American Nightmare

The Misfits, quelli veri!

“American Nightmare” calza molto meglio di “Halloween”, lo so che giorno è oggi però credo che descriva meglio ciò che la festa di Ognissanti sia diventata da qualche anno a questa parte. I Misfits invece direi che sono una scelta obbligata per la giornata odierna e a ben pensarci anche per loro l’idea dell’incubo americano si adatta piuttosto bene, visto che ormai sono diventati una sorta di incubo farsesco ad opera del bassista-culturista Jerry Only. Sul vinile invece non si discute, anche se il picture disc sa un po’ troppo di moderno… non si può avere tutto.

I Misfits, quanta nostalgia. Ovviamente un tempo non era come adesso con tutto a disposizione via internet. Se avevi fortuna li conoscevi, come il sottoscritto, grazie alle versioni degli odiati metallica (sempre e più che mai m minuscola) di “Last Caress” e “Green Hell”, poi tanto i dischi non saresti mai e poi mai riuscito a procurarteli in provincia e restavi lì con una cocente curiosità insoddisfatta. Fortunatamente si cresce e si va al Poli a Torino e, invece di studiare, si va in esplorazione nei vari negozi di dischi a cercarne l’effige ed il Crimson Ghost che  finirà tragicamente per apparire in mille accessori da lì a pochi anni, molto fashion, devo dire… trattenendo a stento il profondo disgusto.

Ma viva i Misfits ora e sempre!!! Prima te li duplica un compagno metallaro (su c-90 marca scotch-3m) che non smetterai mai di ringraziare abbastanza, incurante del fatto che presto si volatilizzerà col tuo CD live dei No Means No (gran nome e gran gruppo, converrete!), poi saccheggi i suddetti negozi del capoluogo regionale spendendo in dischi ottici ciò che sarebbe servito a mantenerti un mese, finendo per dire addio non solo alle serate ai murazzi, ma anche ad un’alimentazione decente: se non è essere un fervente

Freddy Krueger

sostenitore questo! I Misfits e la loro musica fieramente ignorante, registrata in cantina e devota all’horror da quattro soldi eppure maledettamente efficaci ed impossibili da non prendere in simpatia: probabilmente sono i signori assoluti dei motivetti diabolici di cui si discuteva qualche post or sono… mi sono ritrovato a canticchiare le varie “Some Kinda Hate”, “London Dungeon”, “Skulls” e tutte le altre nelle situazioni più assurde!  A loro la mia devozione e la mia stima: siete stati veramente unici!

Per completezza, prima di andare, mi corre l’obbligo di confessare che la scelta di “American Nightmare” ha anche a che fare con la mia sfera personale visto che sono diverse notti che mi sveglio in preda al disagio ed all’angoscia causa sogni tristi e tetri. Sto iniziando seriamente ad aver paura a prendere sonno, esattamente come quei giovincelli che temevano da morire di addormentarsi per incontrare questo signore qui… se non è “American Nightmare” questo…

Neurosis: “Honor Found In Decay”

Neurosis 2012

Ai suma da bun! Ci siamo davvero! Recensire il nuovo disco di uno dei gruppi che maggiormente stimi, è davvero un’impresa simile ad attraversare un campo minato, è sicuramente qualcosa che ti mette a dura prova. Soprattutto se hai fatto di tutto per restare impermeabile alle altre recensioni che hai letto, se ti ci sei messo di impegno per cancellare dalla mente l’affetto che provi per i personaggi coinvolti, se ti sforzi di non tener conto delle emozioni incredibili che sono stati in grado di regalarti su disco e, a maggior ragione, dal vivo.

