Il Blues dei libri venduti

Non vi è mai capitato di vendere dei libri ad un negozio di libri usati? Che sia una triste esperienza ne convengo assolutamente, un po’ perché separarsi da certi volumi è uno strazio, soprattutto perché poi quello che ne ricevi in cambio vale poco di più di un sorriso e di una pacca sulle spalle. Libri pagati a prezzo pieno per i quali si riceve in cambio meno di un euro e spesso sottoforma di buoni spendibili solo nel suddetto negozio. Devo dire che la prima cosa me la sono scampata: i libri che ho rivenduto sono sempre stati libri che ho detestato per un motivo o per un altro: vendere dei volumi a cui sei affezionato per l’irrisorio corrispettivo non avrebbe senso. Sulla seconda non ci si può fare molto, vorresti urlare al cielo la truffa ma il cielo stesso non ti ascolterebbe quindi ti tocca accettare la tristezza e tirare avanti, anche perché magari ancora ti maledici per aver comprato certi sprechi di carta e ti dici che in fondo, dopo aver buttato ore sempre preziose a leggerli, ora ti meriti anche il castigo finale.

Insomma mi capita di fare questo gesto sconsiderato e, a fronte di due scatoloni di volume consistente pieni di libri, ho ricevuto in cambio quattro miseri volumi, uno dei quali vede Nick Hornby parlare dei suoi brani di musica preferiti. Ora l’autore inglese che io ho apprezzato per come parla delle manie dei musicofili in “alta fedeltà” gode di una certa stima da queste parti e quindi, anche se molti dei brani descritti o non li conosco o mi fanno sentire a disagio, porto a casa il disco dicendomi che, in fondo, potrebbe aprirmi la mente o portare a mia conoscenza, pescando nel mucchio, qualcosa di valido.

Tutto bene (più o meno) finché arrivo al capitoletto che parla dei Led Zeppelin e di “Heartbreaker” in particolare. No Mr. Hornby, non ci siamo proprio. L’autore si interroga sul perché a un certo punto si sia appassionato a un genere “pesante” e soprattutto sul perché, a un certo punto, tale genere, nonostante ne riconosca l’appeal istintivo, abbia smesso di avere senso di essere ascoltato. L’autore dice di aver voluto nascondersi dietro quelle sonorità così pesanti ma che è un atteggiamento poco maturo, perché la persona matura è in grado di capire che nell’effimero, nel massificato e nel, passatemi il termine, “superficiale” sta il fascino della musica popolare. Dice che una persona matura non ha bisogno di chitarre roboanti e batterie rumorose. Niente bassi pulsanti e voci spavalde. Il punto è: anche fosse, e non credo, chissenefrega di essere ascoltatori maturi. Il mondo delle persone mature è noioso e triste. Prendete un disco dei Led Zeppelin e ditemi se, in tutta coscienza, riuscite a rilevare delle sensazioni del genere anche solo per mezzo secondo.

Ok, magari vi concedo qualcosa a fine carriera, ma ci sta. A un certo punto verso la fine dei ’70 saltarono fuori un sacco di diavolerie elettroniche e tutti quanti si misero a sperimentare anche cose senza troppo senso… ma almeno fino a “Presence” sono stati formalmente quasi inattaccabili. E come loro altri mostri sacri come Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep e molti altri.

Una cosa del genere la fecero notare anche a Lemmy, il quale rispose che non voleva che dei vecchi ascoltassero la sua musica, che poi faceva il paio col fatto che se pensi di essere troppo vecchio per il rock’n’roll, probabilmente lo sei. Aggiungeteci il fatto che maturi è come dire diversamente giovani e il bandolo della matassa è sotto i vostri occhi.

Il punto è che sono anni che chiunque si arroga il diritto di sparare sentenze sulla musica pesante, dall’alto di una presunta maturità o, peggio, supremazia musicale. Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti discriminatori. Anche perché, oltre al non voler crescere (che comunque è del tutto opinabile), c’è molto altro. Probabilmente in molti si aspettano che io mi spertichi in lodi nei confronti della musica che amo, mi sembra ridondante farlo e vorrei evitare.

Però pensandoci bene… per essere maturo devo riconoscere al pop una dignità? A un genere ruffiano e compiacente per antonomasia? A un genere che ricerca il favore del pubblico ad ogni costo e che misura il proprio valore unicamente (o quasi) in base ai dati di vendita o in base a quel che tira in questo momento storico? A un genere che parla quasi unicamente di cose frivole e di sentimenti banalizzati? Per essere maturo devo accettare il fatto che modificare il proprio stile per renderlo accessibile sia non solo lecito ma un atteggiamento da condierare vincente? Allora perché dovrei desiderare esserlo?

