CLIFF BURTON (February 10, 1962 – September 27, 1986)
Questa è preistoria ma chissenefrega, vogliamo proprio soffermarci sul momento attuale? No, visto anche il post precedente direi di no. Il 27 settembre del 1986 moriva in un incidente stradale Clifford Lee Burton, bassista dei Metallica che, con lui nei ranghi, potevano ancora permettersi la “M” maiuscola. Si era giocato il posto sul tour bus con Kirk Hammett e aveva vinto, se non fosse che proprio quel posto vinto a carte, gli risultò fatale quando il bus finì fuori controllo pare anche a causa dello stato di ebrezza del guidatore.
Così di quel ragazzo coi pantaloni a zampa e il tatuaggio del Crimson Ghost dei Misfits terminò la sua esistenza terrena. Una tragica, tragicissima, fatalità che porta alla memoria anche quella che vide protagonista Randy Rhoads, per dirne una. Non osi nemmeno chiamarla sfortuna, a mala pena riesci a sussurrare “disgrazia”, resti semplicemente senza parole. All’epoca non ascoltavo ancora i metallica e non li ascolto più nemmeno adesso. Il modo con cui hanno continuato la loro carriera mi ha disgustato, ma, nonostante tutto, un posto speciale nei miei pensieri per Cliff c’è e penso ci sarà sempre. Mi piaceva il suo stile ed il suo modo di essere e anche, diciamolo, il suo modo di suonare. Ed era d’obbligo ricordarlo!
L’importanza di chiamarsi Slayer, Sepultura, Alice In Chains, Annihilator… tanto per dire. Accedo alla sezione “lettore” mi appare questo inquietante articolo: ma no dai no. Basta. Non ne posso più di vedere queste telenovele con protagonisti i miei gruppi preferiti, diamoci una calmata suvvia. I Sepultura senza i fratelli Cavalera? Gli Slayer che passano sopra con nonchalance alla defezione di uno dei migliori batteristi metal (Dave Lombardo) e, soprattutto, alla triste dipartita di Jeff Hanneman? Jerry Cantrell che, una volta accortosi che il suo nome non tira, ripesca il vecchio nome ed i vecchi compagni alla faccia di Layne Staley? Gli Annihilator… no vabbeh qui forse ho sbagliato esempio che son sempre stati solo Jeff Waters e basta, siamo d’accordo.
Ed ora anche gli Entombed, fanno disfano: non si sa cosa fanno. I Dismember si sono arresi definitivamente, forse era l’unica cosa da fare. E’ pur vero che gli Entombed non sono nuovi alla telenovela, vedasi l’allontanamento di Petrov nel periodo di “Clandestine”, ma da dei poco-più-che-adolescenti te lo aspetti anche, adesso stiamo veramente rasentando il ridicolo. Pensavo di averle viste tutte coi Doors senza Jim Morrison,
Che poi il mio lato pragmatico lo capisce anche che uno non possa mettersi a lavorare in fabbrica a 40 anni suonati, la maggior parte dei quali spesi a coltivare un gruppo death metal. Posso anche capirlo razionalmente, ma la mia parte passionale sta vomitando bile. Sul serio: già erano rimaneggiatissimi senza, nell’ordine, Nicke Andersson, Ulf Cederlund (e volendo anche Jörg Sandström), però almeno c’erano, qualcosa era rimasto, e chiunque li abbia visti dal vivo con l’ultima formazione può testimoniarlo (io li vidi a Rossiglione al festival di Trevor dei Sadist). Adesso sono l’ennesimo gruppo nella polvere. Totalmente fuori controllo. C’è solo da augurarsi che sia l’ultimo, ma sono il primo a non crederci…
Non leggo mai l’introduzione di un libro, non ne leggo mai nemmeno la postfazione, le recensioni e raramente ascolto le altrui opinioni, a volte posso raccogliere delle influenze esterne ed a volte no. Quando raccolgo delle influenze esterne capita che lo faccia traendo spunto dalla musica. Lessi, e diventò uno dei miei libri preferiti, “E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo per via di “One ” dei Metallica (ah, che tristezza i Metallica), oppure “La peste” di Camus grazie a “Killing An Arab” dei Cure, “La Campana di vetro” di Sylvia Plath grazie agli High On Fire e così via.