Dopo cinque anni, l’attesa era palpabile, l’ansia giustificabile. In seguito ad aver letto recensioni non sempre positive, approcciarsi al disco incuteva un certo timore perché essere delusi da un gruppo è come venire traditi da un amico, dopo riconquistarsi la fiducia è dura. Invece “Honor Found In Decay” è un disco che, seppure ascoltato ancora poche volte, mi convince e mi soddisfa. I detrattori siano avvertiti, non è poco, perché da un gruppo come i Neurosis ci si aspetta che mantengano gli standard ad un livello adeguato e così hanno fatto. Quando uscì “Given To The Rising” pensai che si stessero adagiando sugli allori, che ormai fossero soddisfatti del loro sound, che non avessero più nulla da dimostrare: era il classico disco dei Neurosis bello, in certi momenti (“The Water Is Not Enough” per dirne una) sublime, ma con qualche dubbio di fondo, circa il fatto che il percorso evolutivo straordinario che li aveva contraddistinti fin dagli anni ’90 avesse raggiunto la sua meta finale, rivelando una band eccelsa ma probabilmente un tantino statica.

Intendiamoci: stravolgimenti assoluti non ce ne sono ed è proprio stato questo uno dei fattori che mi ha fatto innamorare del gruppo: hanno una profonda coscienza della loro identità musicale e la mantengono ferma, muovendosi attorno ad essa. Ed è esattamente ciò che il nuovo disco fa e che era un po’ venuto a mancare nel precedente. Se siete fan soprattutto dei lavori come “Through Silver In Blood” o “Times Of Grace”, per non parlare dei precedenti, e pretendete un ritorno a quella formula roboante e fantastica resterete delusi e ben vi sta. Questo è forse il disco più accessibile dei Neurosis, è forse il loro lavoro che più di ogni altro ti permette di addentrarti maggiormente al suo interno, quello che oppone meno resistenza, senza dimenticarsi però che una volta dentro al loro immaginario sei in loro potere. Un po’ come fecero i russi con Napoleone, lo fecero entrare facendo terra bruciata dietro alla loro ritirata e lo lasciarono in balia del “generale inverno”. Adesso tanti auguri, scambiatela per debolezza e saranno problemi vostri.

Se da una parte ricorrono alla psichedelia, ai momenti acustici anche figli delle carriere solistiche del duo Kelly/Von Till e concedono più spazio alle tastiere di Noah Landis dall’altra il loro immaginario greve ed apocalittico non accenna a far filtrare il sole, non concede nulla alla speranza di un orizzonte meno plumbeo ed oppressivo, non arretrano di un millimetro. Le chitarre si prestano alla tattica ed aspettano nell’ombra che si presenti l’occasione giusta per assaltare l’ascoltatore, ci sono imboscate ovunque nello svolgersi dell’oretta nella quale sarete in loro balia. Non intendo aggiungere altro, se volete testarne la consistenza l’intero disco è in streaming nel sito del Roadburn Festival, un altro evento al quale sogno di partecipare, praticamente da quando esiste… peccato che non sia affatto semplice!

Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”

Godspeed You! Black Emperor

Godspeed You! Black Emperor, è uno di quei nomi in grado di farmi venire i brividi su per la spina dorsale, è il nome di un oscuro cortometraggio di bikers giapponesi, ma è anche il nome di un gruppo di musicisti canadesi, di Toronto per la precisione, che veramente si sono impressi nel mio cuore oramai molti anni fa. Molti li classificano post-rock, io sono più propenso a definire la loro musica progressiva seppur non proprio nel senso classicamente inteso, ma chiunque li ascolti si renderà conto di come la definizione sia calzante.

Il gruppo, o forse sarebbe meglio dire l’ensamble (noto precedentemente col nome Godspeed You Black Emperor!), è sempre stato piuttosto avvolto nel mistero, con un numero di membri variabili tra 9 e 15 (!),  una profonda avversione per le istituzioni musicali e non, si veda l’illustrazione nel retro del loro disco “Yanqui U.X.O.” dove si mostrano i collegamenti tra le multinazionali del disco e -per esempio- l’industria bellica, dalle spiccate tendenze ipercritiche nei confronti del governo degli Stati Uniti (lo provano anche certi spezzoni parlati nelle loro composizioni) e assolutamente refrattari a rilasciare dichiarazioni, addirittura nel 2010 hanno deciso di non farsi intervistare mai più.

