Sabbia: Domomentál

A prima vista sembrerebbe una sorta di scacchiera di backgammon surreale, in realtà è la porta di uno studio di registrazione tirato su da un gruppo di amici consociati che ha sede in un paesino in pianura, vicino a Biella. In quel posto hanno trovato casa alcune fra le realtà musicali più interessanti del biellese che fanno capo ad un’ etichetta, la Kono Dischi, lontana da logiche tossiche che troppo spesso dominano il mondo dei suoni.

Qui è stato concepito uno dei più bei dischi mai usciti nel Biellese, ovvero “Domomentál” dei Sabbia. Preceduto da un brano singolo altrettanto interessante intitolato “Astronomi domani”, il disco dei Sabbia sposta ancora avanti il discorso fin qui intrapreso dal gruppo. Se finora si trattava di musica strumentale maggiormente concepita con l’intento di porre attenzione al singolo brano, inteso come unità a sé adesso tutto il disco fluisce abbattendo le barriere tra i singoli brani, abbracciando, molto più che in passato, l’idea di diventare una colonna sonora: psichedelica, visionaria e crepuscolare.

Uno di quei crepuscoli che non ti aggrediscono con l’oscurità immediata, uno di quelli dove il tempo si dilata e riesci a percepire il cambiare della luce. Il pregio del nuovo lavoro dei Sabbia è proprio quello di predisporre l’animo all’osservazione, al lasciarsi attraversare dalla musica, a cogliere i particolari di ciò che ti circonda, particolari troppo spesso dati per scontati per consuetudine. È come un flusso di coscienza sonoro improntato alla contemplazione: della musica e di tutto quello che ci circonda. È uno stato di grazia e non è poco.

Durante lo scorrere del disco echeggiano alcuni accostamenti come Calibro 35, Zu e i passaggi meno western delle colonne sonore del maestro Morricone. Ma sono attimi, connessioni stabilite perché siamo costantemente abituati a cercare punti di riferimento in ogni cosa che ascoltiamo… in realtà non c’è nessun rimando troppo esplicito, solo grande musica, fatta da ragazzi appassionati e partecipi di quello che fanno.

La passione è un altro punto cardine di questo lavoro. Passione che serpeggia sinuosa tra le note, svelando atmosfere e sensazioni, passione che ha portato alla formazione di un collettivo che condivide esperienze e suoni. Esperienze che li hanno portati fino a dove sono ora, ovvero fino ad incidere un disco per chi vuole perdersi in un panorama cangiante ed ipnotico, per poi alzare lo sguardo e ammirare le stelle, come potreste vederle nel deserto: senza interferenze.

Siete ancora qui a leggere? Il disco è in Name Your Price su Bandcamp!

STORMO: Endocannibalismo

Di solito quando esce un potenziale disco dell’anno già a febbraio me ne esco con delle frasi di pseudo-circostanza come “sarà difficile che qualcuno possa fare meglio quest’anno” oppure “un serio candidato alla prima posizione nel classificone di fine anno” che per me equivalgono a degli standard oramai svuotati di significato come riff al fulmicotone o sezione ritmica tellurica tanto cari a chiunque scriva di metal e affini.

Questa volta no. Potrei anche smettere di scrivere su quello che uscirà quest’anno perché il 10 febbraio abbiamo già un vincitore che si chiama “Endocannibalismo”, il nuovo disco degli STORMO scritto maiuscolo. Perché questa è una prova maiuscola, un disco eccellente, una band vera fatta da belle persone prima che da musicisti. Se mi dite che sono di parte, vi do anche ragione: ho già comprato tre versioni del disco e tenderò a regalarle a chiunque penso possano piacere, un po’ come facevano i Nirvana con i Kyuss a inizio carriera, e poi arrivano da un luogo vicino al mio cuore (Feltre) perché è il paese di origine di un ramo della mia famiglia e un posto di cui sono innamorato. Esattamente come della loro musica.

Quindi sono di parte e ve lo confesso. Questo però non sminuisce il disco che è bellissimo e non vi stupisca se lo dico di un album a tratti furente e violento, sono molto più violente e intense le sensazioni che mi provoca. Ti afferra e ti scuote, ti attacca da ogni lato, senza tregua, ma in questo sta il suo fascino, nel non darti tempo di rifiatare mai, nel farti guardare le cose da mille angolazioni diverse nel giro di un singolo brano.

Ci mettono dentro tanto, ci mettono dentro l’anima, non so in quanti possano dirlo oggi, ma ogni singolo strumento si incastra e ritaglia il suo spazio in un’ amalgama unica, completata da testi ermetici e spirituali come sono soliti fare. Ogni brano è un mondo a sé eppure il disco risulta incredibilmente organico e completo. Rispetto al passato l’evoluzione si sente, soprattutto nella produzione che risulta meno caotica (gran lavoro di un grandissimo Giulio Favero!) che in passato, permettendo veramente di godere appieno della loro stupefacente creatività ed eclettismo. Inoltre incorporano suoni nuovi: una canzone dalle pennellate cupe come “Sorte” ancora mancava al loro repertorio o “Valichi, oltre” dove quasi diventano calmi per metà canzone, sintomo che quelle aperture del disco precedente (la bellissima “Niente” per esempio) non erano episodi isolati ma una genuina attitudine ad evolvere sempre verso qualcosa di nuovo, fosse anche solo una sfumatura.

Sempre memori della lezione HC, screamo e metal, rendono giustizia ai loro generi preferiti attraverso un lavoro che ha ben chiare le sue radici, ma altrettanto cari i suoi rami che si allungano verso il cielo e verso l’inesplorato.