Una volta ero estremamente più chiuso e forse davvero risultavo ottuso… Ma oggi ascolto molta altra musica rispetto alla musica pesante. Per me la discriminante sono diventati contenuti: aver qualcosa da dire non è una cosa banale né dal punto di vista strettamente musicale e né dal punto di vista dei testi e dei temi trattati.

…Canzoni senza fatti e soluzioni…

Poi è chiaro che il metal e tutti i suoi derivati e generi in qualche modo limitrofi, sono casa mia, sono ciò che conosco meglio e ciò di cui posso parlare con effettiva cognizione di causa, ma non sono (più?) così limitato da non trovare del bello nella musica classica, nel blues, nel jazz, nel rap, nel reggae, nel goth, nella new wave, financo nel pop dove oggettivamente è molto più difficile farlo. Sinceramente però ne ho abbastanza di sentirmi colpevolizzato perché la musica che ascolto è indigesta a qualcuno, ne ho abbastanza di sentirmi dare del retrogrado perché boicotto lo streaming selvaggio che sta uccidendo la musica, ne ho abbastanza di concerti a cifre assurde e bagarinaggi legalizzati per vedere spettacoli elitari e della gente che compra i biglietti per certi spettacoli. Se la musica sta morendo è per colpa degli ascoltatori maturi che fanno tutto questo.

Per assurdo avevo assegnato a Hornby il compito di alleggerire le mie letture quando sentivo di esserci andato troppo pesante con un libro (per tematiche, stile di scrittura o altro) arraffavo un suo scritto e tornavo a sentirmi più leggero. Il giochetto è durato fino a “Non buttiamoci giù” del 2005 che proprio non mi è piaciuto. Da allora non avevo mai più preso un suo libro in mano…

2022

Ho aspettato tantissimo a far uscire una classifica quest’anno, un po’ per la maledizione di dicembre, mese nel quale escono sempre dischi che poi non vengono inseriti nelle classifiche (vedi “1904” dei Moonstone o i Del Norte lo scorso anno) un po’ per il mio maledetto lassismo. Questa volta il lassismo è dovuto al fatto che la mia lista sembrava già essere stata scritta da tempo, ovvero da quando a marzo era già uscito un disco insuperabile. Rimettere le mani sulla lista mi pareva quasi una cosa ridondante… Forse sto diventando pigro o forse lo sono sempre stato. Il 2022 è stato un anno molto soddisfacente dal punto di vista musicale, come non capitava da un bel pezzo. Tanti bei dischi, alcuni anche inaspettati. Si può solo sperare che continui in questo modo. Ci sono stati dischi osannati da molti che proprio non mi dicono un granché (Chad Pile, Fountains D.C., Mammoth Volume, Wo Fat, Elder) ma a parte questi, le soddisfazioni non sono davvero mancate, soprattutto se penso a chi sta in cima alla lista.

Ma prima di tutto quelli che son rimasti fuori: Calibro 35, Muschio, Russian Circles, Duocane, 16, Early Moods, Konvent.

10) Clutch – “Sunrise on slaughter beach”: Una certezza. Sulle prime non mi aveva entusiasmato tantissimo, sembrava essere il solito disco dei Clutch ed, in effetti, con qualche minima variazione sul tema non si discosta molto dai loro standard. Però pur non essendo “Earth Rocker” o “Psychic warfare” cresce con gli ascolti e alla fine diventa confortevole, mandando via anche quell’idea negativa legata al concetto di solito. Quello che resta è un bel disco solido dei Clutch, mi ero sbagliato di una consonante.

9) Ozzy Osbourne – “Patient number 9”: Viene da chiedersi se non sia l’ennesima operazione di sfruttamento commerciale del madman da parte dell’industria musicale ivi rappresentata dalla moglie Sharon. Se non fosse che poi hanno incominciato a girare video sulla realizzazione del disco ed il nostro appare sinceramente coinvolto e divertito nel registrare e non sembra nemmeno che siano costruiti a tavolino. Quindi voglio essere possibilista e dire che si tratta di un Ozzy che, nonostante i malanni e gli anni di abusi sul groppone, non sia riuscito a stare lontano dalla musica. E fortunatamente il risultato surclassa in un colpo tutta la sua produzione da “Ozzmosis” in poi. Se volete un suo disco dell’ultimo periodo buttatevi su questo senza dubbio. C’è qualche traccia sotto tono, ma altre sono davvero oltre qualsiasi aspettativa soprattutto quelle con Sir Tony Iommi alla chitarra, che portano davvero il disco in alto. Nonostante l’uso dell’auto tune, un colpo di coda come solo lui poteva sferrarlo.

