Messa live al Legend Club Milano 16/12/2022

Posso dire solo: finalmente! dopo aver perso almeno tre occasioni per vederli la scorsa estate a causa di sfortunate coincidenze, sono riuscito a vedere i Messa. Sono anche meglio di quanto io avessi sognato la prima volta che ascoltai “Feast for water” forse cinque anni fa.

Arriviamo al Legend abbastanza presto, il locale è molto minimale, ricorda in qualche misura il Magnolia: bar prefabbricato, giardinetti esterni (oggi inutilizzabili causa clima) e sala concerto. Il prezzo della birra è abbastanza da rapina (7€ per una pilsner media?) e non è facile parcheggiare, al punto che l’auto la lasciamo in un parcheggio che dovrebbe chiudere alle 21:30 ma che, dopo ripetute assicurazioni del barista, scopriamo che non chiuderà. Simpatico anche il fatto che il bagno sia accessibile solo dalla sala concerti, per fortuna lasciano entrare per incombenze non procrastinabili anche durante il soundcheck… almeno non c’è una tessera da fare.

Dopo la birra di rito, apprendo che ci sono due gruppi in apertura di cui non sapevo niente. Circa i suddetti posso dire solo che, una volta passata una certa età, il tempo si assottiglia e perderlo in questo modo è un peccato: circa un’ora e mezza della mia vita che non riavrò indietro. Peggio, un’ ora e trenta minuti che ho passato in braccio alla noia, per essere gentile.

Apre il primo gruppo, i Di’aul, e proprio non ci siamo: Sludge/hard rock di pessima qualità, con il batterista più noioso del mondo anche in grado di perdere i colpi nelle poche rullate che fa, non un riff che ti coinvolga, basso insistente e voce filtrata con cantante impegnato a scimmiottare John Garcia. Da dimenticare, a parte la maglietta dei Mother love bone del cantante.

Può andare peggio? Certo. Partono gli Eralise: non riesco nemmeno a parlare di un gruppo che suona tutto il concerto con le basi in sottofondo, con tanto di cori della voce… ti domandi: ma chi cazzo sta facendo i cori? Poi ti accorgi che c’è una base con dei suoni elettronici e la voce che fai i cori… non dei campionatori, proprio una base. Tremendi. Anche qui nulla degno di nota, oltretutto con una certa arroganza il cantante afferma che se non abbiamo ascoltato i loro brani su spotishit è male… niente affatto: spotishit è il male e voi siete anche peggio.

Non so chi abbia scelto questi due gruppi per aprire il concerto ma se penso che possono aver tolto del tempo ai Messa, sto male. Mi dicono che in altre occasioni abbiano suonato anche di più che qui quindi, vista l’ordinanza che impone la fine a mezza notte, il dubbio mi viene.

Manco a dirlo dopo cotanta tribulazione, salgono sul palco i Messa, dopo una lunga intro ha inizio la magia: innanzitutto i suoni sono stupendi, chitarra e basso macinano quasi all’unisono con una pachidermica presenza, quasi da gruppo drone metal in certi frangenti. Questo senza dimenticare che il chitarrista Alberto, di cui si festeggia il compleanno con canzoncina cantata dal pubblico annessa, ha una preparazione notevole di cui farà sfoggio qua e la, soprattutto nell’introduzione di “Pilgrim”, e riesce perfettamente a coniugare i passaggi jazzati e i riffoni roboanti. A volte portarsi dietro il proprio fonico serve, anche per il suono della batteria che ti prende allo stomaco come da migliore tradizione.

Ultima ma non ultima la voce di Sara, assolutamente superlativa, tra le poche cantanti che sia riuscita, sul serio, a farmi venire la pelle d’oca. Su disco sono magici, dal vivo ancora di più se possibile, soprattutto per la pienezza dei suoni grevi, difficilmente riproducibili a questi livelli in un impianto casalingo. Anche se spogliata del contributo degli strumenti aggiuntivi (hammond, sassofono, mandolini etc…) la musica si diffonde nell’ aere meravigliosa e suadente, sinuosa come un rivolo di fumo di incenso, ipnotizzando e stregando tutti quanti. Passa in un lampo il concerto tra pezzi vecchi e nuovi, tra gli altri spiccano “Babalon”, “Leah”, “Rubedo”, “Suspended”, “Pilgrim” in un continuum invidiabile di emozioni. Tra un brano e l’altro Sara con una grazia delicata introduce i pezzi dicendo due parole per rendere il contesto, fortunatamente è disarmante nel farlo che a nessuno viene in mente di urlare cose turche come spesso succede alle componenti di sesso femminile. Questo malcostume pare superato almeno per questa serata, alla fine riceve una proposta di matrimonio… ma la risposta è spiazzante (“sapete sempre come mettermi in imbarazzo…”) e si capisce benissimo che sarebbe di pessimo gusto continuare per quella strada. Quando annunciano l’ultimo pezzo tutti sbottano in un “NOOO!” all’unisono ma è una finta, c’è ancora spazio per “Enoch” e tutti a casa a mezzanotte.

