Più forte delle parole

451 gradi Farenheit è la temperatura alla quale la carta si incendia. Se non vi dice nulla credo che non abbiate mai letto il libro di Ray Bradbury e mi chiedo come mai. Se non l’ avete fatto probabilmente vi manca uno spunto per ragionare circa l’essere offensivi nei confronti degli altri, magari nemmeno vi sentite a disagio nei confronti dell’imperante necessità di non offendere nessuno, almeno in apparenza.

Anche un film di Truffault per la verità

Probabilmente vivete bene in quest’epoca di gente che pretende che tu ti muova sul ghiaccio sottile nella speranza che nessuno si offenda mai per quello che dici. Il principio è giusto, le conseguenze tremende. Nel libro, oramai nemmeno più tanto di fantascienza di Bradbury, i libri vengono messi all’indice e poi bruciati per paura che possano offendere qualcuno… persone di colore, omosessuali, devoti di una religione a caso, infine una qualsiasi categoria di persone. Adesso un campanello vi risuona in testa o ancora no?

Ci si muove esattamente come la buonanima di Carla Fracci, in punta di piedi, cercando di non gravare troppo sul terreno perché altrimenti potrebbe creparsi. Quindi si mettono all’indice film come “Via col vento” (che andrebbe semmai oscurato perché è un mattone tremendo, ma questa è un’altra storia), addirittura la Disney ha più di un dubbio su molti suoi cartoni animati: cose del genere che, a un certo punto, mi sono rifiutato di sentire ancora. E poi arriva Bill Hicks e fa il punto della situazione:

“This idea of “I’m offended”. I got news for you I’m offended by a lot of things too. Where do I send my list? Life is offensive. You know what I mean? Get in touch with your outer adult and grow up, move on.”

Vuoi vedere che la colpa non è della ballerina che si muove pesantemente, quanto piuttosto del terreno che è troppo fragile? Non sarà che non stiamo dando alle persone gli strumenti per non offendersi per le parole degli altri? Offendersi a volte significa non capire il contesto. Le persone di colore in “Via col vento” sono trattate nel modo in cui erano trattate all’epoca dell’ ambientazione del romanzo, io piuttosto mi scaglierei contro il tentativo di normalizzazione squallido di chi mette la testa sotto la sabbia proibendone la visione. Molte conquiste civili sono state fatte partendo da un’ offesa, molta controcultura si basa su cose oltraggiose, offensive, scorrette. La libertà di parola non funziona a senso unico, a meno che non si sfoci in un reato. Ma i reati li giudica la magistratura, non le emittenti televisive, i giornali o chiunque altro.

Tutto questo preambolo iniziale per introdurre le cose che ritengo figlie del politicamente corretto che mi fanno maggiormente reagire:

  1. Non ti piace qualcosa? Non ne parlare. La madre di tutti i mali. C..redici che non lo faccio! Il solo fatto che non mi piaccia/ non mi stia bene qualcosa non mi autorizza a parlarne? Una bella consuetudine da social network sempre più radicata. Mai visto nulla di più sbagliato, paradossalmente proprio delle cose che non sopportiamo dovremmo parlare di più per cercare di cambiarle attraverso critiche costruttive che nessuno accetta più per tanto spesso si sfocia nel turpiloquio direttamente. È sicuramente sbagliato, ma è un atteggiamento figlio dell’assurdità del disquisire negato. IO NE PARLO ECCOME! E mi permetto pure di usare l’ironia e lo sberleffo con chi me lo vieta. Da qui a bruciare i libri ci si arriva in 3.2.1…
  2. La censura tipo PMRC. No grazie. A parte che l’esperienza Tipper Gore insegna: ha avuto più che altro l’effetto di fare pubblicità e far vendere le magliette con il famoso adesivo. È un problema vecchio come il mondo: le persone (e anche i gruppi musicali) possono parlare delle tematiche che vogliono. Si suppone che le persone siano dotate di cervello pensante tale da operare in coscienza opera di discernimento. Se non hanno tali capacità o è perché sono troppo piccoli o è perché non sono in grado (e in questo caso sta alla società di tutelarli) o non hanno gli strumenti (e in questo caso sta sempre alla società forniglieli). Scaricare la colpa sugli altri è sempre comodo.
  3. Non mi ci scaglio contro ma nemmeno tutta questa attenzione ai generi maschili/femminili, gli * messi al posto delle vocali mi suscita particolare simpatia. Sono solo parole. Quello che conta sono i fatti, prima di cambiare la lingua non sarebbe male cambiare le persone. Poi lo so che le parole sono importanti ma, anche qui, il contesto è che la lingua italiana ha sempre avuto i generi e certi sostantivi o sono maschili o sono femminili e io non ci vedo nulla di male in questo. Comunque sia a Vera Gheno le si vuole bene, sia chiaro.