Sorretti da una batteria a tratti sovrumana, gli altri membri del gruppo riescono a esaltarsi a turno offrendo veramente pochi punti di riferimento all’ascoltatore ed è proprio mentre pensi di aver capito un brano che ti fanno mancare la terra sotto i piedi e sconvolgono bruscamente il tuo senso dell’orientamento, portandoti altrove nel giro di un nanosecondo. Lo stupore è forse la cosa più bella di questo disco: la sensazione di meraviglia che si prova canzone dopo canzone, nota dopo nota, attimo dopo attimo. Nessuno può uscire uguale a prima dopo aver ascoltato un disco come questo ed è esattamente ciò che manca al 99% dei dischi che escono oggi, troppa musica e nessun incanto. Ma, assolutamente, non è questo il caso: si nutrono di sé stessi e rinascono ancora una volta… deflagrando ogni cosa in un modo personale e bellissimo.

2022

Ho aspettato tantissimo a far uscire una classifica quest’anno, un po’ per la maledizione di dicembre, mese nel quale escono sempre dischi che poi non vengono inseriti nelle classifiche (vedi “1904” dei Moonstone o i Del Norte lo scorso anno) un po’ per il mio maledetto lassismo. Questa volta il lassismo è dovuto al fatto che la mia lista sembrava già essere stata scritta da tempo, ovvero da quando a marzo era già uscito un disco insuperabile. Rimettere le mani sulla lista mi pareva quasi una cosa ridondante… Forse sto diventando pigro o forse lo sono sempre stato. Il 2022 è stato un anno molto soddisfacente dal punto di vista musicale, come non capitava da un bel pezzo. Tanti bei dischi, alcuni anche inaspettati. Si può solo sperare che continui in questo modo. Ci sono stati dischi osannati da molti che proprio non mi dicono un granché (Chad Pile, Fountains D.C., Mammoth Volume, Wo Fat, Elder) ma a parte questi, le soddisfazioni non sono davvero mancate, soprattutto se penso a chi sta in cima alla lista.

Ma prima di tutto quelli che son rimasti fuori: Calibro 35, Muschio, Russian Circles, Duocane, 16, Early Moods, Konvent.

10) Clutch – “Sunrise on slaughter beach”: Una certezza. Sulle prime non mi aveva entusiasmato tantissimo, sembrava essere il solito disco dei Clutch ed, in effetti, con qualche minima variazione sul tema non si discosta molto dai loro standard. Però pur non essendo “Earth Rocker” o “Psychic warfare” cresce con gli ascolti e alla fine diventa confortevole, mandando via anche quell’idea negativa legata al concetto di solito. Quello che resta è un bel disco solido dei Clutch, mi ero sbagliato di una consonante.

9) Ozzy Osbourne – “Patient number 9”: Viene da chiedersi se non sia l’ennesima operazione di sfruttamento commerciale del madman da parte dell’industria musicale ivi rappresentata dalla moglie Sharon. Se non fosse che poi hanno incominciato a girare video sulla realizzazione del disco ed il nostro appare sinceramente coinvolto e divertito nel registrare e non sembra nemmeno che siano costruiti a tavolino. Quindi voglio essere possibilista e dire che si tratta di un Ozzy che, nonostante i malanni e gli anni di abusi sul groppone, non sia riuscito a stare lontano dalla musica. E fortunatamente il risultato surclassa in un colpo tutta la sua produzione da “Ozzmosis” in poi. Se volete un suo disco dell’ultimo periodo buttatevi su questo senza dubbio. C’è qualche traccia sotto tono, ma altre sono davvero oltre qualsiasi aspettativa soprattutto quelle con Sir Tony Iommi alla chitarra, che portano davvero il disco in alto. Nonostante l’uso dell’auto tune, un colpo di coda come solo lui poteva sferrarlo.

8) Friends of Hell – “Friends of hell”:  Questa me la dovete concedere, non potevo non mettere il rientro di mr. Witchfinder alla voce nel listone di fine anno. Chi è un fan dei Reverend Bizarre come il sottoscritto non potrà non accogliere con gioia questo disco che, tra l’altro, ha il merito di ripescare l’oscuro ex-bassista degli Electric Wizard (Tasos Danazoglou, quello tatuato anche in faccia, per intenderci) qui alla batteria e Taneli Jarva al basso. Se vi state chiedendo che musica fanno… fanno esattamente quella musica che state pensando, ma la fanno dannatamente bene.

7) Codespeaker – “Codespeaker”: I Codespeaker finiscono in questa lista in vece dei Cult of luna in virtù del fatto che, pur muovendosi su coordinate simili, il loro disco d’esordio mi è sembrato immediato, fresco, concreto. Si “perdono” molto meno in fronzoli concentrandosi molto sulla fruibilità delle voro composizioni: ne risulta un disco assolutamente legato a quelle sonorità primi anni duemila che hanno fatto la fortuna dei capisaldi del genere ma che riesce ad essere diretto come pochi… considerato il tipo di musica, non è poco.

6) Mountains – “Tides end”: Una scoperta dalla terra d’albione. Decisamente meno doom di come mi erano sembrati all’inizio, la loro proposta appare solida ed ispirata, partendo dai Mastodon (prima che fossero progressivi e prolissi) passando per i Sabbath e arrivando ad una musica coinvolgente, solo in parte derivativa. Coinvolge ascolto dopo ascolto con un’ ottima sezione ritmica ed un cantato melodico e perfettamente funzionale. Da recuperare anche il loro esordio, più asciutto e meno cupo.

5) Miscreance – “Convergence”: Da qui in poi solo applausi. Come detto in precedenza non è il mio genere preferito, ma quando uno è bravo è bravo e i Miscreance sono bravi sul serio. Con Schuldiner come nume tutelare al loro fianco non possono sbagliare. Avevano davanti un compito difficile però: Rendere la loro musica assimilabile e evitare il rischio citazionistico. A mio parere ci sono riusciti benissimo, con una perizia sullo strumento davvero notevole vista la loro età. Sappiamo da dove sono partiti, difficile dire dove arriveranno ma, viste le premesse, si suppone lontanissimo.

4) Tenebra – “Moongazer”: Ottima prova per gli emiliani, decisamente un disco azzeccato ed un netto passo in avanti rispetto all’esordio di qualche anno fa. Funziona tutto in questo disco, se sapranno ridurre ulteriormente le citazioni, in qualche caso ingombranti, e sviluppare ancora il loro suono, il prossimo disco potrebbe essere in cima a questa lista. Comunque non c’è da farsi trarre in inganno: l’eccellenza italiana avanza, Moongazer mantiene tutte le promesse e rilancia per il futuro. Se possibile non me li lascerò sfuggire dal vivo.

