Mese: novembre 2012
The end of something!
Touch your fear, don’t be afraid, don’t be afraid, It’s the end of something!
E’ incredibile a quanta gente non importi nulla della fine delle cose. Decretare la fine di una cosa qualsiasi appare come una fatica inutile ad una quantità incredibile di persone tra cui amici, parenti, fidanzate, datori di lavoro e una serie di personaggi non meglio identificati con cui, comunque, ci tocca avere a che fare. Oggi non si usa più: di solito si tronca il rapporto di netto senza tanti complimenti e chi s’è visto s’è visto. Mi sembra un po’ troppo comodo, mi sembra che tutta questa gente non abbia il coraggio di guardarti negli occhi e dirti: “guarda ciccio, è finita per questo, questo e quest’altro motivo”*. Per ovviare all’incoveniente, indubbiamente scomodo, di dover sostenere uno sguardo o prendersi la responsabilità di argomentare ciò che si sta facendo -se proprio si vuol tentare di palesare un minimo di inutile considerazione per l’interlocutore- si presentano oramai tutta una serie di metodi alternativo/tecnologici assolutamente inadatti ad una cosa del genere quali pizzini di varia natura e foggia, sms, e-mail, posta prioritaria (ed è già un lusso!) e qualsiasi cosa risulti altamente freddo ed impersonale nonché, nei casi più gravi, crudele ed insultante. Difficile far trasparire qualcosa da mezzi di comunicazione del genere: a mio parere forse la lettera in stile ottocentesco si salva, ma niente potrà mai risultare efficace quanto la classica chiacchierata faccia a faccia se vogliamo dimostrare del rispetto per il nostro interlocutore.
Per uno che poi, come il sottoscritto, fa fatica ad accettare la fine di qualsiasi cosa, direi che la cosa è assolutamente fondamentale, se non altro per mantenere il rispetto di chi mi sta di fronte. L’ inizio è basilare ma anche la fine ha la sua importanza.
*Questa espressione è un dichiarato tributo a questo perduto personaggio dell’ imprescindibile Corrado Guzzanti:
Queens Of The Stone Age: Un ritorno a casa??

Si legge in giro che Nick Olivieri collaborerà con Josh Homme per il nuovo dei Queens Of The Stone Age, una bella notizia che, pensando al passato del gruppo, mi fa felice: recuperasse anche Alfredo Hernandez (chissà che fine ha fatto) e le sonorità grezze degli inizi, credo che sarei un uomo soddisfatto. Già perchè il primo disco è senz’altro quello che sento più mio.
D’accordo che “Rated R” non era male, che “Songs For The Deaf” ha fatto loro ottenere il meritatissimo successo internazionale, ma gli ultimi due erano appena appena all’altezza. Quindi quello in cui si può concretamente sperare è un ritorno alle sonorità (o, meglio, in una loro evoluzione!) proprie del disco rosso del 2002 vista anche la confermata partecipazione del prezzemolino Dave Grohl. Ancora da decifrare invece la partecipazione di Trent Reznor, anch’essa confermata… comunque male non dovrebbe fare!
Nel frattempo Nick si è anche unito al carrozzone Kyuss lives! Il gruppo di John Garcia che ripropone le canzoni del fondamentale gruppo californiano (personalmente mi sembra una cosa triste, ma tant’è). Avendo visto due volte i Queens e seguito i Kyuss fin dall’epoca di “Blues For The Red Sun” (1992, altri vent’anni: quanta nostalgia!!!) capirete che qui l’impazienza è tanta!

20 anni? A me sembra ieri!