Hanno tentato di offendermi un buon numero di volte in vita mia: per il mio corpo (body shaming adesso si chiama così?), per le mie idee (il bello di non affiliarsi mai…), per essere vegetariano (adesso fa figo, dovevate provare nel 1994), per la musica che ascolto, per i capelli che avevo e per l a mia capoccia pelata di adesso… con ogni argomentazione possibile, insomma. Spesso, soprattutto all’inizio, ci sono riusciti, mi hanno fatto male, mi hanno gettato nella depressione, anche persone vicine. Poi ho trovato la forza, ho smesso di dare peso alle offese: è un percorso duro, accidentato ed è giusto tutelare chi non riesce a farlo in solitaria, però non bisogna nemmeno arrivare a certi eccessi nei quali il contesto non conta più nulla, si spegne il cervello e non se ne tiene più conto sparando indebitamente a zero. La società moderna ci dà apparentemente il diritto di offenderci per qualsiasi cosa, io rinuncio a questo diritto. Occorre essere più forti delle parole.

Pippone finito.

Un piccolo disco scorretto, per gradire.

Accade a marzo 2021

Il mese inizia con una notifica di Facebook mi ricorda che il 6 di questo mese ricorre il compleanno di Marco Mathieu, caduto in coma ormai diverso tempo fa a seguito di un ictus che lo colse nel 2017 mentre era in vespa. Il bassista dei Negazione fu il primo musicista a cui scrissi una lettera che forse ancora non ero maggiorenne. Ci sono molto affezionato perché mi rispose a mano (!!!) e fu davvero un grande facendomi anche gli auguri per la scuola. Inoltre poco dopo li vidi in concerto e fu il primo vero concerto visto in solitaria (seppur con il provvidenziale passaggio genitoriale) che finì per cambiarmi la vita. Non ho potuto fare a meno di rivolgergli un pensiero di speranza, seppur velato dal tempo trascorso dal suo incidente che ormai comincia ad essere veramente tanto. Mi resterà sempre nel cuore, la sua musica e i suoi scritti; mi rammarico ancora di non aver avuto l’opportunità di accedere al suo lavoro su Socrates.

Lo spirito continua, Sempre!

Il giorno 8 irrompe la notizia del decesso di Lars Goran Petrov, storica voce degli Entombed.

Lars Goran Petrov (1972-2021) Fonte Wikipedia

Ho dovuto trasgredire alla mia regola autoimposta di non partecipare al carrozzone di cordoglio che di solito si scatena sul web, perché l’estate del 2007 è un ricodo ancora vivido nella memoria. Dopo anni di attesa finalmente posso permettermi un viaggio in nord Europa, e per i quattro anni successivi sarà una costante delle mie estati. Scelgo subito Stoccolma, che diverrà a buon titolo una delle mie città preferite. Appena arrivato mi guardo attorno come un animale randagio, il posto mi sembra da subito troppo bello per essere vero. Fatico ad integrarmi: c’è un sole splendente ma non fa caldo anzi, l’aria è frizzantina e si sta benissimo, la gente sorride, il Baltico è a due passi e mi sembra di non aver bisogno d’altro. Solo i prezzi mi fanno rabbrividire e la prima sera mangio una pizza da asporto fatta dai turchi in un parco cittadino. Torno all’ albergo dicendomi che quella sarà la mia casa per i successivi 15 giorni. Mi basta questo.