Dopo la loro  partecipazione al festival All Tomorrows Parties, sempre nel 2010, l’anno del ritorno, l’ensemble è tornato in attività dopo aver abbandonato l’attività nel 2003, senza tuttavia sciogliersi ufficialmente. Durante questo 2012 (che sinceramente mi ricorderò a lungo come una delle annate musicalmente più proficue dagli anni ’90) hanno deciso di tornare sulle scene con un nuovo disco ed ascoltandolo si ritorna ad amarli come un tempo. Le loro composizioni sono, ancora una volta, lunghe, in alcuni casi lunghissime (la durata media sorpassa agevolmente i 15 minuti), raccontano percorsi, si snodano tra immagini… comunicano e ci rimettono in comunicazione con noi stessi. Stavolta forse con più spazio agli strumenti elettrici e con influenze difficilmente inglobate nel passato dal vago sentore mediorientale, hanno il pregio di lasciarsi attraversare come se si guardasse un panorama dal finestrino di un treno: un paesaggio che ha, forse, punti di partenza e di arrivo fissati, ma nel quale lo spostamento puntuale è assolutamente al centro dell’attenzione, si costruisce istante per istante in un contesto cinematico elevato ed evocativo. Per questo, una volta tanto, non posterò singoli brani ma l’intero lavoro per chiunque abbia la pazienza di immergersi in una simile, avventurosa esperienza.

Regali di Natale?

Che diritto potrà mai avere un agnostico impenitente di fare la sua richiesta per i rituali regali natalizi? Nessuno appunto. Però se siete di quelle persone (io per esempio non lo sono: amo fare regali indipendentemente dal periodo e “azzeccarli” mi da una gran soddisfazione!) che necessariamente abbisognano di una ricorrenza per fare un presente (e tenendo conto che rickenbacker e matamp sono gia stati richiesti a San Nicola in persona) ebbene ecco un regalo che contribuirebbe ad aumentare non poco il mio esiguo parco strumenti: un bel tamburo giapponese!!!! Cosa volete che costi? E’ solo ricavato da alberi centenari, ci vogliono appena una trentina di strati di vernice e quattro persone che ci camminino sopra per tendere la pelle… quisquiglie non vi pare???

Nonostante io non dovrei nemmeno pensarci, converrete che ha un suono affascinante!

Ai Suma!!!

Ai Suma“! In dialetto piemontese significa: “Ci Siamo” ma è anche la denominazione di un vino, un Barbera d’Asti, vendemmia tardiva (15,5°!), dal sapore pieno, poderoso, di grande struttura ma allo stesso tempo elegante e sensuale, armonico e molto persistente. Sarò un pazzo ma le definizioni di prima mi sembrano assolutamente calzanti per i Neurosis (!) e, al pensiero che domani esca il loro nuovo album (purtroppo il vinile si farà attendere, mi dovrò contentare, ma solo per ora, del download!), non ho potuto far altro che esclamare, nel mio dialetto d’adozione: AI SUMA!

Neurosis

L’ Ai Suma è un vino che si produce solo in annate particolarmente favorevoli, che rappresenta l’apice della produzione della sua azienda vinicola. Lo stesso può dirsi per un disco dei Neurosis che prevede che le condizioni siano favorevoli per un ritrovo dei componenti del gruppo, visto che sono sparsi tra vari stati statunitensi (l’ultima volta fu nel 2007) e sono sicuramente, da anni, all’apice della produzione per quanto riguarda la musica pesante.

Come al solito, non so resistere  e mi sono già letto buona parte delle recensioni di quei fortunati che hanno già avuto occasione di ascoltare il disco in questione… e, come al solito, giungo alla conclusione che devo ascoltarmelo per gli affari miei, possibilmente al buio o passeggiando in un bosco… insomma lontano da ogni possibile distrazione, come ogni rito religioso che si rispetti. Il meglio, probabilmente, sarebbe stappare una bottiglia di cui sopra (che, tra l’altro, ho avuto occasione di degustare: gli amici sommelier sono una benedizione!) purtroppo non sono ancora arrivato a possederne una…

A domani!