Quando seppi che “Paranoid Android” dei Radiohead (che apprezzo solo a tratti) era ispirato a “Guida galattica per autostoppisti” mi avvicinai a questo libro di Douglas Adams e, cosa strana, ne lessi anche l’introduzione. Lì viene narrata anche la genesi del libro che è qualcosa di singolare…
L’autore si trova a girovagare, a forza di passaggi ricevuti a caso, per l’Europa all’inizio degli anni ’70. L’inglese non credo fosse diffuso ai livelli odierni e, dopo aver cercato inutilmente di ottenere informazioni dai passanti viennesi, decide che fosse il caso di ingurgitare un paio di birre. Due gösser a stomaco vuoto penso che possano fare un certo effetto.
E l’effetto fu che il nostro Douglas si assopì in un prato cittadino e, svegliandosi a notte fonda, aprì gli occhi e osservò le stelle. Pensò che se ci fosse stata una “Guida galattica per autostoppisti” sarebbe partito subito. E ne tirò fuori addirittura una serie radiofonica, un ciclo completo di libri e credo un film. Potere della birra. Potere alla birra!
Ad un tratto un punto di fuga si palesa all’orizzonte. Una terapia per l’abitudine, Una forzata distrazione da ciò che distrae. Avanza. Ti inghiotte e ti risputa fuori. Sano, disintossicato e vulnerabile alle porte del mondo. Fa freddo. Una dura lezione da imparare. Una lezione che un padre comprensivo ha aspettato fin troppo per impartire. Un colpo secco al retro delle ginocchia. Il fragore delle rotule incrinate che si scontano col terreno. Alla fine chi voleva scappare è stato ripreso. La rivincita della realtà. I nodi che vengono al pettine, le gambette corte delle bugie.
Guarda guarda 43 anni senza Jimi Hendrix. E’ passato così tanto tempo che di lui non dovrebbe rimanere che il fantasma, la chitarra bruciacchiata in mano a Red Ronnie (oddio!!!) e qualche valvola fusa. Non ho mai amato le stratocaster: le ho sempre trovate chitarre senz’anima, versatili e comode, adatte a molti generi ma, proprio per questo, senza una loro personalità definita. Se suoni una Gibson facile che tu ti cimenti con blues, hard rock o superiori, se suoni una Carvin magari fai fusion, se spendi dei soldi per una Parker facilmente lavori all’ufficio brevetti. Ma con una stratocaster ci suoni di tutto. La trovi in mano ad un Gilmour come ad un Blackmore, ad un Jeff Beck come a un Dave Murray, suvvia.
Eppure nessuno le ha mai dato fuoco con la benzina, soprattutto nessuno le ha mai dato fuoco anche senza benzina. Nessuno l’ha mai girata al contrario e fatta suonare a quel modo. Nessuno le ha mai donato un’ anima, almeno non grande come quella scaturiva dalle sue dita. Provateci, non ci riuscirete. I microsolchi si sono saturati di epigoni, i giornali si sono sperticati in elogi… io stesso, nella mia immodestia e a corto di argomenti, sono stato tratto di impaccio da un ventisettenne che mi sorride da una fotografia. Vi sembra davvero morto?
Se mi fosse concesso di chiedergli di suonare una sola canzone, gli chiederei questa e passerei tutta la rimanente vita a pentirmi…
Sono stato piuttosto assente, ma non perché io abbia dovuto essere presente qui, nella vita reale. Sono stato proprio latitante da questo blog, dalla scrittura: una sorta di disconnessione, di assenza di argomenti e di ispirazione, di solito si dice che è un periodo, di solito si è (o si cerca di essere) piuttosto comprensivi con noi stessi in questi frangenti. Lo vedete, non so di cosa sto parlando. Meglio: non so di cosa parlare.
Accessi di ira, di commiserazione, di panico. Una gran confusione. Un gran vuoto di idee. Disorientamento. Mi muovo circospetto sperando di non attirare attenzione. E continuo a non sapere che scrivere. C’era una volta un foglio bianco che giaceva sul fondo di un cassetto. C’era una vita da vivere, sogni da seppellire, sguardi da sostenere. Movimenti furtivi, che a farli mi vien quasi da ridere. C’è chi sostiene che è come spremere un limone, una volta finito il succo non rimane che la scorza, che probabilmente viene ritenuta una sorta di scarto, anche se io di solito la mangio, a meno che non sia trattata… Il punto è che io non credo sia vero nemmeno quello, da quando questo blog è nella versione nuova ho trattato molti argomenti che mi stavano a cuore e a volte mi sembra davvero di averli esauriti, ma sarebbe come dire che la vita non ha più stimoli o che scrivere non mi “serve” più e… no dai non scherziamo.