3) EDDA – “Illusion”: Appuntamento da non perdere con uno dei pochi personaggi veri della musica indipendente italiana, per l’occasione seguito da un gigante come Gianni Maroccolo in fase di produzione. Molto meno minimalista di quanto mi era sembrato ascoltandolo le prime volte, un disco sfaccettato e ispirato dove la voce di Stefano è la protagonista assoluta, con molti cambi di registro, dallo scanzonato al serio senza filtri o mezze misure, senza tagli e senza censure. Molto più dritto in faccia di tutti gli altri.

2) Rammstein – “Zeit”: Non me lo sarei mai aspettato nemmeno io che li ho snobbati fino ai ieri, ma adoro questo disco. Troppo tamarri, troppo esagerati, troppo elettronici i loro suoni. Invece alla fine mi hanno conquistato al punto da riscoprili a ritroso… in effetti non mi piace tutto, non sempre raccolgono il mio favore ma arrivare a scrivere il miglior disco in carriera (opinione personale) a 60 suonati non è da tutti; anche dal punto di vista dei testi non posso che levarmi il cappello e dichiararmi conquistato, visto quello che suonano non era affatto scontato.  

1) Messa – “Close”: Avevo già rovinato la sorpresa con il post precedente, sarà anche per questo che non mi decidevo a chiudere l’anno. I Messa trionfano su tutti e avere tre italiani nei primi cinque credo che non mi sia mai successo. A loro voglio bene, il disco mi ha commosso e non solo conquistato, è un lavoro intenso, ispirato, personale e assolutamente riuscito, di gran lunga la cosa migliore ascoltata quest’anno con il corollario del concerto che ha fatto ulteriormente salire la mia venerazione. Bravissimi.

… e adesso in attesa degli STORMO a Febbraio!

Messa live al Legend Club Milano 16/12/2022

Posso dire solo: finalmente! dopo aver perso almeno tre occasioni per vederli la scorsa estate a causa di sfortunate coincidenze, sono riuscito a vedere i Messa. Sono anche meglio di quanto io avessi sognato la prima volta che ascoltai “Feast for water” forse cinque anni fa.

Arriviamo al Legend abbastanza presto, il locale è molto minimale, ricorda in qualche misura il Magnolia: bar prefabbricato, giardinetti esterni (oggi inutilizzabili causa clima) e sala concerto. Il prezzo della birra è abbastanza da rapina (7€ per una pilsner media?) e non è facile parcheggiare, al punto che l’auto la lasciamo in un parcheggio che dovrebbe chiudere alle 21:30 ma che, dopo ripetute assicurazioni del barista, scopriamo che non chiuderà. Simpatico anche il fatto che il bagno sia accessibile solo dalla sala concerti, per fortuna lasciano entrare per incombenze non procrastinabili anche durante il soundcheck… almeno non c’è una tessera da fare.

Dopo la birra di rito, apprendo che ci sono due gruppi in apertura di cui non sapevo niente. Circa i suddetti posso dire solo che, una volta passata una certa età, il tempo si assottiglia e perderlo in questo modo è un peccato: circa un’ora e mezza della mia vita che non riavrò indietro. Peggio, un’ ora e trenta minuti che ho passato in braccio alla noia, per essere gentile.

Apre il primo gruppo, i Di’aul, e proprio non ci siamo: Sludge/hard rock di pessima qualità, con il batterista più noioso del mondo anche in grado di perdere i colpi nelle poche rullate che fa, non un riff che ti coinvolga, basso insistente e voce filtrata con cantante impegnato a scimmiottare John Garcia. Da dimenticare, a parte la maglietta dei Mother love bone del cantante.

Può andare peggio? Certo. Partono gli Eralise: non riesco nemmeno a parlare di un gruppo che suona tutto il concerto con le basi in sottofondo, con tanto di cori della voce… ti domandi: ma chi cazzo sta facendo i cori? Poi ti accorgi che c’è una base con dei suoni elettronici e la voce che fai i cori… non dei campionatori, proprio una base. Tremendi. Anche qui nulla degno di nota, oltretutto con una certa arroganza il cantante afferma che se non abbiamo ascoltato i loro brani su spotishit è male… niente affatto: spotishit è il male e voi siete anche peggio.

Non so chi abbia scelto questi due gruppi per aprire il concerto ma se penso che possono aver tolto del tempo ai Messa, sto male. Mi dicono che in altre occasioni abbiano suonato anche di più che qui quindi, vista l’ordinanza che impone la fine a mezza notte, il dubbio mi viene.

Manco a dirlo dopo cotanta tribulazione, salgono sul palco i Messa, dopo una lunga intro ha inizio la magia: innanzitutto i suoni sono stupendi, chitarra e basso macinano quasi all’unisono con una pachidermica presenza, quasi da gruppo drone metal in certi frangenti. Questo senza dimenticare che il chitarrista Alberto, di cui si festeggia il compleanno con canzoncina cantata dal pubblico annessa, ha una preparazione notevole di cui farà sfoggio qua e la, soprattutto nell’introduzione di “Pilgrim”, e riesce perfettamente a coniugare i passaggi jazzati e i riffoni roboanti. A volte portarsi dietro il proprio fonico serve, anche per il suono della batteria che ti prende allo stomaco come da migliore tradizione.