Il secondo giorno mi fiondo a Gamla Stan, il centro medioevale della città con l’idea di girarmi tutti i suoi vicoli e vederla tutta. L’ idea naufraga clamorosamente quando vedo l’insegna di Sound Pollution, storico negozio di dischi in centro, patria della musica estrema. Entro con una maglietta degli Unearthly Trance e il commesso mi fa i complimenti: più a casa di così… I dischi alla fine non sono poi così cari (provate a farvi una birra per ridere) alla fine però esco con un libro “Swedish Death Metal” di Daniel Ekeroth, storico libro sulla scena svedese con Entombed, Grave, Dismember e Unleashed in primissima linea. Sarà la lettura che accompagnerà l’intera vacanza con tanto di sopralluoghi nei posti citati nel libro: Il punto di ritrovo alla stazione centrale, il cimitero di Skogskyrkogården (patrimonio dell’ Unesco e protagonista della storica foto interna di “Left Hand Path”), qualche locale citato (anche se i nostri non potevano ancora entrarci in quanto sotto ai 21 anni), i Sunlight Studios etc… A quel punto mi sento veramente a casa, Sebbene in giro non ci sia il minimo sentore di Death Metal, respiro la stessa aria dei protagonisti e ne sono felice. Posso girarmela tutta la città e scoprire che è bellissima, trovare il più accogliente ristorante vegetariano di Stoccolma (l’Hermitage a due passi dal Sound pollution, spero ci sia ancora: erano tutti gentilissimi), girare per i musei (Il veliero Vasa, il museo civico, quello di storia naturale… ho saltato quello degli Abba), visitare la torre comunale.

Questo per dire che la scena svedese fu davvero qualcosa di unico ed importante, qualcosa in grado di smuovere le persone ed aprire nuovi orizzonti. Il tape trading allora era davvero qualcosa di avventuroso e romantico, magari facevi chilometri per incontrare una persona sentita solo per lettera partendo armato solo di passione e fiducia, oppure contattavi uno studio di registrazione perché ti aveva catturato quel suono e partivi all’avventura perché volevi registrare lì e finivi per tornare in quel posto in vacanza perché avevi stretto delle amicizie lassù. Gli Entombed ebbero una parte fondamentale in tutto questo e LG Petrov era una parte fondamentale degli Entombed, l’unico a non mollare fino alla fine, fatta salva una parentesi di scazzo con il mastermind Nicke Andersson a causa (pare) di una ragazza all’ epoca di “Clandestine”. Un personaggio schietto e reale che dava il 100% ed oltre sul palco, un puro concentrato di attitudine e metal, che ho avuto l’onore di vedere in azione al Master of death metal e a Rossiglione nel festival organizzato sa Trevor dei Sadist all’epoca. Una perdita tristissima e incommensurabile per chiunque abbia amato quella scena e anche quel paese meraviglioso che è la Svezia.

Al sound pollution sono tornato altre volte, in una occasione acquistai anche Serpent saints con relativa magletta omaggio che resiste tutt’oggi dal 2007!

Sing Backwards and weep

Mark Lanegan: Sing backwards and weep [Fonte: Amazon]

Iniziare a leggere un libro senza sapere bene cosa aspettarsi.

Si sono sentite voci su voci riguardo a questa autobiografia di Mark Lanegan e visto che, a mio parere, ha une delle voce più belle ed intense del pianeta ho dovuto recuperarla e leggerla in lingua originale. Operazione forse un po’ faticosa ma ogni tanto utile e, nel caso, anche coinvolgente. Elimino subito il dubbio: il cantante di Ellensburg qui ha buttato fuori l’immondizia. Questo è un libro che nonostante il celestino della copertina è nero come la pece.