E’ solo che non colgo gli stimoli, che non sono ricettivo, non so trasformare l’esperienza e renderla a parole che, a mio insidacabile giudizio, risultino un minimo interessanti per chi legge… e ci sono blog pieni di esperienze e vite personali, di solito hanno anche più successo di questo. Ma io non riesco a parlare di me stesso in modo esplicito: a parte rari casi mi sembra davvero un accumulo smodato di noia. Preferisco lasciare intuire me stesso, se ci riesco. Sarò riservato, probabilmente anche troppo: è un mio limite? Possibilissimo… ma tanto non so rinunciarci. Tengo le mie cose intime in una scatola e la seppellisco, per me stesso e nemmeno per i posteri. Poi ci sarà sempre il dovuto spazio per esprimersi… è fisiologico, occorre solo che la predisposizione torni. E lo farà.
Un sentito ringraziamento a Zeusstamina per l’award: purtroppo l’indolenza mi ha vinto ma il riconoscimento è stato altamente apprezzato, grazie!
…e suonavano da dio, nonostante tutti i dubbi che io possa nutrire sulla sua esistenza. Non fu amore al primo ascolto però, quando ascoltai la leggendaria “Freedom Run” dal dj Mixo su radiorai nel lontano 1992, mi domandai che strana razza di bestia sonora fossero, che cosa fosse quello che all’epoca non seppi definire altrimenti: “magma sonoro”, amalgamava in un tutt’uno incandescente basso e chitarra, quella voce tanto roca quanto appuntita e singolare. Fortunatamente mi incuriosirono a sufficienza e, nel giro di poche settimane, feci mia quella colonna portante del suono anni ’90 (insieme a dischi come The Downward Spiral, Omnio, Troublegum, Left Hand Path, Necroticism, Vulgar Display Of Power, Demanufature o anche Nevermind) che è, e sarà sempre, Blues For The Red Sun. Da lì in poi sì che è stato amore, appassionato e totale. Adoro e adorerò sempre i Kyuss. Con quel nome tratto non si sa bene dove (una vecchia intervista su rumore diceva che poteva essere il nome di un videogioco da bar, addirittura? Qualcuno sostiene provenga da dungeons and dragons…) e quel suono che riconosci dopo due secondi netti. Non riuscii mai a vederli dal vivo, con mio sommo dispiacere riuscii a vederli solo “a pezzi” a cavallo tra i ’90 e i 2000 durante il primo tour di QOTSA e Unida. A distanza di tanto tempo oggi i due personaggi attorno ai quali i Kyuss sono sempre gravitati (Homme/Garcia) sono tornati con un disco a testa dei loro rispettivi progetti e quale occasione migliore per stilare un paragone tra i due?
Josh Homme, in pigiama macchiato (!), durante il primo tour dei Queens Of The Stone Age. (Credit to me!)
Josh Homme: Inizialmente quello che ne esce meglio tra i due, rompe decisamente con il vecchio suono dei Kyuss, introducendo quello che lui stesso chiamerà robot-rock, che lascia ancora intravvedere qualche sonorità in comune con quelle della band madre, ma sterza verso un rock meno saturo e più sbilenco, fatto di riffs che si attorcigliano su loro stessi, stralunati e coinvolgenti.
La gloria dura tre album, dei quali: il primo è un ottimo motivo per il quale strapparsi i capelli, il secondo è forse troppo figlio delle adorate “desert sessions” ma risulta ancora assolutamente godibile ed il terzo è quello dell’esplosione, con nomi altisonanti (Grohl, Lanegan), struttura radiofonica e canzoni che attirano il pubblico come mai prima di allora. Poi però le cose si sfaldano, Nick Olivieri lascia (dopo che l’aveva fatto anche Alfredo “che fine hai fatto?” Hernandez, nel disco prima), le idee cominciano a mancare, nonostante da più parti li si innanzi a salvatori dello stanco carrozzone denominato rock and roll.