Ultima ma non ultima la voce di Sara, assolutamente superlativa, tra le poche cantanti che sia riuscita, sul serio, a farmi venire la pelle d’oca. Su disco sono magici, dal vivo ancora di più se possibile, soprattutto per la pienezza dei suoni grevi, difficilmente riproducibili a questi livelli in un impianto casalingo. Anche se spogliata del contributo degli strumenti aggiuntivi (hammond, sassofono, mandolini etc…) la musica si diffonde nell’ aere meravigliosa e suadente, sinuosa come un rivolo di fumo di incenso, ipnotizzando e stregando tutti quanti. Passa in un lampo il concerto tra pezzi vecchi e nuovi, tra gli altri spiccano “Babalon”, “Leah”, “Rubedo”, “Suspended”, “Pilgrim” in un continuum invidiabile di emozioni. Tra un brano e l’altro Sara con una grazia delicata introduce i pezzi dicendo due parole per rendere il contesto, fortunatamente è disarmante nel farlo che a nessuno viene in mente di urlare cose turche come spesso succede alle componenti di sesso femminile. Questo malcostume pare superato almeno per questa serata, alla fine riceve una proposta di matrimonio… ma la risposta è spiazzante (“sapete sempre come mettermi in imbarazzo…”) e si capisce benissimo che sarebbe di pessimo gusto continuare per quella strada. Quando annunciano l’ultimo pezzo tutti sbottano in un “NOOO!” all’unisono ma è una finta, c’è ancora spazio per “Enoch” e tutti a casa a mezzanotte.

In conclusione la prossima volta che rinuncerò a vederli mi prenderò a schiaffi da solo qualsiasi sia il motivo. Sono tuttora permeato da quell’aura di innata meraviglia. Disco dell’ anno, Band dell’anno, concerto dell’anno… peccato solo per la durata.

Cose ascoltate di recente

Codespeaker – Codespeaker: Orfani dei Neurosis e, forse soprattutto, degli Isis di tutto il mondo ci sono buone notizie per voi: in terra d’ Albione qualcosa si muove e lo fa in modo roboante. Questo gruppo di recente formazione rischia veramente di raccogliere il testimone dei padrini del post (HC, metal, quello-che-volete-voi) in maniera assolutamente autorevole, il loro disco d’esordio sembra riprendere il discorso da dove le due band madri l’avevano interrotto, riportando in vita un genere che si era quasi completamente perso. Tutto con un solo disco all’ attivo? Ascoltare per credere. La loro proposta ha veramente tutte le carte in regola per aggiungere nuovi tasselli al discorso incominciato, oramai molti anni fa, dalle due band statunitensi. Ora hanno davanti un avvenire luminoso se sapranno spingere avanti la loro musica ampliando lo spettro sonoro di partenza. I Cult of luna si sentiranno, finalmente, un po’ meno soli.

16 – Into Dust: Qui si parla di veterani dello sludge che esordirono, oramai decenni fa, sulla defunta (?) etichetta di Pushead (disegnatore dei metallica) la bacteria sour. Dopo un lungo periodo di inattività ritornano alla luce e, per una volta, la loro reunion ha un senso. Sfornano sempre dei bei lavori, molto compatti e densi di belle canzoni con, nonostante il genere, un buon gusto per il groove e qualche trovata insolita qui rappresentata da un sassofono che fa capolino alla fine del disco. Se amate il genere, anche privo di certi eccessi plumbei alla Eyehategod, fanno decisamente per voi. All’inizio erano decisamente più legati all’ HC, tanto che in molti li scambiarono per un gruppo del genere per quanto strani, adesso hanno trovato una dimensione decisamente meno legata al minimalismo e alla velocità di esecuzione ma assolutamente greve e massiccia. Una gradita conferma.

Celestial Season – Misterium I/II: L’operazione nostalgica di rientro di uno dei miei massimi gruppi feticcio continua. Stavolta con addirittura con due album in un anno solo. Il risultato è apprezzabile, death/doom con violini vecchia scuola, come erano soliti fare a inizio carriera. Pur avendo uno strumento in comune con i vecchi My Dying Bride la somiglianza non è così evidente: i brani hanno una loro personalità e ragione d’essere (sfido chiunque a non scapocciare in “Black water mirrors” per dire). Se siete amanti di certe sonorità queste due uscite vi rincuoreranno: più pesante la prima, maggiormente eterea la seconda. Per riprendere il discorso fatto con gli In The Woods… (anche se in misura minore) la cosa che fa tristezza è che però si è persa completamente la spinta innovatrice meravigliosa che avevano avuto in “Solar Lovers”, un disco assolutamente illuminato con il quale avevano veramente trovato una dimensione personale e, a questo punto, irripetibile.

Phlebotomized – Devoted to God: Dalla terra gloriosa d’ Olanda non emergono solo i Celestial Season, anche i Phlebotomized che, nel campo dell’innovazione sonora, sono un gruppo di assolta rilevanza. Assolutamente tra i primi a introdurre strumenti e strutture inusuali nel death metal, ora rispolverano il loro vecchio demo. Ovviamente è fatto secondo la vecchia scuola, per artwork e registrazione, ma risulta assolutamente importante per comprendere la genesi di un gruppo che ha saputo rivalutarsi nel tempo. Oltre a questo, testimonia che, con l’evoluzione tecnologica, molta della magia dello studio di registrazione si è irrimediabilmente persa. Un prezioso cimelio.

Øjne- Prima che tutto bruci: Questo è un disco che compie cinque anni in questi giorni. Li ho conosciuti grazie al figlio di un mio amico con cui ho in comune la passione per gli Storm{o}. Un giorno lo vedo indossare la maglietta di questo gruppo e mi incuriosisco. Hanno da poco suonato con il gruppo di Feltre al Bloom di Mezzago, quindi suppongo che li abbia sentiti lì. Da subito mi colpisce il cantato, sarebbe meglio dire “l’ urlato”, che mi sembra un po’ troppo sopra le righe per la musica che fanno, poi i testi un po’ troppo naïf… anche se la musica mi fa un’ottima impressione: sono davvero bravi. Tanto che lentamente le loro canzoni mi si infilano nelle orecchie e torno a riascoltarli spesso, diventano dei buoni compagni delle mie camminate al buio alla sera. Alla fine entro definitivamente nella loro musica, anche il cantato e i testi acquistano via via senso e contesto: alla fine questo disco diventa importante per me. Non so molto della scena, delle altre band che suonano lo stesso genere, della filosofia che ci sta dietro, il tempo degli emo e degli screamo me lo sono perso, sicuramente ero preso da altre cose. Ma anche se non ne sono addentro, sono contento di non essermi perso questo disco perché è bellissimo e pensare che le giovani leve oltre a certa immondizia musicale (altrimenti nota come t**p) possano anche ascoltare lavori come questo mi lascia una certa speranza.