I pochi spiragli di luce che emergono sembrano quasi buchi fatti con un ago ipodermico su un foglio scuro, la luce filtra ma è rada e puntiforme. Se pensate di scoprire qui il fervore che induce un giovane a cantare, se ritenete che si tratti dell’arte come forza catartica, se credete che parli dell’adrenalina che ti sale in gola in quei 5 minuti che precedono l’ascesa sul palco o della gioia che ti scoppia in petto quando senti il pubblico che applaude o canta un tuo brano, qui troverete ben poco. I pochi spiragli sono dati dalla prima serata passata dal nostro con Lee Conner quando nacquero gli Screaming Trees, l’amicizia con Dylan Carlson, Kurt Cobain, Layne Staley e Josh Homme, lo scazzo duro con Noel Gallagher e le poche pagine finali dedicate alla timida risalita dopo aver toccato il fondo. Poco altro.

Il resto è il fondo del pozzo, il resto è l’ondulare del pendolo. Il pessimo rapporto con la madre, gli amici che ti muoiono attorno come fili d’erba recisi dalla vita, un gruppo musicale che prima di tutto è un modo per scappare di casa, l’impossibilità di un rapporto solido con una ragazza e poi, ovviamente, l’eroina. La vita assurda del tossico in tour, i salti mortali per continuare a farsi, i rapporti con la malavita, la discesa negli inferi e l’annichilimento di qualsiasi legame, vendersi tutto per mantenere la propria abitudine alla droga pesante. Questi sono i reali protagonisti di questo libro, anche se ha un lieto fine e Mark (fortunatamente) è ancora qui, ringraziando la signora Love ed il suo programma di riabilitazione per artisti.

Per chiunque dubiti del reale interesse di questi argomenti risponderei, per citare lo stesso cantante, It’s time to grew the fuck up. Non si può amare l’arte del cantante e ignorarne la vita ed il percorso. Certo ogni cosa si può fare ma, visto che ha scelto di condividere con il pubblico le sue vicende, ignorarle sarebbe quantomeno superficiale.

Non ne esce un bel quadro per Mark. Scontroso, cinico, ombroso e scostante, per fagli dei complimenti, sicuramente instabile e a tratti impazzito. Il libro è schietto e crudo, una rasoiata di scabra realtà tumefatta e a tratti svuotata di calore. Un’immersione negli inferi senza abbellimenti o concessioni. Non so perché spesso mi ha fatto pensare a Pasolini, al fatto che la sua scuola fosse quella di coloro che dovevano provare ad ogni costo lo squallore sulla loro pelle per poter esprimere la propria arte. Magari solo io posso venirmene fuori con un’ associazione del genere. Eppure spesso leggere questo libro equivale a conficcarsi a forza la realtà negli occhi, una realtà dolorosa e degradante.

Non fatevi illusioni dunque, leggete a vostro rischio e pericolo, consapevoli però del fatto che, se amate la voce e le canzoni dell’autore di Blues Funeral, questo libro vi prenderà e vi costringerà ad essere letto, anche con una certa avidità.

Animali notturni

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Animale notturno

“Si scrive perché tutto muore, si scrive per salvare quello che muore. Si scrive perché il mondo è un caos inarticolato, e non riesci a vederlo finché non ne disegni la mappa con le parole”

Si va al cinema per venire rapiti dalle immagini, per dialogare con la storia, per riconoscersi nelle sfumature, per emozionarsi coi suoni e coi colori. Per comunicare a un livello superiore al mero verbo. A volte per crescere e riflettere.

Quando uscì il primo film di Tom Ford, il regista mi fece lo sgambetto. Un film diretto da uno stilista mi sembrò da subito una sfida ai miei pregiudizi, considerato che la moda viene recepita da me come il vuoto cosmico riempito di qualcosa di molto simile all’immondizia. Non ho cambiato idea sulla moda, sul fatto che l’estetica possa essere ricondotta ad un modello sterile ed insignificante, per giunta costoso e spesso privo di bellezza, questo crimine contro l’umanità continua a perpetrarsi tutt’ora.