In conclusione la prossima volta che rinuncerò a vederli mi prenderò a schiaffi da solo qualsiasi sia il motivo. Sono tuttora permeato da quell’aura di innata meraviglia. Disco dell’ anno, Band dell’anno, concerto dell’anno… peccato solo per la durata.

Cose ascoltate di recente

Codespeaker – Codespeaker: Orfani dei Neurosis e, forse soprattutto, degli Isis di tutto il mondo ci sono buone notizie per voi: in terra d’ Albione qualcosa si muove e lo fa in modo roboante. Questo gruppo di recente formazione rischia veramente di raccogliere il testimone dei padrini del post (HC, metal, quello-che-volete-voi) in maniera assolutamente autorevole, il loro disco d’esordio sembra riprendere il discorso da dove le due band madri l’avevano interrotto, riportando in vita un genere che si era quasi completamente perso. Tutto con un solo disco all’ attivo? Ascoltare per credere. La loro proposta ha veramente tutte le carte in regola per aggiungere nuovi tasselli al discorso incominciato, oramai molti anni fa, dalle due band statunitensi. Ora hanno davanti un avvenire luminoso se sapranno spingere avanti la loro musica ampliando lo spettro sonoro di partenza. I Cult of luna si sentiranno, finalmente, un po’ meno soli.

16 – Into Dust: Qui si parla di veterani dello sludge che esordirono, oramai decenni fa, sulla defunta (?) etichetta di Pushead (disegnatore dei metallica) la bacteria sour. Dopo un lungo periodo di inattività ritornano alla luce e, per una volta, la loro reunion ha un senso. Sfornano sempre dei bei lavori, molto compatti e densi di belle canzoni con, nonostante il genere, un buon gusto per il groove e qualche trovata insolita qui rappresentata da un sassofono che fa capolino alla fine del disco. Se amate il genere, anche privo di certi eccessi plumbei alla Eyehategod, fanno decisamente per voi. All’inizio erano decisamente più legati all’ HC, tanto che in molti li scambiarono per un gruppo del genere per quanto strani, adesso hanno trovato una dimensione decisamente meno legata al minimalismo e alla velocità di esecuzione ma assolutamente greve e massiccia. Una gradita conferma.

Celestial Season – Misterium I/II: L’operazione nostalgica di rientro di uno dei miei massimi gruppi feticcio continua. Stavolta con addirittura con due album in un anno solo. Il risultato è apprezzabile, death/doom con violini vecchia scuola, come erano soliti fare a inizio carriera. Pur avendo uno strumento in comune con i vecchi My Dying Bride la somiglianza non è così evidente: i brani hanno una loro personalità e ragione d’essere (sfido chiunque a non scapocciare in “Black water mirrors” per dire). Se siete amanti di certe sonorità queste due uscite vi rincuoreranno: più pesante la prima, maggiormente eterea la seconda. Per riprendere il discorso fatto con gli In The Woods… (anche se in misura minore) la cosa che fa tristezza è che però si è persa completamente la spinta innovatrice meravigliosa che avevano avuto in “Solar Lovers”, un disco assolutamente illuminato con il quale avevano veramente trovato una dimensione personale e, a questo punto, irripetibile.

Phlebotomized – Devoted to God: Dalla terra gloriosa d’ Olanda non emergono solo i Celestial Season, anche i Phlebotomized che, nel campo dell’innovazione sonora, sono un gruppo di assolta rilevanza. Assolutamente tra i primi a introdurre strumenti e strutture inusuali nel death metal, ora rispolverano il loro vecchio demo. Ovviamente è fatto secondo la vecchia scuola, per artwork e registrazione, ma risulta assolutamente importante per comprendere la genesi di un gruppo che ha saputo rivalutarsi nel tempo. Oltre a questo, testimonia che, con l’evoluzione tecnologica, molta della magia dello studio di registrazione si è irrimediabilmente persa. Un prezioso cimelio.