La questione è questa ed è semplice: i Rage Against The Machine fanno uscire oggi una versione rimasterizzata ed espansa del loro disco d’esordio, la versione in questione è ascoltabile, previa registrazione, qui. Un’operazione piuttosto comune e ruffiana di questi tempi, del resto i RATM sono da sempre nel mirino di certi duri-e-puri che sostengono l’impossibilità di poter genuinamente esprimere ribellione incidendo per una major come la Epic, uno dei primi a farglielo notare fu Mike Muir dei Sucidal Tendencies, ma alla fine dei conti fu solo uno dei tanti. Cosa pensarne? Non lo so onestamente, il dibattito è, potenzialmente, senza fine. Io mi limito ai fatti ed i fatti sono che ben pochi dischi al pari di questo (e che non siano HC) hanno saputo canalizzare il sentimento di una sana ribellione sociale, almeno per me. La prima traccia si intitola “Bombtrack” e potrebbe essere tranquillamente il titolo del disco, che, di fatto, è un enorme catalizzatore di rabbia e sembra fatto apposta per farla esplodere con una deflagrazione dirompente. Ebbene sì questo disco funziona e funziona anche a vent’anni dalla prima pubblicazione!
Il resto sono chiacchiere. Anche il fatto di vedere sdoganato il rap in un contesto di musica pesante non mi dispiace affatto, se il risultato merita come in questo caso. Comunque quella era l’epoca del crossover totale, quindi quale periodo migliore? A Los Angeles inoltre la ribellione è assolutamente nell’aria: dopo l’ ignominiosa assoluzione degli autori del pestaggio di Rodney King, esploderà definitivamente il 29 Aprile 1992, un avvenimento che la dice lunga sul sentimento che infervorava gli animi. Un sentimento del quale onestamente sento molto la mancanza oggi.

A testimonianza di quanto sopra i 16 fuck you del singolo “Killing In The Name”, le apparizioni “nudiste” contro la censura del comitato PMRC di quella simpaticona di Tipper Gore (chissà perché tutti si ricordano sempre e solo del marito), la scalata di Tim C ai Music Award, le campagne per Mamia e la libertà di stampa e di opinione. Successivamente verranno il retrogusto amaro (ma non amarissimo) del secondo lavoro “Evil Empire”, che si è fatto attendere per un tempo allora lunghissimo (4 anni!), per poi possedere ben poco della carica dell’esordio, comunque il gruppo si riprende abbastanza bene nel 1999 con “The Battle Of Los Angeles”, durante il tour del quale ebbi la possibilità di vederli, come testimonia una cassetta registrata nell’occasione nella quale mi si sente urlare come un ossesso!
Successivamente la storia recita che ci sarà solo il tempo per una compilation di cover (“Renegades”) prima che il cantante segua i suoi progetti (tutti più o meno inconcludenti) ed il resto del gruppo si unisca a Chris Cornell dei Soundgarden per formare i, non ispiratissimi, Audioslave. Ovviamente si sono riformati di recente, facendo dei concerti e nulla più, questo a testimoniare che, escludendo il primo lavoro, produrre del nuovo materiale è, per loro, un’impresa quantomai ardua.
Piss Christ

Volete scatenare un putiferio? Immergete un crocifisso di plastica nella vostra urina dopo di che fotografatelo. Ah no, scusatemi, l’idea era già venuta al fotografo americano Andres Serrano, nel 1987. Famoso nel mondo del metal per le copertine di due pessimi dischi dei metallica come “Load” e “Re-Load”, in pochi si ricordano che invece quest’opera, cruciale nella definizione della libertà di espressione negli anni contemporanei, ispirò un omonimo brano dei Fear Factory nel loro disco-caposaldo “Demanufacture” del 1995. Benchè io ponga, quasi più per completezza, il brano in calce a questo post, il caso di “Piss Christ” è emblematico di come non si possa etichettare l’arte e nemmeno pretendere di capirla con un’occhiata furtiva o con superficialità.