Ho cambiato idea sul fatto che uno stilista possa essere un regista assolutamente pieno di talento. “A single man” mi ha conquistato. E’ ispirato, intenso e affascinante. E’ stato una ventata di aria fresca che non avrei mai inalato se il trailer non mi avesse colpito prima di un’altra proiezione. Avevo sentito dell’esordio dello stilista e regista/stilista ed ero deciso ad evitarlo come la peste. Eppure qualcosa mi aveva colpito nel trailer, o forse quella sera non avevo molto altro da fare. In tal caso benedetta indolenza. Ne sono stato catturato, pur essendo del tutto estraneo alle tematiche del film e questo non è cosa da poco, se qualcuno ti facesse leggere un libro su un tema assolutamente lontano da te, nel mio caso sarebbe già bravo, se poi riuscisse anche a farmelo piacere, allora sfiorerebbe il superlativo.

Quindi tutti i complimenti del caso. Il secondo episodio non me lo aspettavo e nemmeno lo cercavo, eppure mi ha trovato lui nello stesso identico modo del primo. E mi son detto che dovevo vederlo. E questa volta non solo mi è piaciuto ma mi ha fatto male.

La ricerca estetica vibrante in ogni scena, la puntuale caratterizzazione sonora di Abel Korzeniowski, i tremori emozionali della protagonista e la presenza del protagonista che non compare mai se non nei ricordi. Una storia divisa in due tra finzione e realtà compenetrate in maniera inquietante quanto precisa. Un rebus senza soluzione. Un labirinto di vetri o specchi nei quali o vedi te stesso o vedi oltre te stesso oppure guardi indietro, a un passato slabbrato e crudele. Incomunicabilità e nemesi familiari, il silenzio che domina sulla vita di ognuno di noi, quella violenza evocata a specchio dei propri dolori interiori. E la consapevolezza di valere di più della nostra stessa quotidianità, per quanto appagante. Affidare i propri dolori ad una storia cupa e cruda, cacciare a forza lo sguardo in una notte dell’anima che non conosce pietà e che al mattino conosce un’alba pallida e grigia, satura di nebbia e non lo splendore del sole.

Buttare fuori tramite le parole, nero su bianco, tutta la propria disperazione e dedicarla a colei che ne fu artefice, inviandole un manoscritto che, per altro, lei non riesce a eludere. Forse non lo vuole nemmeno, come se dopo aver provocato un incidente d’auto improvvisamente vedessi tutto con gli occhi di un Vaugahn consapevole del disastro, ma affascinato e consapevole del suo lato meramente estetico.

Da una parte sgravarsi dall’altra caricarsi. Da una parte dolersi e rinascere, dall’altra illudersi e morire. Fortunatamente, per quanto di rado, qualcosa mi riconcilia con il cinema e con l’arte.

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Animali notturni

Una stagione all’inferno

Alcuni mortali compiono un viaggio tra le anime perse. Ognuno ha il suo personale inferno, solo che pochi ci entrano, la maggior parte ne ignora anche solo l’esistenza. Per alcuni è una scelta consapevole, per altri no. Alcuni sono dei turisti che traboccano di lirismo e di voglia di giudicare, altri ci entrano da protagonisti, perché non stanno bene tra gli umani, perché sentono che la loro anima è persa pur non essendo morti o perché ritengono di essere morti pur essendo ancora vivi.

Iniziano il loro viaggio nelle tenebre della loro anima. Un posto la cui porta non andrebbe mai nemmeno guardata, un posto nel quale dimorano timori e brutture, popolato degli stessi mostri che vengono generati dal sonno della ragione. Ragione che sonnecchia sulla soglia, che ammicca, ma poi volge le spalle lasciando campo libero all’agonia di un viaggio senza speranza, nel vuoto, nel dolore, nell’umiliazione, nella tristezza, nel tormento, nella paura, nella disillusione, nell’angoscia. Tutti questi sono secondi nomi dell’Inferno.