8) Friends of Hell – “Friends of hell”:  Questa me la dovete concedere, non potevo non mettere il rientro di mr. Witchfinder alla voce nel listone di fine anno. Chi è un fan dei Reverend Bizarre come il sottoscritto non potrà non accogliere con gioia questo disco che, tra l’altro, ha il merito di ripescare l’oscuro ex-bassista degli Electric Wizard (Tasos Danazoglou, quello tatuato anche in faccia, per intenderci) qui alla batteria e Taneli Jarva al basso. Se vi state chiedendo che musica fanno… fanno esattamente quella musica che state pensando, ma la fanno dannatamente bene.

7) Codespeaker – “Codespeaker”: I Codespeaker finiscono in questa lista in vece dei Cult of luna in virtù del fatto che, pur muovendosi su coordinate simili, il loro disco d’esordio mi è sembrato immediato, fresco, concreto. Si “perdono” molto meno in fronzoli concentrandosi molto sulla fruibilità delle voro composizioni: ne risulta un disco assolutamente legato a quelle sonorità primi anni duemila che hanno fatto la fortuna dei capisaldi del genere ma che riesce ad essere diretto come pochi… considerato il tipo di musica, non è poco.

6) Mountains – “Tides end”: Una scoperta dalla terra d’albione. Decisamente meno doom di come mi erano sembrati all’inizio, la loro proposta appare solida ed ispirata, partendo dai Mastodon (prima che fossero progressivi e prolissi) passando per i Sabbath e arrivando ad una musica coinvolgente, solo in parte derivativa. Coinvolge ascolto dopo ascolto con un’ ottima sezione ritmica ed un cantato melodico e perfettamente funzionale. Da recuperare anche il loro esordio, più asciutto e meno cupo.

5) Miscreance – “Convergence”: Da qui in poi solo applausi. Come detto in precedenza non è il mio genere preferito, ma quando uno è bravo è bravo e i Miscreance sono bravi sul serio. Con Schuldiner come nume tutelare al loro fianco non possono sbagliare. Avevano davanti un compito difficile però: Rendere la loro musica assimilabile e evitare il rischio citazionistico. A mio parere ci sono riusciti benissimo, con una perizia sullo strumento davvero notevole vista la loro età. Sappiamo da dove sono partiti, difficile dire dove arriveranno ma, viste le premesse, si suppone lontanissimo.

4) Tenebra – “Moongazer”: Ottima prova per gli emiliani, decisamente un disco azzeccato ed un netto passo in avanti rispetto all’esordio di qualche anno fa. Funziona tutto in questo disco, se sapranno ridurre ulteriormente le citazioni, in qualche caso ingombranti, e sviluppare ancora il loro suono, il prossimo disco potrebbe essere in cima a questa lista. Comunque non c’è da farsi trarre in inganno: l’eccellenza italiana avanza, Moongazer mantiene tutte le promesse e rilancia per il futuro. Se possibile non me li lascerò sfuggire dal vivo.

3) EDDA – “Illusion”: Appuntamento da non perdere con uno dei pochi personaggi veri della musica indipendente italiana, per l’occasione seguito da un gigante come Gianni Maroccolo in fase di produzione. Molto meno minimalista di quanto mi era sembrato ascoltandolo le prime volte, un disco sfaccettato e ispirato dove la voce di Stefano è la protagonista assoluta, con molti cambi di registro, dallo scanzonato al serio senza filtri o mezze misure, senza tagli e senza censure. Molto più dritto in faccia di tutti gli altri.

2) Rammstein – “Zeit”: Non me lo sarei mai aspettato nemmeno io che li ho snobbati fino ai ieri, ma adoro questo disco. Troppo tamarri, troppo esagerati, troppo elettronici i loro suoni. Invece alla fine mi hanno conquistato al punto da riscoprili a ritroso… in effetti non mi piace tutto, non sempre raccolgono il mio favore ma arrivare a scrivere il miglior disco in carriera (opinione personale) a 60 suonati non è da tutti; anche dal punto di vista dei testi non posso che levarmi il cappello e dichiararmi conquistato, visto quello che suonano non era affatto scontato.  

1) Messa – “Close”: Avevo già rovinato la sorpresa con il post precedente, sarà anche per questo che non mi decidevo a chiudere l’anno. I Messa trionfano su tutti e avere tre italiani nei primi cinque credo che non mi sia mai successo. A loro voglio bene, il disco mi ha commosso e non solo conquistato, è un lavoro intenso, ispirato, personale e assolutamente riuscito, di gran lunga la cosa migliore ascoltata quest’anno con il corollario del concerto che ha fatto ulteriormente salire la mia venerazione. Bravissimi.

… e adesso in attesa degli STORMO a Febbraio!

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