Il prologo di Melancholia

L’impossibilità del desiderio è qualcosa che occorre accettare, il premio è la serenità. Eppure Tristano arde per Isotta la Terra arde per Melancholia. La razionalità non può vincere sul sentimento. E tali unioni sono impossibili a meno che si ammetta che la loro unica conseguenza è l’annichilimento, la distruzione, il nulla. Poiché il loro amore non è di questa Terra, non appartiene a questo mondo e non può realizzarsi qui, ma solo in un altrove assoluto (a cui allude anche la buca n°19) e distinto dalla realtà materiale e terrestre. Allegoria di questo altrove è la notte, regno di visioni ed illusioni e nemica del giorno dove tutto è esplicito, assoluto, palese per azione della forza rivelatrice della luce del Sole che però, insieme all’incertezza, fa svanire anche ogni altra possibilità.

Ed in tutti quei movimenti lenti, in tutta quella resistenza al moto, in quell’affondare nel terreno fino alle ginocchia della madre che cerca di salvare il figlio, nella sposa trattenuta da mille trame oscure,  c’è il marciare dell’ Agrimensore K. verso il Castello di Franz Kafka. Nel suo avanzare, c’è la perdita di senso, il disintegrarsi della ragione, il meticoloso scomporsi dell’essere umano, che, paradossalmente, può ritrovare se stesso solo in una realtà avulsa dall’esistenza terrena e legata a doppio filo con le distanze siderali tra le stelle, con il vuoto gelido del cosmo. Il Castello che si staglia inquietante su tutti i personaggi di Melancholia è la fine definitiva dell’umanità a causa della collisione della Terra con Melancholia, ma  a questo evento tragico non viene data una valenza necessariamente negativa, poiché attraverso la collisione si realizza un amore supremo che nessun umano, che ragioni con una mente condizionata dal suo appartenere alla razza umana, potrà mai capire, un Amore del quale, tuttavia, l’intero universo è pregno, ne sono testimoni le stelle e ne sono pervase le galassie. Ad un simile sentimento tutto, l’arte compresa (la dissoluzione del capolavoro di Brueghel), può essere sacrificato.

Una tale maestosità filmica, una tale riuscita unione tra immagini e suoni, ha il suo padre riconosciuto in Stanley Kubrick (“2001 Odissea Nello Spazio”) e ne accetta ed espande il lascito. Questo post è rispettosamente dedicato a tutti i sentimenti che non hanno potuto concretizzarsi sotto il limitato orizzonte terrestre, perché possano trovare la loro dimensione.

PJ Harvey: “Fountain”

PJ Harvey

Vi parlerò della ragazza… (Nick Cave, From Her To Eternity)

Non basterà una fontana di lacrime a lavarti via da me. Non basterà una cascata di sangue ad annegare il tuo ricordo. Sappilo. Su una collina di alberi brulli e nodosi fumo una sigaretta avvelenata dietro l’altra per bruciarmi la gola, perché non c’è un’altra ragazza con cui io voglia parlare. E non c’è un altra ragazza che abbia lasciato tanto silenzio dietro di se, dentro di me. Se potessi fisicamente avvolgermi su me stesso aspetterei davvero che foglie e neve mi ricoprano nel silenzio, nell’indifferenza. Ma so che mi verranno a cercare i venti e scoperchieranno tutto. Spazzeranno via gli alberi e la terra che ci hanno fatto da testimoni. Urleranno tra i tronchi sradicati. Ed io mi guarderò dall’alto indifeso e solo come non pensavo di poter essere mai.

In seguito giunge l’alba.

La ragazza non è mai stata là, è sempre lo stesso… e correre in direzione del nulla ancora ed ancora ed ancora ed ancora… (The Cure, A Forest)

E’ la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde che io abbia mai conosciuto (Nick Cave)

Stand under
Fountain
Cool skin,
Washed clean
Wash him from me

Along comes the wind
A big bone shaker
Blows off my clothes
Completely naked
What to do
When everything’s
Left you

Out of the blue
It is he
Vision to me
Bearing leaves
Petals green
Covers me
In all my shame

Hand in hand
He’s my big man
Stays with me
Some forty days
No words
Then goes away
I cry again