Scossi come un vento agita un albero spoglio di vita. Fissi con lo sguardo nell’abisso ed il cuore nel baratro. In costante equilibrio sul limite della follia, quella da cui non c’è ritorno. Affranti, come coloro che hanno smarrito la via. Perduti, come coloro che non trovano più un senso all’esistenza.

Vuote orbite livide i loro occhi spenti e liquefatti in mille lacrime.

Freddi cuori sterili da cui il fato crudele ha estirpato la speranza.

Timpani corrosi incapaci di raccogliere una minima vibrazione.

Fegati in pasto alle aquile.

Stasera mi stringo a ognuno di voi, che abbiate o meno rivisto le stelle.

 

« Il poeta si fa veggente mediante una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, egli esaurisce in lui tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura dove egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovraumana, dove egli diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il supremo Sapiente! – Poiché egli arriva all’ignoto! dopo che ha coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Arriva all’ignoto, e seppure, impazzito, finirà per perdere l’intelligenza delle sue visioni, egli le ha viste! Che crepi nel suo salto verso le cose inaudite e innumerabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l’altro s’è accasciato! »
(Arthur Rimbaud)

Edvard Munch "Autoritratto all'inferno"
Edvard Munch “Autoritratto all’inferno”

Boredom has come to town

Ad una certa età non saper ciò che si vuole è grave, se non proprio pericoloso. A volte sembra di essersi rammolliti. La città dove vivo l’ho odiata profondamente quando ero un adolescente, adesso mi ci sento a casa, vorrà pur dire qualcosa. Di preciso non saprei. Il punto è che quando sei adolescente necessiti di informazioni ed internet non c’è sempre stato, anche se sembrebbe di sì.

Vivere in un bastardo posto è dura quando ancora non sai bene chi sei. Quando hai fame di conosenza e di esperienza, quando vuoi metterti continuamente alla prova, per capire chi sei e come ti rapporti con l’esterno. Sembra che manchi l’aria ed anche la possibilità di esprimersi, sembra che non ci sia spazio per le tue idee soprattutto se rifiuti di accettare il fatto che la maggiorparte della gente non la pensa come te. E’ un maledetto labirinto. E ti senti asfissiare.

La nostra mi appariva come la città della noia. La città dei vicoli senza uscita. Nonostante tutto c’è sempre stato un calamitone sulle nostre teste che ci ha impedito di andarcene. Personalmente ho sempre pensato che Morrisey cantasse anche di noialtri in “Everyday is like sunday” e poi sognato di fughe fantastiche a Camden Town, Gamla Stan, Staré Město… e chissà dove altro.

Eppure sono rimasto a stringere i denti, disperarmi e provare cose a me stesso. Non è stata proprio vigliaccheria, ma nemmeno si può dire che io abbia fatto poi così tanto per andarmene. Per un qualche motivo, a un certo punto, ha smesso di pesarmi, ho smesso di andare dritto contro un muro. Non ci avrei scommesso un centesimo e ce ne è voluto di tempo. Ma è successo.

Inconsciamente ho mandato tutto al diavolo. Ha smesso di importarmi. Ho deciso di fare altro.

E quel che faccio adesso è semplicemente provare a vivere. Ebbene ho la presunzione di credere di sapere in parte chi sono e quel che voglio. Dopo di che molte delle cose che mi facevano struggere e soffrire hanno smesso di farlo (o lo fanno molto meno), dopo di che ho smesso di dover provare qualcosa a me stesso ogni due secondi. Respiro profondamente, cerco il coraggio e bramo l’esperienza.

Prendi ogni decisione nel giro di sette respiri. Tratta le questioni importanti con leggerezza, dà importanza alle questioni leggere.