Il buio in una stanza

Negli anni ’90 avevo una pratica segreta che mi piaceva più di tutte. Chiudermi al buio completo in una stanza e stare assolutamente fermo ascoltando musica. Una ragazza mi vide farlo una volta e si spaventò, ma non erano prove generali del mio trapasso, era un modo per chiudere il mondo fuori. Era un modo per concentrarmi sulle note e rendere loro omaggio del mio amore incondizionato, non potevo farlo con qualsiasi disco. Se allora mi avessero chiesto 5 dischi che meglio definivano gli anni ’90 non avrei avuto dubbi nel dire: My Dying Bride “The angel and the dark river”, Nine Inch Nails “The downward spiral”, Celestial Season “Solar lovers”, Kyuss “Blues for the red sun” e In The Woods… “Omnio”. Quest’ultimo era il disco perfetto per quanto descritto sopra.

Gli In The Woods… erano un mio personalissimo oggetto di culto che alla fine risultò per un attimo anche abbastanza popolare. Erano assolutamente misteriosi, sembrava che nessuno li avesse mai visti in faccia, alcune foto girarono solo dopo il disco successivo “Strange in stereo”, pareva che avessero tenuto un oscurissimo concerto nella sala della casa discografica Dracma di Torino (se qualcuno se la ricorda ha tutta la mia stima) del quale si narravano cose tipo maschere, veli e ghiaccio secco a celare l’identità dei musicisti… io non ebbi la fortuna di presenziare ed ero vittima di confuse e fantozziane voci di corridoio.

Il primo disco “At the heart of the ages” era ancora venato di black metal, nel cantato e nell’atmosfera generale, ma già dal primo brano, con quella nota ripetuta all’ossessione (che io associavo a “The cry of mankind”) si capiva che erano molto più di questo.il gruppo di Kristiansand esplose letteralmente nel disco successivo, il glorioso “Omnio”, un disco in grado di farmi letteralmente perdere la testa. In molti gridavano al tradimento, personalmente era una delle cose più belle che avessi mai ascoltato. Il disco era la quintessenza dell’universo parallelo nel quale avrei voluto perdermi, allora i concetti di deprivazione sensoriale (poi reso famoso da “Stranger things” tra gli altri), meditazione e distacco dalla realtà non mi erano ancora del tutto chiari, sapevo solo che quello era uno spazio mio, e quel disco era una sorta di porta verso quel mondo. Quindi era (ed è) meraviglioso. Avere in casa un disco come “Omnio” è come vivere ai piedi delle montagne, sai di avere a disposizione, a poca distanza da te, la possibilità di raggiungere un posto impevio ma affascinante, nel quale rifugiarti e in cui nessuno o quasi può trovarti. Tu però lì puoi far rinascere te stesso.

Cinque brani di cui uno, che da il titolo al disco, diviso in tre movimenti poco più di un’ora di durata, non una nota fuori posto. Anzi sì, nel primo brano, che poi ha per titolo il valore della velocità della luce, si sente una nota dissonante talmente evidente che viene quasi da pensare che l’abbiano lasciata lì apposta, tanto per risvegliare l’ascoltatore, come un campanello che suona nel silenzio più assoluto. A 25 anni dalla pubblicazione rimane uno spiraglio di luce, un disco assolutamente a sé nel panorama della musica pesante e non solo. Dopo questo ancora un bel lavoro e una raccolta, poi il silenzio.

Viene pubblicato un live nel 2003, poi nel 2016 tornano. Ma non sono più loro: c’è un tale turbinio di muscisti che si avvicendano da lasciare disorientati, gli In The Woods… diventano una sorta di collettivo con gente che entra ed esce. Questo non significa che ora facciano musica pessima, tuttavia quell’aura di magia e mistero è andata completamente persa. E si è perso molto anche in tremini di genialità, adesso semplicemente sono un gruppo più canonico e meno peculiare, comunque piacevoli da ascoltare anche se non più in grado di indurre l’ascoltatori in dimensioni parallele o mondi lontani. A 25 anni di distanza da “Omnio” è uscito “Diversum”…

Had it and lost it… nearly

Live on the slaughter beach

Questo verrà ufficialmente ricordato come il live finito prima nella storia. Al Fabrique non si scherza e alle 22:30 tutti a casa o, più verosimilmente, parte la seconda serata tipo discoteca? Non lo sapremo mai. L’occasione era clamorosa: vedere all’opera Green Lung e Clutch in una sola serata, tra dubbi ed incertezze legate ad eventuali rimandi e cancellazioni siamo arrivati al fatidico 26 novembre. Tutto inizia prestissimo, addirittura pre-aperitivo, alle 19 il primo gruppo sta già lasciando il palco, faccio appena in tempo a vederne le facce e a non ricordarne il nome. Per la prima (forse) volta assisto ad un concerto dove tutte le tempistiche sono assolutamente rispettate, i cambi palco veloci e efficienti quasi come un pit stop di formula 1, se non si considera la volta in cui persero la gomma di Irvine.

Avevo quasi perso la speranza di vedere una cosa del genere e adesso paradossalmente mi rende il concerto quasi troppo asettico, anche se il fatto di essere a casa a mezzanotte ha un valore aggiunto innegabile per chi viene da fuori. Detto questo: i Green lung si fanno da soli un velocissimo check ai suoni e da subito da nell’ occhio il loro chitarrista che sembra la versione ringiovanita e vigorosa di Dave Chandler dei Saint Vitus, poi dei roadie montano veloci due bandierone coi caproni e si comincia.