Øjne- Prima che tutto bruci: Questo è un disco che compie cinque anni in questi giorni. Li ho conosciuti grazie al figlio di un mio amico con cui ho in comune la passione per gli Storm{o}. Un giorno lo vedo indossare la maglietta di questo gruppo e mi incuriosisco. Hanno da poco suonato con il gruppo di Feltre al Bloom di Mezzago, quindi suppongo che li abbia sentiti lì. Da subito mi colpisce il cantato, sarebbe meglio dire “l’ urlato”, che mi sembra un po’ troppo sopra le righe per la musica che fanno, poi i testi un po’ troppo naïf… anche se la musica mi fa un’ottima impressione: sono davvero bravi. Tanto che lentamente le loro canzoni mi si infilano nelle orecchie e torno a riascoltarli spesso, diventano dei buoni compagni delle mie camminate al buio alla sera. Alla fine entro definitivamente nella loro musica, anche il cantato e i testi acquistano via via senso e contesto: alla fine questo disco diventa importante per me. Non so molto della scena, delle altre band che suonano lo stesso genere, della filosofia che ci sta dietro, il tempo degli emo e degli screamo me lo sono perso, sicuramente ero preso da altre cose. Ma anche se non ne sono addentro, sono contento di non essermi perso questo disco perché è bellissimo e pensare che le giovani leve oltre a certa immondizia musicale (altrimenti nota come t**p) possano anche ascoltare lavori come questo mi lascia una certa speranza.

Il buio in una stanza

Negli anni ’90 avevo una pratica segreta che mi piaceva più di tutte. Chiudermi al buio completo in una stanza e stare assolutamente fermo ascoltando musica. Una ragazza mi vide farlo una volta e si spaventò, ma non erano prove generali del mio trapasso, era un modo per chiudere il mondo fuori. Era un modo per concentrarmi sulle note e rendere loro omaggio del mio amore incondizionato, non potevo farlo con qualsiasi disco. Se allora mi avessero chiesto 5 dischi che meglio definivano gli anni ’90 non avrei avuto dubbi nel dire: My Dying Bride “The angel and the dark river”, Nine Inch Nails “The downward spiral”, Celestial Season “Solar lovers”, Kyuss “Blues for the red sun” e In The Woods… “Omnio”. Quest’ultimo era il disco perfetto per quanto descritto sopra.

Gli In The Woods… erano un mio personalissimo oggetto di culto che alla fine risultò per un attimo anche abbastanza popolare. Erano assolutamente misteriosi, sembrava che nessuno li avesse mai visti in faccia, alcune foto girarono solo dopo il disco successivo “Strange in stereo”, pareva che avessero tenuto un oscurissimo concerto nella sala della casa discografica Dracma di Torino (se qualcuno se la ricorda ha tutta la mia stima) del quale si narravano cose tipo maschere, veli e ghiaccio secco a celare l’identità dei musicisti… io non ebbi la fortuna di presenziare ed ero vittima di confuse e fantozziane voci di corridoio.

Il primo disco “At the heart of the ages” era ancora venato di black metal, nel cantato e nell’atmosfera generale, ma già dal primo brano, con quella nota ripetuta all’ossessione (che io associavo a “The cry of mankind”) si capiva che erano molto più di questo.il gruppo di Kristiansand esplose letteralmente nel disco successivo, il glorioso “Omnio”, un disco in grado di farmi letteralmente perdere la testa. In molti gridavano al tradimento, personalmente era una delle cose più belle che avessi mai ascoltato. Il disco era la quintessenza dell’universo parallelo nel quale avrei voluto perdermi, allora i concetti di deprivazione sensoriale (poi reso famoso da “Stranger things” tra gli altri), meditazione e distacco dalla realtà non mi erano ancora del tutto chiari, sapevo solo che quello era uno spazio mio, e quel disco era una sorta di porta verso quel mondo. Quindi era (ed è) meraviglioso. Avere in casa un disco come “Omnio” è come vivere ai piedi delle montagne, sai di avere a disposizione, a poca distanza da te, la possibilità di raggiungere un posto impevio ma affascinante, nel quale rifugiarti e in cui nessuno o quasi può trovarti. Tu però lì puoi far rinascere te stesso.

Cinque brani di cui uno, che da il titolo al disco, diviso in tre movimenti poco più di un’ora di durata, non una nota fuori posto. Anzi sì, nel primo brano, che poi ha per titolo il valore della velocità della luce, si sente una nota dissonante talmente evidente che viene quasi da pensare che l’abbiano lasciata lì apposta, tanto per risvegliare l’ascoltatore, come un campanello che suona nel silenzio più assoluto. A 25 anni dalla pubblicazione rimane uno spiraglio di luce, un disco assolutamente a sé nel panorama della musica pesante e non solo. Dopo questo ancora un bel lavoro e una raccolta, poi il silenzio.

Viene pubblicato un live nel 2003, poi nel 2016 tornano. Ma non sono più loro: c’è un tale turbinio di muscisti che si avvicendano da lasciare disorientati, gli In The Woods… diventano una sorta di collettivo con gente che entra ed esce. Questo non significa che ora facciano musica pessima, tuttavia quell’aura di magia e mistero è andata completamente persa. E si è perso molto anche in tremini di genialità, adesso semplicemente sono un gruppo più canonico e meno peculiare, comunque piacevoli da ascoltare anche se non più in grado di indurre l’ascoltatori in dimensioni parallele o mondi lontani. A 25 anni di distanza da “Omnio” è uscito “Diversum”…

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