Soprattutto pone un quesito cruciale circa i limiti entro i quali l’arte può e debba muoversi e che obblighi abbia un’artista circa l’interpretazione che la gente da della sua opera. Se chiedete la mia opinione, fatti salvi i diritti di menti particolarmente sensibili (vedasi i minori, per esempio) non vedo il punto nel limitare l’arte in qualche modo. Tutto si fa difficile nei tempi recenti quando il confine fra ciò che è artistico e ciò che non lo è si è fatto sempre più sottile, in questi casi direi che è molto importante seguire il percorso che ha portato l’artista a produrre determinate opere e quale sia il retroterra concettuale, storico e espressivo. Da questo punto di vista Serrano è ineccepibile: un fotografo che inizialmente si è fatto conoscere per l’uso di fluidi corporei, che si è contraddistinto per la forte vena provocatoria, benché non fine a se stessa ed anche per un rigore estetico forte come può essere riscontrato nella sua serie di fotografie “Morgue” nelle quali sono riprodotte immagini di salme, che però non possono non riportare alla mente i dipinti di un maestro indiscusso come Michelangelo Merisi, il Caravaggio, se si pensa soprattutto ad un dipinto non meno provocatorio come “La Morte Della Vergine” dove la Vergine viene ritratta terrea e con il ventre gonfio e le leggende dell’epoca narrano che il pittore lombardo abbia, sacrilegio dei sacrilegi, utilizzato il cadavere di una prostituta rispescata dal Tevere come modello…. Al confronto Serrano era un dilettante, anche considerato il periodo nel quale viene dipinta e concepita l’opera Caravaggesca!
Altra questione riguarda la necessità di dare spiegazioni circa il significato di un’opera. Personalmente sono contrario, sono del parere piuttosto comune che una volta che un’opera sia stata resa pubblica poi sta a chi ne usufruisce trarne il messaggio (un po’ quello che dice anche Jacob Bannon dei Converge in una recente intervista), tanto sarà comunque difficile che abbia la chiave di lettura per capire le reali intenzioni dell’autore, i cui commenti, qualora sentisse di doverne fare, restano da tenere in considerazione ma non sono e non possono essere limitanti.
Nel caso di Serrano non fornire spiegazioni (almeno non mi risulta che l’abbia mai fatto!?) ha senz’altro giovato alla sua opera considerando che c’era chi la difendeva a spada tratta in nome della libertà di espressione ed anche del fatto che l’opera esprimesse il rapporto tra la società moderna e la figura di Gesù Cristo e i valori che rappresenta. Com’è ovvio che succeda altri invece presero di mira l’opera tacciandola di blasfemia, volendo far ritirare i premi che aveva vinto e portando il dibattito nientemeno che al senato degli USA. In Australia andarono oltre danneggiando direttamente l’opera. Ma la domanda è: se la fede è forte e radicata nell’animo come può una semplice opera prodotta da un umano fallace offenderla?
Where are we now?
When we are blind
Abandoned faith
You left behind
Where you betrayed?
Or did you lie?
Our common fate
Our common demise
Where is the son?
To light the way
Along the path
Of our dismay
Look to the sky
On judgement day
A human god
That was man-made
So we lie
So we lie
So we lie
So we lie
And so we rise
Just to fall down
In reality
You’re never found
I’m reaching out
With sealed eyes
I grab for light
Visions decried
[Repeat fourth verse]
So we lie
So we lie
So we lie
So we lie
Face down, arms out
Nailed to the cross of doubt
Blood runs like rain
Drowning for this world in vain
Crown of black thorns
Human skin, ripped and torn
Crown of black thorns
Human skin, ripped and torn
Where is your savior now?
Where is your savior now?
Where is your savior now?
Where is your savior now?
Soundgarden: “King Animal”

Sedici anni sono un età balorda, adolescenti in pieno: crisi di valori, di autorità, di ormoni. Tanto tempo hanno impiegato i Soundgarden, probabilmente il gruppo più precoce (si sono formati nel 1984) e pesante della scena di Seattle, a ritornare insieme ed incidere un nuovo lavoro. Divorato dal dubbio amletico solito sui gruppi che ritornano insieme a distanza di tempo dalla loro ultima fatica, ho avuto nei confronti di “King Animal” un approccio davvero cauto. Ed ho aspettato che qualcuno mettesse su youtube il disco intero anziché procedere all’acquisto a scatola chiusa.