L’attesa era tanta, visti i loro due pregevoli dischi e mezzo all’attivo, e non è stata vana. Musicalmente inappuntabili sono rodatissimi ed esaltati come la loro età relativamente giovane impone: sparano fuori le loro cannonate come “Ritual Tree”, “Old Gods” e l’esaltante “Reaper’s Scythe” con decisione e sicurezza da band conscia dei suoi mezzi e con dei suoni finalmente all’altezza anche trattandosi di un gruppo spalla. Nulla da dire, alla fine paiono anche troppo forzati nel cercare l’attenzione del pubblico ancora poco numeroso e in parte disattento, ma per un gruppo che vuole farsi strada ci sta. Il futuro per loro appare radioso a patto che non si facciano stritolare da quel tritagruppi che risponde al nome di Nuclear Blast.

Per i Clutch, la recensione potrebbe scriversi da sola. Tutta l’attenzione è focalizzata su Neil Fallon che da vero istrione trascina il pubblico con le sue occhiatacce, il suo gesticolare plateale, il suo indice accusatore e, ovviamente, il suo vocione inconfondibile. Gli altri si limitano a suonare, ma lo fanno veramente da manuale. Instancabili macinatori musicali miscelano blues, funk, hard rock tritando tutto come una schiacciasassi e poi fondendo tutto in una forgia dalle colate incandescenti. Un’ora e mezza di concerto, una carriera ormai più che trentennale alle spalle e sono ancora lì solidi e fieri nel loro credo che si chiama rock’n’roll.

Fanno capolino anche un theremin, un campanaccio, un’armonica a bocca a colorire il suono, ma la sostanza rimane fermamente quella di un gruppo del Maryland che dagli anni ’90 non si è mai fermato e raramente ha dato segni di cedimento, nonostante qualche disco un po’ sottotono e i guai fisici partiti da Fallon ad un certo punto della sua carriera. Sciorinano brani vecchi (una lontanissima “Rats”) e nuovi con naturalezza e convinzione che coinvolge appieno il pubblico che vive momenti di vera e propria esaltazione come quando si esibiscono in “Earth Rocker” vero e proprio manifesto programmatico del gruppo.

Recentemente alla dipartita di Jerry Lee Lewis si è parlato di last man standing: per quanto concerne la sua generazione è sicuramente vero, per quelle successive ci sono ancora gruppi che, come i Clutch, dimostrano di non voler mollare ancora il colpo: non possiamo che ringraziarli per questo e auguarargli lunga vita e prosperità, con le corna alzate chiaramente.

Un post e una canzone

Un post solo per una canzone? Certo. In realtà sarebbero due, ma procediamo con ordine. La scorsa estate, rincorrendo il ramo materno delle mie radici, sono tornato a Feltre e l’ho fatto indossando una maglietta degli STORM{O}. Mi sono fatto fare una foto sotto il cartello della cittadina in provincia di Belluno (ma, se se la prendono come i miei parenti, guai a dirgli che sono bellunesi) e gliel’ho mandata. Sono dei bei tipi e l’hanno presa bene, anzi si sono esaltati.

Stessa cosa che è successa a me lo scorso fine settimana quando hanno fatto uscire il loro brano in anteprima per il nuovo disco che uscirà a febbraio con tanto di nuova etichetta discografica al seguito. Perché gli STORMO (che nel frattempo han perso per strada le parentesi), come il paese originario di mia bisnonna, sono veramente qualcosa che mi è molto caro. Come molti arrivo a conoscerli con il loro secondo lavoro “Ere” e poi da lì hanno saputo ritagliarsi un posto speciale nei miei sentimenti, e non temo di apparire troppo sdolcinato nel dirlo. Forse saranno le origini, ma alla fine sono soprattutto la loro musica, i loro testi, la loro attitudine a far si che questo sia successo. E mi ritengo un ascoltatore indurito da tutto quello che l’industria musicale è diventata, dalla sfiducia crescente negli artisti, dalla secolarizzazione della musica a me cara che non riesce a trovare vie esperssive che risultino credibili e personali.

Tuttavia, detto tutto questo, il gruppo di Feltre rappresenta per me un’isola felice, una delle poche che tengo strette a me assieme ai Messa, che guarda a caso,  provengono anch’essi dalla mia regione d’origine. Perché sono due gruppi veri, ragazzi che ci provano a dare il loro contributo artistico, a mettere in gioco la loro bravura per arrivare a proporre qualcosa che, nonostante i riferimenti che tutti i gruppi hanno, suoni come profondamente loro. Quindi la premiere del loro nuovo disco per me è un evento che voglio celebrare con un post fatto apposta. E poi la canzone è una bomba. Ascoltatela, riascoltatela e ascoltatela ancora fino a febbraio. Cogliete le differenze col passato, proiettate speranze per il futuro. Non l’avrete fatto invano.

P.s.: Visto che parliamo di affetto, segnalo che è anche uscita la canzone apriprista per gli Obituary, ovvero il gruppo che mi ha fatto amare il death metal. Al di là di tutto, voglio bene anche a loro e vedere il loro logo su un disco nuovo mi fa felice.

El Cielo vent’anni dopo

L’ 8 ottobre compie 20 anni uno dei dischi definitivi del rock anni 2000. Si intitola “El Cielo” e il gruppo californiano Dredg ne è l’autore. All’epoca fu una vera rivelazione, nei forum ne parlavano tutti come di un piccolo capolavoro, ed in effetti lo è. Molto leggero e sognante, sembra una ventata d’aria fresca in una stanza che sia stata chiusa per anni. La cosa bella è che era totalmente fuori da qualsiasi scena e corrente musicale dell’epoca. Niente nu metal, niente post hardcore, semplicemente Dredg. Stavano da soli, erano personali, con un loro cammino che partiva da basi decisamente più rocciose: “Leitmotif”, il disco precedente, ere ancora imparentato con una sorta di alt-metal che troverà ben poco spazio nel successore.