On my hill I wait for wind
And on my hill I wait for wind

Motivetti Diabolici

Sì lo so, non dite nulla, ve lo leggo nello sguardo che volete che io tratti di crocicchi malfamati, New Orleans, “Sympathy For The Devil”, del blues e di “The Number Of The Beast”, ebbene non vi faccio questa concessione. Ci sono parecchi satanassi nelle canzoni che ascolto, quindi per ora basta, concedetemelo, stasera avevo in mente di dare libero sfogo alla mia nota vena positiva, postando “The Weeping Song” di Nick Cave And The Bad Seeds, anche perché sono un paio di mattine che mi sveglio dopo aver sognato di scoppiare in lacrime ed ho esattamente quella sensazione appena il sonno se ne va: come se avessi appena finito di piangere a dirotto cosa che però non è mai successa. Ma non doveva andare così, sarebbe stata una scelta scontata, nonostante ami quella canzone anche per essere finita in un cortometraggio di Wim Wenders. Il fatto è che uno di quei maledetti motivetti mi si è piazzato in testa e non ne è più uscito! I motivetti diabolici sono esattamente questo: canzonette capaci di piazzarsi tra le pieghe del cervello, tormentarti per ore o magari per giorni e facendoti sperare che si interrompa quella connessione neurale che ti rende schiavo di quella particolare sequenza di note o parole per qualche tempo lasciandoti libero… anche solo di respirare! Ecco un freddo elenco (ovviamente incompleto) di alcuni brani in grado di sortire un tale infernale effetto:

Primus- “Here Comes The Bastards”: Les Claypool è uno dei motivi per i quali ho finito per imbracciare un basso, a parte questo mi piace molto il suo immaginario improbabile e -se mi passate il termine- cartoonesco, contornato dai suoi personaggi assurdi. Il giro di basso di questo brano è assolutamente impossibile da estrarre dalle meningi!

Talking Heads- “Road To Nowhere”: I Talking Heads sono tutt’ora un mistero per me, con la loro attitudine stralunata ed impossibile tra catalogare: qui ad essere assolutamente inevitabili, per me, sono le linee vocali di Byrne e come le canta in modo sinuoso ed ipnotico. Da applausi anche il video in stop-motion: una tecnica affascinante quanto caduta in disuso…

The Proclaimers- “I’m Gonna Be”: Un accento irresistibile ed un ritmo incalzante e ripetitivo. Troppo poco? Per me è più che sufficiente per passare un paio di di giorni canticchiando questa canzoncina…

Blondie: “Heart Of Glass”: Qui il motivo dell’ossessione potrebbe essere il “U-uh oh-oh” e la voce di Debbie Harry (oltre alla sua avvenenza di cui si era accorto anche H.R. Giger), in realtà, oltre a questo, il motivo è più storico: “Heart Of Glass” è una delle prime canzoni che io mi ricordi di aver mai sentito. Da notare anche come la Harry sia l’unica del suo gruppo a sentirsi a suo agio anche dietro la telecamera!!!

The Ramones- “Surfin’ Bird”: Ve la devo anche spiegare questa??? Saltate come dei pazzi, cosa aspettate? E non scordate di fare delle facce buffe durante il “Brrrrrrrr”!!!!

‘Notte, speriamo di sognare altro stasera!!!

Vanessa Van Basten: “La Stanza Di Swedenborg”


“Mi chiami pure se ha bisogno o se ha paura.
ah, cara ragazza io non ho paura, ho già assistito dei moribondi
la mandibola scende un pochino e poi è finita
il più delle volte non succede nient’altro.
tutti gli spiriti si trovano in una zona intermedia che noi chiamiamo La Stanza di Swedenborg
ma lei non ci resterà a lungo, lei passerà dall’altra parte verso la luce.
ma deve cercare di restare là almeno qualche minuto,
qualcuno la chiamerà da dentro la luce e
forse si sentirà afferrare,
ma lei si sforzi di resistere e non muoversi da là
e ora mi risponda,
un colpo è no
due non lo so
e tre colpi vogliono dire sì
la trascinano verso la luce,
è bello stare lì.
si lasci andare, ma non completamente,
non completamente, deve restare nello stato intermedio
non vada in direzione della luce, non lasci La Stanza Di Swedenborg.”