Seguono due dischi che solo a tratti (moooolto sporadici) riportano alla mente il gran gruppo che furono e, quest’anno, il pluriannunciato “Like Clockwork” che, nonostante venga annunciato in ripresa rispetto ai lavori precedenti -e la cosa è anche parzialmente vera-, continua a farmi piangere calde lacrime se considero, anche solo lontanamente, la grandezza dell’ esordio. Magari un po’ meglio i Them Crooked Vultures ma appena un po’…
Troppe responsabilità sulle spalle di un uomo solo? Stanchezza artistica? Un patrimonio delapidato, nella migliore tradizione? Non so rispondere e non so nemmeno che senso abbia, certo che mi spiace, come quando una cosa si trascina avanti per inerzia e non mi sento più di seguirla…
John Garcia al tempo del primo tour degli Unida (credit to me!)
John Garcia: Qui il discorso si fa più caotico e intricato.Tanti progetti e collaborazioni che sono anche difficili da seguire, subito partito (a bomba!) con i fantastici Slo-Burn autori di soli quattro brani, ma con un furore incendiario che pochissimi altri gruppi possono vantare. Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, alla faccia del nome. Appare subito chiaro a tutti che lui è l’erede più diretto del lascito kyuss-iano, almeno dal punto di vista della continuità. E poi la sfortuna. Rotture e disavventure, dopo la fine prematura degli Slo- Burn, gli Unida che apparivano molto più che promettenti dopo uno split ed un disco, si vedono tarpare le ali al momento di pubblicare il secondo, gli Hermano che paiono più un progetto che altro e i fumosi Mad City Rockers.
Visto il suo passato rimette in piedi una reunion-karaoke denominata Kyuss Lives!, pare guardata con sospetto dal chitarrista originale e rispetto alla quale non so cosa pensare, mi sembra legittimo che, dopo tanta sfiga, possa trarre anche qualche beneficio da cotanto passato… magari sono troppo indulgente. Poi da quella esperienza nascono i Vista Chino, il cui disco è uscito in questi giorni.
Il chitarrista Bruno Fevery sembra uscito dritto dritto da una lezione dello zio Josh, tanto che quando parte “Planets 1+2” mi viene quasi da canticchiare una strofa dei Kyuss. Ma poi il disco non è quello di una cover band e si sente. Come leggevo su una saggia recensione esistono due modi di avere successo: innovare e restare fedeli a se stessi, come dire Josh e John. Facile no? Eppure, in fondo, mi sa che alla fine ha ragione….
Nick Olivieri, al tempo del primo tour dei QOTSA (credit… indovinate?)
Nick Olivieri: Non bastasse che è un bassista, tiene allegramente il piede in due scarpe (con amicizia, s’intende!) e ha anche tempo da dedicare al suo progetto (Mondo Generator). Non male, no?
Pier Vittorio Tondelli, Altri Libertini, Feltrinelli 1980
Dopo aver rimandato mille volte a causa di chissà quali paventati impegni, quest’estate ho fatto la conoscenza di “Altri Libertini” di Pier Vittorio Tondelli. Amo i libri censurati ed amo chi li censura perché mi ricorda che la libertà di espressione è una conquista. Finché ci sarà censura ci sarà anche chi si batte contro di essa e questa è un’ottima cosa, tempra il carattere, fortifica lo spirito ed inorgoglisce l’arte. Di solito si tratta di persone interessanti che sanno quale valore abbia la lotta e quanto bello sia esprimersi senza dover pensare a quanto questo possa urtare i benpensanti. Ci vogliono anche loro: è un ruolo fondamentale perché altrimenti non saremmo schifati abbastanza dallo squallore del loro essere limitati e si finirebbe in un paludoso quieto vivere che è anche peggio della censura.
Non ci fa paura, anzi ci stimola a non desistere e, se siamo fortunati, ci fa anche pubblicità gratuita.
Buona parte dei benpensanti arriva dalla provincia, che è un luogo magico. Non a caso “Altri Libertini” venne messo sotto sequestro (risibile, considerato che il libro era ormai alla terza edizione) dalla procura dell’Aquila, che pure dovrebbe essere città universitaria ed aperta culturalmente parlando. La provincia, dicevamo, un luogo dove la cultura più fastidiosa viene tenuta fuori dalla porta. Un luogo dove non arrivavano certi dischi prima degli anni novanta. Un luogo dove il denaro, la razza e il conformismo sono ancora dei valori, se dio vuole. Un luogo dove per lungo tempo non si è fatto altro che lavorare e tacere, forse pregare.