Quando una recensione parte con delle premesse c’è da preoccuparsi, ve lo dico subito. Le premesse sono che almeno il gruppo è ritornato nella formazione originale Cornell-Thayil-Cameron-Shepherd, che non sembra che l’abbiano fatto necessariamente per denaro, che la voce di Cornell non è quella di un tempo ma non si è nemmeno rovinata del tutto, che comunque non è un disco privo di dignità.
Tuttavia le mie previsioni sono che finirà a prendere polvere nella vostra collezione di CD, nei pochi negozi di dischi sopravvissuti ed anche nel web. Perché una volta passata la carica emotiva che accompagna dischi del genere, soprattutto se, all’epoca, si è stati fan, non rimarrà molto di questo “King Animal”, e soprattutto non ci sarà molto che vi spingerà a riprenderlo in mano e a pensare… “ebbene sì, questo è un gran disco!” come potreste fare con “Badmotorfinger”, “Superunknown” e al limite anche con “Louder Than Love”.
Sono 13 canzoni che si susseguono nell’ansia, nella speranza che qualcosa succeda, che una linea vocale rimanga impressa, che un giro di chitarra faccia sobbalzare, che Ben Shepherd tiri fuori quella vena compositiva stralunata che aveva reso memorabili canzoni come “Head Down”, che Cameron sfoderi il suo proverbiale tocco alla batteria. E tutto questo c’è ma si intravvede appena all’orizzonte, inoltre dov’è finita la pesantezza del suono che aveva reso grandi canzoni come “4th of July” e “Slaves & Bulldozers”? Si sono perse nella maturità del suono? Allora sarebbe veramente meglio rimanere immaturi a vita! Ripeto: il disco è dignitoso ed ha i suoi momenti, ma non intendo accontentarmi quando si tratta dei Soundgarden!
Deftones: “Koi No Yokan”

Con i Deftones personalmente si ritorna alla fine degli anni ’90, visto che nonostante li abbia comunque ascoltati, i loro CD, dopo il quarto, sono avvolti nella nebbia… mi rimangono offuscati rispetto all’assalto di “Adrenaline”, alla passionalità nervosa e sofferta di “Around The Fur”, alla rinnovata energia dell’eclettico e poliedrico “White Pony” o anche al più normalizzato “Deftones” nel quale la nebbia che avvolge “Saturday Night Wrist” e “Diamond Eyes” incomincia ad alzarsi.
Non che quei due lavori segnino una caduta verticale del guppo dal punto di vista qualitativo, semplicemente non sono rimasti impressi nella mia memoria come avrebbero dovuto, complice forse anche il mio avvicinarmi a musiche e modi di esprimersi diversi. Personalmente sono attaccatissimo a lavori come “Around The Fur” che me li fece scoprire in un momento tragico delle mia esistenza e che diventò lo specchio di un’esistenza spezzata e dolente, che non ne voleva più sapere nulla di niente e di nessuno… quasi annichilita. Poi c’è “White Pony” che fu come una linea bianca sullo sfondo nero dell’esistenza, a volte luminosa, a volte algida, altre asettica comunque sempre in risalto. Dopo il tragico incidente che è quasi costato la vita al loro bassista storico Chi Cheng nel 2008 la band ha dovuto rimettersi in gioco e continuare per la sua strada con un’innegabile peso nel cuore, per altro condiviso da molti amici che sono stati loro vicino come, sui tutti, Fieldy dei Korn.