In effetti il disco suona leggero, ma non stucchevole; aggraziato ma non facile. Le liriche nascono direttamente dal quadro di Salvador dalì “Sogno causato dal volo di un’ape attorno ad una melagrana un attimo prima del risveglio” che fa diretto riferimento alla sindrome di paralisi del sonno della quale pare soffrissero lo stesso pittore e sua moglie. Molti brani si intitolano infatti Brushstroke (“Pennellata”) con diverse identificazioni specificate, inoltre alcune lettere ricevute dal gruppo da parte di persone affette da paralisi del sonno vengono utilizzate nella stesura dei testi. Il gruppo sceglie di riportarne alcune nel booklet che esce in due formati, uno con un letto su sfondo marrone, l’altro con una finestra aperta sul cielo con le nuvole di sfondo, tuttavia sembra che ne esistano molte diverse versioni sia in digipak che in jewel case, anche nel formato superaudio CD e con bonus disc (dettaglio: ovviamente io beccai quella marrone che mi piaceva meno).

La particolarità di questo disco sta nel suo essere al di fuori dei generi: per qualcuno suona rock, per altri progressive, per altri ancora pop. È un insieme di tutte queste cose e nessuna di esse, quello che è certo è che in questo disco gli autori dimostrano di essere in grado di far convivere diversi stili in modo assolutamente armonico e con un gusto quasi insuperabile per la melodia. Visto il periodo in cui esce è un mezzo miracolo, uno di quei dischi in cui non c’è una nota fuori posto, una sbavatura, qualcosa che palesemente non funziona. Fluisce come se l’attrito non esistesse e a tratti ti trasporta lontano, personalmente mi ha sempre predisposto positivamente facendomi osservare particolari che, nel quotidiano, passavano sistematicamente inosservati. Il suo pregio principale è proprio di essere in grado di creare un mondo a sé. Fin dalle prime note di “Same ol’ road” è impossibile restare indifferenti a quello che i Dredg sono in grado di mettere sul piatto.

La voce di Gavin Hayes, si erge suprema sulle miserie del mondo, forte di una base ritmica solidissima, per poi esplodere come se fosse un fuoco d’artificio il quattro luglio. Il termine corretto per questa musica è emozionale, non me ne vengono altri. Un’ altra menzione la merita senza dubbio “Scissorlock” dove i nostri semplicemente compongono uno dei ritornelli più belli mai sentiti in un inno notturno e luminoso come se la luna piena, i lampioni e le stelle formassero un’unica costellazione.

Se con queste due canzoni non vi ho convinto, mi spiace, però continuerò a portarmi questo disco nel cuore e ne sarò geloso tanto gli sono affezionato. Per i suoi vent’anni gli autori ne faranno uscire una versione de luxe che promette faville, peccato che, pur mantenendo sempre un livello qualitativo altissimo, non toccheranno mai più queste vette, spostandosi progressivamente verso il pop e nonostante il successo commerciale del singolo “Bug eyes” del disco successivo, arriveranno a “mettersi in pausa” nel 2014, per annunciare poi un ritorno nel 2018 che non si è ancora concretizzato.

Nonostante tutto il loro nome è stato scritto a caratteri cubitali nella storia del rock, con un disco formidabile, e non è un’impresa da tutti.

It’s never ending and never surrendering

A un certo punto l’estate scorsa mi è quasi mancato il fiato, scorredo selvaggiamente le notizie sul mio telefono mi salta fuori un nome ed una data: Unida a Torino, il 4 ottobre. Lo rileggo un paio di volte ed è vero, in qualche modo gli Unida si sono riformati e vengono in Italia. Li avevo visti almeno vent’anni fa al Babylonia, e adesso ho nuovamente l’occasione di farlo senza che abbiano inciso nulla, come se fossero rimasti sospesi nel vuoto tutto questo tempo. Poi quasi quasi me lo dimentico.

A pochi giorni dalla data scopro che John Garcia non è più della partita (anche se ha cantato nei primi shows dopo che si erano riuniti, pare non potesse cantare in questo tour) e che praticamente il chitarrista Arthur Seay e il batterista Miguel Cancino sono gli unici membri originali superstiti. Doveva esserci la fregatura! Ma dopo tre anni di assenza da sotto al palco (tra sfortune varie non sono riuscito a vedere nemmeno mezzo concerto quest’estate e i miei amati Messa credo che non li vedrò per un pezzo, visto l’incidente stradale disastroso che li ha coinvolti…) decido che chi se ne frega e li vado a vedere lo stesso. Il rischio era quello di trovarsi davanti poco più di una cover band di uno dei gruppi più sfortunati sulla terra.

Credo che ormai sia inutile stare ancora a disquisire sul loro secondo album (detto per inciso: ne ho una versione bootleg su vinile ed era una bomba) e sulle vicissitudini che hanno fatto sì che non uscisse mai o sul fatto che siano autori forse della più bella canzone stoner di sempre che è questa:

Loro fanno a tutti gli effetti parte dei gruppi degni di venerazione, quindi buttare tutto nel cesso è un rischio grossissimo ritornando sulle scene vent’anni dopo, senza nuove pubblicazioni, con una formazione rimaneggiata ed un repertorio abbastanza scarno (ma non scarso).

Scacciato questo pensiero si parte alla volta di Torino,  la serata ha un clima mite e il capoluogo piemontese è quasi esattamente la stessa città del febbraio del 2019 quando andammo a vedere i Mondo Generator. Anche il posto è lo stesso, il Blah Blah in via Po, all’inizio sembrava suonassero allo Spazio 211 e onestamente avrei preferito: è decisamente più decentrato e spazioso, oltre che più comodo per chi arriva da fuori. Probabilmente anche l’acustica è migliore… però bando alle perplessità.

Aprono i locali Flying Disk, da Fossano. Niente male il loro repertorio, molto anni ’90 anche se lontano dallo stoner che invece contraddistingue gli headliner della serata, i loro punti di rifermento sembrano essere gruppi mai troppo allineati a correnti musicali come gli Helmet o i Fugazi. Riescono comunque a offrire una buona prova, da power trio duro e puro, senza fronzoli o cali di tensione, con una buona scaletta, sufficientemente personale nonostante i chiari numi tutelari. Hanno un disco che sta per uscire: dategli un ascolto, non ve ne pentirete.