Ritrovarsi fuori dal caotico rimescolamento metropolitano e godersi la quiete ha il suo prezzo ed è questo. Io e l’altra metà del bassistico duo l’abbiamo chiamato “calamitone” e Biella ce l’ha e piuttosto potente. E’ quella forza che ti attira nuovamente alla tua piccola e ristretta cittadina, quando tenti di andare ad un concerto e lei sfodera nebbia e neve per fermarti, è quel torpore dell’anima che ti fa pensare che, in fondo, non è tanto male rimanere a casa a roderti il fegato, è quel sinistro richiamo all’indolenza, al quieto vivere, al silenzio-assenso, è quel quieto tramare dei tuoi concittadini quando si accorgono che stai facendo del tuo meglio per sottrarti al magnetismo seducente e comodo della mediocrità e cercano di trascinarti nuovamente verso il loro baricentro paludoso. Ce l’ha anche Correggio, Tondelli l’aveva già descritto trent’anni prima di noi. E’ tutto in “Autobahn” l’ultimo racconto del libro, il resto sta al lettore curioso scoprirlo.
Una frase di Polly Jean Harvey mi ha sempre colpito. Diceva essenzialmente che si inizia a scrivere perché non si riesce più a parlare. Si inizia a parlare per imitare i genitori, si inizia a cantare per imitare i cantanti, si inizia a pensare perché la mera esistenza annoia: è fatta di un vuoto che gli umani non sanno sostenere. Gli animali, forse sì, ma anche loro si tengono occupati con qualcosa: la caccia, il gioco, l’ozio, non ho mai capito se a volte si annoiano, di sicuro sorridono.
Questo per dire che come scrittore ho dei limiti seri. Dal punto di vista linguistico/ ortografico/ sintattico la cosa è palese. Dal punto di vista tematico forse anche, ma adesso esplicito meglio la cosa. Come, o forse all’inverso, dell’incipit di Anna Karienina, che mi abbagliò di consapevolezza quando lo lessi (“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”), sono sempre stato convinto che la spinta alla scrittura mi derivasse dalle esperienze negative: dal dolore, dall’indolenza, dalla tristezza, dal lato oscuro insomma. Erano cose delle quali dovevo liberarmi e scriverne era il modo più facile per farlo. Vedere la propria paura su un foglio la esorcizza. Per questo ho sempre ammirato chi fosse in grado di scrivere di cose positive. John Lennon che scrive “Real Love” o “Woman” o “Jealous Guy” senza risultare mieloso e stucchevole, Dostoevskij che scrive “L’idiota” il cui personaggio principale (il Principe Myškin) è talmente buono ed ingenuo da essere scambiato per idiota.
A me basta per considerarli dei geni, perché io non ci riuscirei mai, oltre ad essere letterariamente estasiato dal personaggio perfido e bellissimo di Nastas’ja Filippovna, che occupa un posto speciale nei personaggi femminili, come Hella del Maestro e Margherita. Comunque le esperienze belle, formative e piene di benessere mi si sono sempre consumate dentro, ne resta ben poco da raccontare agli altri. Oltre ad esserne geloso e nasconderle in scrigni dentro l’anima che scruto nel silenzio e nel buio delle mie stanze. Esattamente come certi personaggi dei romazi russi, che ad un certo punto “si ritirano nelle loro stanze” e buona notte. Un gesto che me li rende simpatici, un gesto in cui mi identifico, un bisogno di chiudere la porta in faccia al mondo e restare soli con i propri pensieri. Ne ho sempre avuto un gran bisogno, così come ho sempre avuto bisogno di parlare delle cose negative, di buttarle fuori in qualche modo. Coltivando un angolo per se stessi, al contempo.
Perciò non me ne vorrete se non vi dirò nulla del tempo passato senza scrivere. E’ andato tutto bene, sappiatelo, benissimo.
“Quando siamo calmi e pieni di saggezza, ci accorgiamo che solo le cose nobili e grandi hanno un’esistenza assoluta e duratura, mentre le piccole paure e i piccoli pensieri sono solo l’ombra della realtà.” (H. D. Thoreau)