Con il sostituto Sergio Vega, si sono creati nuovi equilibri, ma il gruppo ha continuato per la sua strada e, ad un primo ascolto, sembra proprio che “Koi No Yokan” abbia recuperato quella capacità di rimanere incisa nella memoria collettiva. L’ispirazione finalmente diventa nitida. E riemergono tutti quegli elementi che li hanno contraddistinti, dall’amore viscerale per la New Wave albionica che rese memorabili alcune loro covers che poi entrarono in un disco di rarità (“Please, please, please let me get what I want”, “To have and to hold” e “The Chaffeur” le prime che mi vengono in mente) al gusto per i momenti maggiormente dilatati, figlio del Trip-Hop anni novanta, che li ha portati ad avere nei ranghi il dj Frank Delgado fin dal 2000, alla inestimabile bravura vocale del cantante Chino Moreno che sembra andare da sempre a braccetto con il vigoroso chitarrismo di Stephen Carpenter. Oggi questi elementi appaiono rispolverati e messi a lucido nel nuovo disco, con buona pace di tutti quei fan, come il sottoscritto, che li hanno portati nel cuore ma che per un motivo o un’altro li avevano un po’ allontanati dalle orecchie. Bentornati!
Orgoglio italiano!
Che io non ami particolarmente la musica italiana è cosa risaputa. Che non possa soffrire argomenti triti e ritriti, arrangiamenti e musica stucchevoli è addirittura palese, per non giungere a parlare di quell’ignobile baraccone che è Sanremo che, se fosse possibile, mi rifiuterei categoricamente di finanziare col mio sudatissimo canone… eppure questi fenomeni sussistono e sono (temo) impossibili da deradicare nemmeno con la violenza intellettuale o fisica che sia.
Se penso al panorama italico mi assale un gran sconforto, non come metallaro, ma proprio come amante della musica! Mi sembra di essere senza speranza. Sarà pur vero che ho passato un anno della mia vita a consumare i primi tre dischi (più due dischi dal vivo) dei Litfiba, trovandoli tra le cose migliori mai prodotte nel nostro paese, almeno a livello di fenomeno giovanile. Poi ad un livello di nicchia c’è da dire che l’Italia può vantare un vasto e rilevante movimento progressive rock negli anni ’70 la cui punta di diamante è (almeno a livello di popolarità anche e soprattutto extra-italica) la (gloriosa) Premiata Forneria Marconi PFM, senza però dimenticare gruppi come Area (ammesso che si possano definire progressive), Le Orme, il primo Battiato e, quelli che personalmente preferisco, ovvero una sorta di ‘Sabbath italiani, i Balletto Di Bronzo. Maggiormente di nicchia è poi, negli anni ottanta, il movimento hardcore nell’ambito del quale l’Italia ha recitato un ruolo di primaria importanza nell’ambito del punk internazionale tramite gruppi come Negazione, Nerorgasmo, Upset Noise, Fall Out, Wretched, I Refuse It e Stige, solo per citarne alcuni.
Però ciò che ha risollevato a livello popolare la musica italiana, a mio parere, sono senza dubbio i cantautori, di seguito una fredda lista dei miei preferiti (ovviamente l’ordine non conta):
– Fabrizio De Andrè: Difficile aggiungere la propria voce al coro che accompagna, lodandolo, quello che, a tutti gli effetti, rimane un poeta ispiratissimo dal raffinato gusto musicale, i cui testi non possono non imprimersi a fuoco nella memoria di chi li ascolta. Non aggiungerò parola, salvo dire che tra tutti, il suo disco che amo di più è uno di quelli meno citati, il suo lavoro “Tutti morimmo a stento” (cantata in si minore per solo, coro ed orchestra, del 1968). Un disco cupo, iper arrangiato, che sembra affossare ogni speranza anche quando propone scorci che sembrano assomigliare più a quadri impressionistici che a una canzone vera e propria come nel caso di quel brano che mi permetto umilmente di proporre, un brano che letteralmente mi squarcia in due…
– Paolo Conte: Astigiano, proviene dalla mia regione di adozione ed è un musicista e compositore sopraffino, al punto che quando venne dalle mie parti stregò letteralmente me e la mia famiglia (alla quale avevo pagato l’ingresso senza battere ciglio) con un concerto sublime sia dal punto della presenza scenica (un carisma unico!) che, ovviamente, da quello musicale ed interpretativo. Tuttavia quello che mi conquista sul serio del cantautore è il fatto che mi sembra di parlare con mio nonno… di sentire le storie di appena dopo la guerra, come testimoniano tanti testi da “Topolino amaranto” a “Genova per noi” dove sembra proprio descrivere l’inquietudine di un astigiano che, magari già in età avanzata, veda il mare per la prima volta.