E adesso passiamo agli Unida. Viste le premesse sarebbe dura per chiunque, il concerto riesce a non gettare fango su un nome storico e consegnato alla storia, quindi il pericolo più grosso è stato scongiurato. Ci sono però alcune perplessità abbastanza palesi che si sono addensate sul gruppo durante l’esibizione. Dal punto di vista strumentale sono tutti estremamente validi: Seay è un autentico mattatore appare in forma smagliante: sciorina riffoni, assoli e linguacce a tutto spiano, Cancino coordina la sezione ritmica con precisione e potenza, ma l’autentica rivelazione della serata è Collyn McCoy al basso: a vederlo sembra un pacioso signore di mezza età tranquillo, ti aspetti che faccia il suo senza strafare. Invece è un vero virtuoso del suo strumento, sciorina delle linee di basso assolutamente azzeccate ed eclettiche, riesce a mettersi in evidenza più volte senza far rimpiangere quell’altro maestro che si chiama Scott Reeder. Complimenti a lui, in un paio di occasioni mi ha fatto staccare la mandibola dalla sorpresa, bravissimo.

Sì, direte voi, ma il sostituto di Garcia, tale Mark Sunshine (se poi è il suo vero nome)? Se fosse una pagella di un quotidiano sportivo, un commento adatto sarebbe: non pervenuto. La sua voce si sente poco e male (problemi di soundcheck o oscurantismo volontario?) e per quel poco che si sente sembra che voglia tenere dietro a Garcia riuscendoci solo a sprazzi, infilandoci qualche acuto che sa di gallinaccio spennato (avete presente il buon W. Axl Rose che pena faceva dal vivo?) e non lasciando una buona impressione di sé. A questo aggiungete un look da capello lungo e unto da far invidia a “er monnezza” di miliana memoria e delle movenze goffe che ricordano da vicino quello zuzzurellone di bassista che sta rovinando i Melvins che si chiama Steven Mac Donald (licenziatelo!). Insomma un altro commento beffardo e azzeccato sul soggetto è stato “è bello da vedere”… ma sarebbe meglio non rivederlo in questa veste.

Altri dubbi riguardano il repertorio proposto, ok le vecchie canzoni, ben fatte, ma poco di nuovo all’ orizzonte, assoli a tratti prolissi, una sorta di medley di brani di altri che pare piazzato lì per guadagnare tempo a metà esibizione e, soprattutto, la cri-mi-na-le esclusione di “You Wish” richiesta a gran voce dal pubblico (e dai Flying Disk in particolare) ma lasciata da parte dal gruppo che, alla richiesta, risponde con sguardi persi nel vuoto di non averla preparata. Per me, che venero quel brano, è la nota più negativa della serata.

Luci ed ombre dunque di un progetto rinato e con delle potenzialità ma che deve svilupparsi e decidere che direzione intraprendere, possibilmente non dimenticandosi del passato (soprattutto di “You Wish”!) e trovando un sostituto migliore per Garcia, se non proprio Garcia stesso che comunque non viene considerato ancora fuori dal gruppo.

Postilla: a vedere il video la voce si sente e non è nemmeno male, magari sono stato anche troppo severo con il buon Sunshine… però dal vivo si sentiva veramente poco e quel poco non era un granché, lo garantisco. E comunque guardate le mossette che fa…

a band a day.

www.daily.band

Doom Charts

A one-stop shop for the best new heavy albums in the world

Nine Circles

We, The Blog

Sugli Anelli di Saturno

Camminare attorno al tuo pianeta

Shoegaze Blog

Punk per gente introversa

Less Talk.More Rock

ON THE SCENE SINCE 1994

miss mephistopheles

Satan Is A Lady

Head-Banger Reviews

Daily Reviews for the Global Domination of Metal and Rock Music

Un Italiano in Svezia

Le avventure di un emigrato

Drive In Magazine

International Arts Magazine

rockvlto

be rock be cvlt

Il Raglio del Mulo

Raccolta disordinata di interviste

neuroni

non so chi abbia bisogno di leggerlo

10.000 Dischi

I dischi sono tutti belli, basta saper coglierne gli aspetti positivi

Blast Off

How heavy metal reached the peak of its stupidity with me

Psychonly - ascolti, letture, visioni

Psychonly (... but not only psych)

Sull'amaca blog

Un posto per stare, leggere, ascoltare, guardare, viaggiare, ricordare e forse sognare.

Note In Lettere

Note in lettere, per l'appunto.

Blog Thrower

Peluria ovunque, ma non sulla lingua

Layla & The Music Oddity

Not only a music blog

.:alekosoul:.

Just another wanderer on the road to nowhere

Stregherie

“Quando siamo calmi e pieni di saggezza, ci accorgiamo che solo le cose nobili e grandi hanno un’esistenza assoluta e duratura, mentre le piccole paure e i piccoli pensieri sono solo l’ombra della realtà.” (H. D. Thoreau)

dirimpa.wordpress.com/

pensieri sparsi di una coccinella felice

Polimiosite: nome in codice RM0020.

La polimiosite è una malattia muscolare rara ancora poco conosciuta. Aiutami a informare e sostenere chi ne è affetto!!!

BASTONATE

Still Uncompromising Blog

metalshock.wordpress.com/

Brothers of metal together again

Words and Music

Michael Anthony's official blog and book site

Fumettologicamente

Frammenti di un discorso sul Fumetto. Un blog di Matteo Stefanelli

Appreciation of Trevor Dunn

Appreciation of Trevor Roy Dunn, composer, bass and double bass player extraordinaire.

Briciolanellatte Weblog

Navigare con attenzione, il Blog si sbriciola facilmente

laglorificazionedelleprugne

perché scrivere è anche questo

ages of rock

Recensioni e pensieri sulla Musica Rock di tutti i tempi

Fuochi Anarchici

Fuoco fatuo, che arde senza tregua. Inutile tentare di estinguermi o di alimentarmi, torno sempre me stessa.

fardrock.wordpress.com/

Ovvero: La casa piena di dischi - Webzine di canzonette e affini scritta da Joyello Triolo

Everyday life in the North Cape & North of Norway

Amazing adventures waiting to be discovered