Libri nati tra la schiuma

Non leggo mai l’introduzione di un libro, non ne leggo mai nemmeno la postfazione, le recensioni e raramente ascolto le altrui opinioni, a volte posso raccogliere delle influenze esterne ed a volte no. Quando raccolgo delle influenze esterne capita che lo faccia traendo spunto dalla musica. Lessi, e diventò uno dei miei libri preferiti, “E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo per via di “One ” dei Metallica (ah, che tristezza i Metallica), oppure “La peste” di Camus grazie a  “Killing An Arab” dei Cure, “La Campana di vetro” di Sylvia Plath grazie agli High On Fire e così via.

Quando seppi che “Paranoid Android” dei Radiohead (che apprezzo solo a tratti) era ispirato a “Guida galattica per autostoppisti” mi avvicinai a questo libro di Douglas Adams e, cosa strana, ne lessi anche l’introduzione. Lì viene narrata anche la genesi del libro che è qualcosa di singolare…

L’autore si trova a girovagare, a forza di passaggi ricevuti a caso, per l’Europa all’inizio degli anni ’70. L’inglese non credo fosse diffuso ai livelli odierni e, dopo aver cercato inutilmente di ottenere informazioni dai passanti viennesi, decide che fosse il caso di ingurgitare un paio di birre. Due gösser a stomaco vuoto penso che possano fare un certo effetto.

E l’effetto fu che il nostro Douglas si assopì in un prato cittadino e, svegliandosi a notte fonda, aprì gli occhi e osservò le stelle. Pensò che se ci fosse stata una “Guida galattica per autostoppisti” sarebbe partito subito. E ne tirò fuori addirittura una serie radiofonica, un ciclo completo di libri  e credo un film. Potere della birra. Potere alla birra!

Goesser Bier
Goesser Bier

Incontri Estivi

Pier Vittorio Tondelli, Altri Libertini, Feltrinelli 1980
Pier Vittorio Tondelli, Altri Libertini, Feltrinelli 1980

Dopo aver rimandato mille volte a causa di chissà quali paventati impegni, quest’estate ho fatto la conoscenza di “Altri Libertini” di Pier Vittorio Tondelli. Amo i libri censurati ed amo chi li censura perché mi ricorda che la libertà di espressione è una conquista. Finché ci sarà censura ci sarà anche chi si batte contro di essa e questa è un’ottima cosa, tempra il carattere, fortifica lo spirito ed inorgoglisce l’arte. Di solito si tratta di persone interessanti che sanno quale valore abbia la lotta e quanto bello sia esprimersi senza dover pensare a quanto questo possa urtare i benpensanti. Ci vogliono anche loro: è un ruolo fondamentale perché altrimenti non saremmo schifati abbastanza dallo squallore del loro essere limitati e si finirebbe in un paludoso quieto vivere che è anche peggio della censura.

Non ci fa paura, anzi ci stimola a non desistere e, se siamo fortunati, ci fa anche pubblicità gratuita.

Buona parte dei benpensanti arriva dalla provincia, che è un luogo magico. Non a caso “Altri Libertini” venne messo sotto sequestro (risibile, considerato che il libro era ormai alla terza edizione) dalla procura dell’Aquila, che pure dovrebbe essere città universitaria ed aperta culturalmente parlando. La provincia, dicevamo, un luogo dove la cultura più fastidiosa viene tenuta fuori dalla porta. Un luogo dove non arrivavano certi dischi prima degli anni novanta. Un luogo dove il denaro, la razza e il conformismo sono ancora dei valori, se dio vuole. Un luogo dove per lungo tempo non si è fatto altro che lavorare e tacere, forse pregare.

