazione dell’atmosfera che si respirava nell’industria del cinema e nell’ambiente correlato. Schiacciata dall’esposizione mediatica, che in quegli anni stava incominciando a diventare oltremodo invadente, e da una vita assolutamente non facile, depredata della possibiltà di estinguersi anche post mortem, non si può negare che sia un’immagine di tante, troppe cose, ma che la bellezza sia un pallido contorno a tutto questo, ammesso che la si ritrovi nella figura di Norma Jean Baker.

Io, personalmente, l’ho trovata veramente bellissima solo in uno scatto, dove la si vede spettinata e disorientata coprirsi con un lenzuolo come se fosse appena alzata dal letto, come se non si fosse ancora resa conto della sua identità e di tutto quello che comporta, come se il torpore fisico, magari anche indotto chimicamente, le avesse rubato la consapevolezza della sua infanzia tormentata e del suo presente ingestibile, l’abbia resa quasi libera.

Un incontro fatale

Forse gli incontri migliori si fanno fortuitamente, forse le passioni più intense nascono da uno sguardo, dal rapimento dei sensi, dalla sensazione di fascino assoluto, da qualcosa che non puoi comandare come la volontà divina. Credevo che incontrare Danae fosse impossibile, invece quando arrivai a Vienna lei era lì alla Galleria Albertina. Raramente ho potuto godere di una tale fortuna, raramente mi sono trovato davanti all’incarnazione stessa della passione, della bellezza e del fascino che dimorano perfettamente in un’immagine indescrivibilmente traboccante di avvenenza e trasporto.

Come una spirale che ti invita a perderti nelle sue spire che ti accolgono morbide e dolci, tremante e sconvolto sai che non c’è scelta e non c’è scampo che il tuo destino, se poi ne esiste uno, è quello di abbandonarti all’estasi contemplativa e abbracciarne con uno sguardo rispettoso ma determinato, ogni linea, ogni singolo flusso di forma e di colore. Dietro alle palpebre chiuse è nascosto un mondo di beatitudine e piacere, tra i capelli incendiati affondano resistenze e lacrime, mentre le mani cercano di trattenere l’attimo nel quale si concretizza un  incontro di anime ed una comunione di spiriti. E la pelle madreperlacea, un soffice invito a lasciarsi il mondo alle spalle, ad abbracciare un’immagine immortale nella sua perfetta espressività.

Se sia possibile provare un sentimento simile per un’immagine, se non si riesca a trattenere la propria commozione profonda al cospetto di cotanta magnificenza posso testimoniarlo senza esitazione.

150 anni fa nasceva Gustav Klimt

Augurio per il fine settimana

Josh Homme, Queens Of The Stone Age, live at Babylonia, Ponderano BI, 1998
Nick Olivieri, Queens Of The Stone Age, live at Babylonia, Ponderano BI, 1998
Scaletta e biglietto
Queens Of The Stone Age, biglietto Alcatraz MI, 2002

I WANT SOMETHING GOOD TO DIE FOR
TO MAKE IT BEAUTIFUL TO LIVE

Non posso credere che siano passati dieci anni da questo video!!!

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