– Francesco Guccini: Dell’emiliano ammiro il lato rustico ed anche la lucidità che ha nell’affronatare certi temi come la contestazione giovanile -“Eskimo”- oppure l’occupazione della Cecoslovacchia -la bellissima “Primavera di Praga”- o anche solo il tempo che passa -la tristissima “Compleanno”-. Poi, oltre a questo, ha scritto una canzone su di me:
– Franco Battiato: Ci ho messo un bel pezzo ad apprezzare il siciliano… alla partenza piuttosto sperimentale, per diventare sottile e ispirato cantautore negli anni ’80, fino alla attuale aristocrazia intellettuale. Canzoni, anche quelle sentimentali, come possono essere “La stagione dell’amore”, “E ti vengo a cercare” o “La cura”, che sono tutto tranne che banali o compiacenti nei confronti del pubblico. Come tacere poi delle suggestioni di “Summer on a solitary beach” o del richiamo di “Patriots” o di “Povera Patria”? Quello che ho scelto tuttavia è qualcosa di ancora diverso:
– Luigi Tenco: Quello che mi ha colpito immediatamente dell’artista ligure si può riassumere con un termine solo, dalle mille sfaccettature, ovvero: sensibilità… nelle musiche e nelle liriche, la sua opera ne è intrisa oltre ogni dire… difficile dire se poi l’abbia reso fragile al punto da fargli porre fine alla sua stessa vita…
Corrosion Of Conformity: “Megalodon”

Esiste qualcosa di “più metal” di produrre automobili? Bisognerebbe chiedere alla Toyota che tramite la sua Scion Audio/Visual, ha già fatto uscire (download gratuito) un EP dei gloriosi Melvins (“The Bulls And The Bees”) e, in questi giorni, ha provveduto a far uscire un EP sempre a downloading gratuito dei veterani COC che avevo avuto l’occasione di vedere in formazione trio la scorsa primavera alla Rock’n’roll Arena a Romagnano Sesia (NO). L’EP il questione si chiama “Megalodon” è musicalmente piacevole per chi abbia apprezzato anche la formazione senza Pepper Keenan, nessuna rivoluzione nel suono di sorta, sono i Corrosion che abbiamo apprezzato su disco (l’ultimo omonimo) e che conosciamo bene da tempo.
Personalmente credo che i COC abbiano più che dimostrato il loro eclettismo musicale partendo da un disco intransigentemente HC come “Eye For An Eye” per poi far entrare elementi decisamente più metal, quando i due generi si guardavano quantomeno in cagnesco, per passare ad una forma di Thrash personale (“Blind”), fino ad essere folgorati sulla via di Damasco dal Verbo dei ‘Sabbath nel loro periodo di massima popolarità nei ’90 (l’indimenticato “Deliverance”). Non li si può certo tacciare di immobilismo sonoro come si potrebbe fare con gli AC/DC! Quindi adesso non mi sembra il caso di sindacare sul loro immobilismo temporaneo: la loro ultima ultima incarnazione incorpora l’ urgenza di dischi come “Animosity” con il suono molto più settantiano che li contraddistingueva negli anni novanta, e poi alla fin fine a caval donato… non si guarda in bocca, non vi pare???
L’indirizzo al quale bisogna presentarsi è questo qui… se riuscite a capire come funziona, io ho dato loro la mia mail ma non è ancora arrivato nulla… magari sono troppo impaziente io, comunque, mentre pazientate potrete sempre guardare un video:
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