Ritrovarsi fuori dal caotico rimescolamento metropolitano e godersi la quiete  ha il suo prezzo ed è questo. Io e l’altra metà del bassistico duo l’abbiamo chiamato “calamitone” e Biella ce l’ha e piuttosto potente. E’ quella forza che ti attira nuovamente alla tua piccola e ristretta cittadina, quando tenti di andare ad un concerto e lei sfodera nebbia e neve per fermarti, è quel torpore dell’anima che ti fa pensare che, in fondo, non è tanto male rimanere a casa a roderti il fegato, è quel sinistro richiamo all’indolenza, al quieto vivere, al silenzio-assenso, è quel quieto tramare dei tuoi concittadini quando si accorgono che stai facendo del tuo meglio per sottrarti al magnetismo seducente e comodo della mediocrità e cercano di trascinarti nuovamente verso il loro baricentro paludoso. Ce l’ha anche Correggio, Tondelli l’aveva già descritto trent’anni prima di noi. E’ tutto in “Autobahn” l’ultimo racconto del libro, il resto sta al lettore curioso scoprirlo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=vrpJB7ucC5Y]

Del limite di non saper scrivere

Luoghi

Una frase di Polly Jean Harvey mi ha sempre colpito. Diceva essenzialmente che si inizia a scrivere perché non si riesce più a parlare. Si inizia a parlare per imitare i genitori, si inizia a cantare per imitare i cantanti, si inizia a pensare perché la mera esistenza annoia: è fatta di un vuoto che gli umani non sanno sostenere. Gli animali, forse sì, ma anche loro si tengono occupati con qualcosa: la caccia, il gioco, l’ozio, non ho mai capito se a volte si annoiano, di sicuro sorridono.

Questo per dire che come scrittore ho dei limiti seri. Dal punto di vista linguistico/ ortografico/ sintattico la cosa è palese. Dal punto di vista tematico forse anche, ma adesso esplicito meglio la cosa. Come, o forse all’inverso, dell’incipit di Anna Karienina, che mi abbagliò di consapevolezza quando lo lessi (“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”), sono sempre stato convinto che la spinta alla scrittura mi derivasse dalle esperienze negative: dal dolore, dall’indolenza, dalla tristezza, dal lato oscuro insomma. Erano cose delle quali dovevo liberarmi e scriverne era il modo più facile per farlo. Vedere la propria paura su un foglio la esorcizza. Per questo ho sempre ammirato chi fosse in grado di scrivere di cose positive. John Lennon che scrive “Real Love” o “Woman” o “Jealous Guy” senza risultare mieloso e stucchevole, Dostoevskij che scrive “L’idiota” il cui personaggio principale (il Principe Myškin) è talmente buono ed ingenuo da essere  scambiato per idiota.

A me basta per considerarli dei geni, perché io non ci riuscirei mai, oltre ad essere letterariamente estasiato dal personaggio perfido e bellissimo di Nastas’ja Filippovna, che occupa un posto speciale nei personaggi femminili, come Hella del Maestro e Margherita. Comunque le esperienze belle, formative e piene di benessere mi si sono sempre consumate dentro, ne resta ben poco da raccontare agli altri. Oltre ad esserne geloso e nasconderle in scrigni dentro l’anima che scruto nel silenzio e nel buio delle mie stanze. Esattamente come certi personaggi dei romazi russi, che ad un certo punto “si ritirano nelle loro stanze” e buona notte. Un gesto che me li rende simpatici, un gesto in cui mi identifico, un bisogno di chiudere la porta in faccia al mondo e restare soli con i propri pensieri. Ne ho sempre avuto un gran bisogno, così come ho sempre avuto bisogno di parlare delle cose negative, di buttarle fuori in qualche modo. Coltivando un angolo per se stessi, al contempo.

Perciò non me ne vorrete se non vi dirò nulla del tempo passato senza scrivere. E’ andato tutto bene, sappiatelo, benissimo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ay_c_dcrmyM]

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Fuoco fatuo, che arde senza tregua. Inutile tentare di estinguermi o di alimentarmi, torno sempre me stessa.

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Ovvero: La casa piena di dischi - Webzine di canzonette e affini scritta da Joyello Triolo

Everyday life in the North Cape & North of Norway

Amazing adventures waiting to be discovered