
“Tutto quello che so è contenuto in
questo libro scritto senza testimoni,
un edificio senza dimensioni, una
città appesa al cielo.”
Coincidenze, dopo il post sulle città mi imbatto in questo…
E’ una cosa della quale mi ero dimenticato. Sono colpevole di aver dimenticato una delle mie passioni più solitarie e intime di quando ero bambino. Aprire un atlante e trovarsi davanti un mondo nuovo. Che poi corrisponde anche al mondo. Da piccolo adoravo quelle pagine, seguire il bordo frastagliato di una costa e chiedersi chi mai poteva vivere proprio lì, che genere di panorama poteva presentarsi davanti ai suoi occhi e se davvero i suoi pensieri erano diversi dai miei, essendo stato influenzato da un ambiente totalmente differente, avendo vissuto in un’ altra parte della carta.
La cosa più incredibile erano i dettagli: quanto fossero precisi e quanto ancora potevano esplodere davanti agli occhi di chi si fosse trovato improvvisamente in quel posto, come se la forza di volontà ti rendesse in grado di far coincidere realtà e fantasia, come se davvero potessi soddisfare immediatamente la tua curiosità di bambino. Io mi soffermavo sulle città, soprattutto su quelle di cui non avevo mai sentito parlare, quelle leggendarie e quelle esotiche a loro modo. Ed ecco allora Arcangelo, che mi sembrava situata in un posto dove dovesse esserci il nulla più assoluto, da qualche parte in Russia, con un nome che evocava figure discese dal cielo. Thule, col suo piccolo cerchiolino vuoto a nord della Groenlandia, ultimo leggendario baluardo umano prima di un maestoso regno di ghiaccio. Ulaan-Bataar persa nelle steppe sconfinate e misteriose, in una nazione dove il deserto è sinonimo di freddo. Singapore che restava indefinita nel suo rimescolarsi, oppure ancora il cratere di Mexico City, il sole di Nassau, le chiuse di Panama, le impronunciabili città della Kamchatka, che, per me non esisteva solo sul risiko.
Per mia deformazione mentale, poi confermata dal tempo, mi concentravo tantissimo a nord: avevo l’idea che le condizioni climatiche estreme rendessero in qualche modo le persone più solitarie, ma anche istintivamente solidali e leali. Coltivavo l’impressione che quella minaccia fatta di buio e ghiaccio, potesse essere mitigata dalla luce delle aurore boreali e della luna. Che la neve potesse imprigionare una bellezza ermetica e che il buio racchiudesse non tanto la possibilità di non vedere, quanto quella di vedere tutte le cose. Era il bello di non dover per forza dover essere razionale e dire “fa troppo freddo là”. Ci pensavano gli altri il cui sport preferito, quando avevo l’ardire di accennare questa mia passione innaturale, era quello di farmi rimettere i piedi per terra dicendomi che la vita lassù sarebbe stata impossibile, che il clima mi avrebbe ucciso e sarei morto di solitudine e di ipotermia. Per me il gioco sarebbe valso la candela allora, e qualche volta, anche adesso quindi, forse, non sono del tutto senza speranza.
Dopo sono arrivate le città invisibili di Calvino e, recentemente, L’atlante delle isole remote di Judith Schalansky.
Mentre avanzo piano, la tangenziale ha quasi dei contorni familiari.
Come se l’incrocio avesse un semaforo le cui luci d’un tratto sbiadiscono verso un lampo colorato su sfondo nero. Un nervoso sguardo al retrovisore. L’autoradio manda in onda la notte: scura, densa ed impenetrabile. Eppure elettrica. Un uomo che parla a se stesso in uno specchio. Ed il profumo di una donna che avvampa dal sedile posteriore. Parecchie lunghe ore senza dormire. Un alka selzer che si scioglie in un bicchiere. Il mago che non sa spiegare le cose. Una ragazzina adulta.Un adulto che la sfrutta. Un’auto gialla. Idranti. Gentaglia che ti getta immondizia sul parabrezza. Un pugno serrato che si muove lento sulla fiammella azzurra del gas. Alienazione e pornografia. Elezioni. E strade sudice che qualcuno dovrebbe ripulire. Armi. Fotogrammi rossi. Chiazze indecifrabili. Impazzisco e mi credono un eroe. Nessuno parla con me.
Ascoltare Mingus mi ha fatto tornare in mente Travis Bickle.
Confesso che ci avevo sperato. al punto da averlo quasi rimosso. Quando il più famoso concorso di bellezza della penisola ha smesso di venire trasmesso sulla televisione nazionale, qualcosa dentro si me ha sospirato, di sollievo. Almeno una delle sante istituzioni di questo paese rimpinzato di ridicolo era decaduta.
E davanti a me vedevo tutte quelle persone che di solito si adoperano per smantellare ferocemente le statue dei dittatori, una volta che questi siano stati, giustamente, deposti. Una cosa del genere. Che un paese, culla della cultura come il nostro, fosse ostaggio di una simile anacronistica oscenità reazionaria mi sembrava plausibile, ma a volte i miracoli esistono! Da li a sperare che anche l’altra grottesca demenziale istituzione finisse nello scarico fognario, era un passo breve per me. Che volete: dopo anni di imposizioni al limite delle coprofagia musicale pagate da tutti noi a carissimo prezzo, sono preda di facili entusiasmi.
Ma come è finita lo sapete tutti, a torte in faccia tra i due conduttori e con le mani nelle tasche degli italiani.
“Il Festival di Sanremo costa troppo. È l’analisi della Corte dei conti, che è andata a controllare i bilanci e ha constatato che tra il 2010 e il 2012 il «rosso» accumulato dalla Rai è stato di oltre venti milioni di euro. Il riferimento è alle edizioni condotte da Antonella Clerici e Gianni Morandi (che fece anche il bis): un saldo negativo di 7,8 milioni per il 2010, 7,5 per il 2011 e 4,8 per il 2012.”