“La Stanza Di Swdenborg” è un CD nato dalla collaborazione di tre etichette italiane (Eibon, Radiotarab, Noisecult e Coldcurrent) nel 2006, gli autori sono i genovesi Vanessa Van Basten. Il titolo proviene dritto dritto dallo sceneggiato danese “The Kingdom”, bellissima ed inquietante creazione di Lars Von Trier, da noi uscito in versione criminalmente mutilata come se fosse un monolitico film di circa quattro ore (da qualche tempo però è disponibile in versione completa in DVD, come pure il suo seguito “The Kingdom II” che però deve essere visto con i sottotitoli poiché non è mai stato doppiato). Dopo averli citati, mi sembrava giusto concedere loro lo spazio che meritano, anche perchè ho avuto occasione di avere contatti con Morgan Bellini ed apprezzarne l’attitudine. Della musica non parlo, per me, stavolta, è davvero pura emozione, impregnata di immagini in movimento, ombre elettriche, cinema. A questo lavoro sono seguiti altri due altrettanto significativi (oltre al bellissimo EP d’esordio autoprodotto)… ora sono silenti dal 2010, speriamo che rompano presto il silenzio…

Vanessa Van Basten

Questo post è per Scribacchina, grazie di tutto! Temo che con me le tinte fosche siano inevitabili, ma, secondo me, questo pugno fa un po’ meno male 🙂

Quiet In The Cave: “Tell Him He’s Dead”

Quiet In The Cave

Lo confesso, rimestare nei meandri dell’underground mi è sempre piaciuto, acquistare demo con soldi imboscati nella carta a carbone all’interno di una busta spedita nella speranza che nessuno se ne accorgesse, maneggiare vaglia e conti correnti postali, con commenti laconici nello spazio della causale, ricevere prima sgangheratissime cassette, poi CD masterizzati… in questo modo ho cercato mi mantenere un piede nel movimento sotterraneo italico e conosciuto gruppi che difficilmente sarei arrivato a conoscere diversamente. Gli anni del tape trading più spinto erano già finiti, quelli in cui pacchi si muovevano tra i continenti, tra personaggi come Max Cavalera e Nicke Andersson… però qualche buon gruppo sono arrivato a conoscerlo chessò i thrashers eporediesi Broken Glass, i black metallers milanesi Luna Inlustris, i doomsters torinesi Maelstrom oppure i gotici veneti Eventide o, sempre dalla stessa regione, i funerei Diableria che furono così gentili da mandarmi un biglietto di condoglianze (per un loro membro) assieme al CD. Sicuramente meno ruspanti le due ultime compagini che ho contattato in questo modo: i genovesi Vanessa Van Basten e i grossetani Quiet In The Cave. I primi sono ormai una consolidata realtà della musica (quasi) totalmente strumentale, influenzata da David Lynch e dalle colonne sonore, con qualche punto di contatto con il metal, i secondi una bella realtà oscura purtroppo afflitta dall’impossibilità di dare continuità alla sua azione. Sciolti e poi tornati sulle scene, ora sono di nuovo fermi… ed è un peccato.

Giungo a parlare del meritevole EP “Tell Him He’s Dead” con colpevole ritardo, ciò non toglie nulla alla qualità della proposta, in virtù della quale il gruppo meriterebbe ben altro destino. Questo perché, nonostante la produzione sia a tratti migliorabile (batteria un po’ “legata”, suono non sempre sufficientemente dinamico), la loro proposta merita. Tenendo fermi alcuni punti di riferimento come il post- Hardcore cinematico degli Isis, i rallentamenti e le dilatazioni ai limiti del post-rock e la voce di derivazione propriamente Black Metal e una naturale inclinazione alla pesantezza quando i brani lo richiedono, la loro capacità di imprimere un’impostazione personale a queste influenze appare concreta e credibile. Un’alternanza di vuoti e pieni quasi da vertigine che finisce per contornarsi d’ombra, senza tuttavia concedere troppo spazio alle citazioni. Una proposta interessante, che meriterebbe di essere ulteriormente sviscerata… ed una menzione particolare alla curata veste grafica, presentata in un digipack pregevole e ben rifinito… “Monstro” è uno dei momenti più pesanti dell’ EP.

contatti: cav3.can3m@rocketmail.com

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