Dico: Venti milioni di euro! Non sarebbe ora di finirla, una volta e per sempre?!
Senza sapere quando, senza sapere dove. Ti ritrovi In tangenziale alle 7 e trenta passate, il sonno, i nervi, il traffico ed un disco di Charles Mingus. Ed è successo. Sapevo che prima o poi il jazz mi avrebbe parlato ed alla fine l’ha fatto una mattina di pioggia, in un marasma urbano.
Non che prima non mi piacesse, ma non mi aveva mai parlato, non mi aveva mai calmato. Ah um, Mingus. I nervi si distendono. Ah um, ah um. E da allora la tangenziale jazzistica si snoda in un continuo fluire di note: quelle di Miles Davis, di John Coltrane e Thelonious Monk. Per adesso. Nel mirino ci sono anche Charlie Parker e Chet Baker. Appena trovo un disco e c’è abbastanza traffico.
Poi, non che c’entri tantissimo (anche se il blues c’entra col jazz), ma è arrivato anche Robert Johnson. Capita di avere un amico chitarrista, di quelli altezzosi e “jazzy”, maledettamente rompicoglioni quando si tratta di musica: esasperante. Che ti dice che RJ è colui che ha dato inizio a tutto e gli credi anche, ma suvvia, vogliamo ascoltare sul serio uno degli anni ’30? Anche ammettendo che abbia venduto davvero l’anima al diavolo, non basta.
E poi, nel mezzo della strada (dove altro?!) si fa largo lui, coi suoi vestiti logori ed impolverati e la chitarrina stridula da quattro soldi. il sorriso stampato, un po’ sinistro. Per quanto ci abbiano messo le mani sulle sue registrazioni, io me le immagino ancora su un cilindro inciso e lo sento quel frusciare di carboni e grammofoni. E suona la chitarra come nessuno aveva mai fatto prima. E canta in un modo che quasi non riesci a definire, quando impenna con la voce o biascica un ritornello.
Improvvisa testi grevi e affilati, costruiti su un’umanità con la faccia sporca, le mani callose, i vestiti sudati e le strade polverose… e si fa largo nelle casse della mia auto in coda, chi l’avrebbe mai detto e chissà dov’è stato dopo la morte della moglie, forse sta ancora girovagando, altro che essersi fermato ad un incrocio.
Con questo interrogativo dall’esito scontato il compare giustifica l’insano gesto. Che si traduce in una disperata, strenua trasferta a Milano, per vedere quattro giapponesi più una suonare come dei Black Sabbath pesanti e strafatti. Roba per noialtri insomma. Roba senza la quale non potremmo non dico vivere ma avere una certa dignità innanzi a noi stessi. Ha ha.
Il punto è che ha ragione, ascolto musica da una vita e non mi ha mai abbandonato, è sempre stata fedele e presente. E probabilmente il concerto è l’espressione massima di tutto questo. Lo è sicuramente per i Church Of Misery, e per spezzare un digiuno che oramai sapeva di uno stantio imborghesire, abbiamo scelto loro. Non è stata una scelta casuale: oramai siamo alla terza volta che ne gustiamo le performance. La prima volta, quella della rivelazione, fu nella bassa trevigiana dove un manipolo di uomini locali li aveva chiamati a suonare al loro centro ricreativo, con anche i Minsk e una selezione di gentaglia locale, per dar vita ad un mini festival ruspante e fraterno, una cosa che difficilmente scorderemo, come pure la puntata in terra del prosecco (e della grappa) del giorno susseguente.
La seconda volta non riuscimmo a vederli come si deve al confusionario, quanto lodevole nelle intenzioni, MiOdi di qualche anno fa. Stavolta la cosa è diversa. Spesso eventi contingenti ci portano a lasciare in un angolo le nostre passioni, quello che più ci piace fare. Però queste non possono soccombere in eterno.
“That is not dead which can eternal lie, And with strange aeons even death may die.”
Questo lo sapete tutti, mi auguro. E infatti risorge, la passione risorge. E lo fa in in tripudio di valvole affumicate! Se abbiamo scelto i CoM, lo abbiamo fatto perché dal vivo sono spettacolari. Se su disco la loro miscela di groove sabbathiano (e settantiano) e serial killers (ognuno ha le sue ossessioni) fa sfrigolare gli amplificatori a dovere, anche senza brillare in originalità, dal vivo la presenza fisica, elettrica e vibrante dei nostri diventa incontenibile. Straripante.
Questi quattro giapponesi riaccendono tutto ed il fuoco divampa in un attimo e cammina con noi. All’entrata ci accaparriamo le ultime due copie in vinile di “The second coming” con mr. Bundy in copertina, con buona pace di tutti gli altri intervenuti. La ragazza nipponica ci resta di stucco quando specifichiamo che ne vogliamo due, cosa del resto ovvia per noi. Si prosegue tra un amaro (mai notato che il dozzinale montenegro sembra chinotto alcolico?!) e quattro chiacchiere, per ammazzare il tempo aspettando che il gruppo di supporto finisca.
Poi finalmente, in netto anticipo per i pessimi standard del Magnolia, iniziano ed è come se il tempo intercorso dal primo concerto non fosse mai passato, certo: cantante e chitarrista sono cambiati, ma lo spirito è sempre quello. E pare che ogni nota concorra a ricordarci chi siamo, cosa ascoltiamo, un po’ tutte le avventure vissute assieme. Una passione che si riafferma, che non si arrende e non si estingue. Siamo noi e la musica: i piatti, le corde, i cavi, i coni, le pelli e le valvole.
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