Live on the slaughter beach

Questo verrà ufficialmente ricordato come il live finito prima nella storia. Al Fabrique non si scherza e alle 22:30 tutti a casa o, più verosimilmente, parte la seconda serata tipo discoteca? Non lo sapremo mai. L’occasione era clamorosa: vedere all’opera Green Lung e Clutch in una sola serata, tra dubbi ed incertezze legate ad eventuali rimandi e cancellazioni siamo arrivati al fatidico 26 novembre. Tutto inizia prestissimo, addirittura pre-aperitivo, alle 19 il primo gruppo sta già lasciando il palco, faccio appena in tempo a vederne le facce e a non ricordarne il nome. Per la prima (forse) volta assisto ad un concerto dove tutte le tempistiche sono assolutamente rispettate, i cambi palco veloci e efficienti quasi come un pit stop di formula 1, se non si considera la volta in cui persero la gomma di Irvine.

Avevo quasi perso la speranza di vedere una cosa del genere e adesso paradossalmente mi rende il concerto quasi troppo asettico, anche se il fatto di essere a casa a mezzanotte ha un valore aggiunto innegabile per chi viene da fuori. Detto questo: i Green lung si fanno da soli un velocissimo check ai suoni e da subito da nell’ occhio il loro chitarrista che sembra la versione ringiovanita e vigorosa di Dave Chandler dei Saint Vitus, poi dei roadie montano veloci due bandierone coi caproni e si comincia.

L’attesa era tanta, visti i loro due pregevoli dischi e mezzo all’attivo, e non è stata vana. Musicalmente inappuntabili sono rodatissimi ed esaltati come la loro età relativamente giovane impone: sparano fuori le loro cannonate come “Ritual Tree”, “Old Gods” e l’esaltante “Reaper’s Scythe” con decisione e sicurezza da band conscia dei suoi mezzi e con dei suoni finalmente all’altezza anche trattandosi di un gruppo spalla. Nulla da dire, alla fine paiono anche troppo forzati nel cercare l’attenzione del pubblico ancora poco numeroso e in parte disattento, ma per un gruppo che vuole farsi strada ci sta. Il futuro per loro appare radioso a patto che non si facciano stritolare da quel tritagruppi che risponde al nome di Nuclear Blast.

Per i Clutch, la recensione potrebbe scriversi da sola. Tutta l’attenzione è focalizzata su Neil Fallon che da vero istrione trascina il pubblico con le sue occhiatacce, il suo gesticolare plateale, il suo indice accusatore e, ovviamente, il suo vocione inconfondibile. Gli altri si limitano a suonare, ma lo fanno veramente da manuale. Instancabili macinatori musicali miscelano blues, funk, hard rock tritando tutto come una schiacciasassi e poi fondendo tutto in una forgia dalle colate incandescenti. Un’ora e mezza di concerto, una carriera ormai più che trentennale alle spalle e sono ancora lì solidi e fieri nel loro credo che si chiama rock’n’roll.

Fanno capolino anche un theremin, un campanaccio, un’armonica a bocca a colorire il suono, ma la sostanza rimane fermamente quella di un gruppo del Maryland che dagli anni ’90 non si è mai fermato e raramente ha dato segni di cedimento, nonostante qualche disco un po’ sottotono e i guai fisici partiti da Fallon ad un certo punto della sua carriera. Sciorinano brani vecchi (una lontanissima “Rats”) e nuovi con naturalezza e convinzione che coinvolge appieno il pubblico che vive momenti di vera e propria esaltazione come quando si esibiscono in “Earth Rocker” vero e proprio manifesto programmatico del gruppo.

Recentemente alla dipartita di Jerry Lee Lewis si è parlato di last man standing: per quanto concerne la sua generazione è sicuramente vero, per quelle successive ci sono ancora gruppi che, come i Clutch, dimostrano di non voler mollare ancora il colpo: non possiamo che ringraziarli per questo e auguarargli lunga vita e prosperità, con le corna alzate chiaramente.

Illusioni e tremori.

Stefano Rampoldi è sempre in grado di sorprendere, ogni volta. L’ultimo disco aveva quell’aria sbarazzina e leggera, quell’ironia stramba, quell’aria quasi di disimpegno scanzonato da contrapporre alla perdita della madre, cui era dedicata l’unica traccia composta e intima del disco. Per quelli che erano rimasti nell’ aura di “Graziosa utopia”, come il sottoscritto, fu spiazzante. Uno strappo. Per intenderci: un brano come il bellissimo “Spaziale” non avrebbe mai trovato posto in “Fru fru”, sarebbe stato semplicemente fuori luogo: erano due mondi troppo diversi, uno che scava e l’altro che balla sulla superficie. Adesso arriva “Illusion”, scritto con i caratteri fonetici, nato dal proseguire della collaborazione con Gianni Maroccolo, iniziata durante il periodo più isolato dettato dalla pandemia e sfociato in un disco quasi ironico almeno dalla copertina e dal titolo. I contenuti lo erano meno. Prima di questo disco, in via precauzionale, avevo azzerato le aspettative: averne si era dimostrato deleterio e fuorviante.

Ancora una volta il disco nuovo è qualcosa di diverso. Ci sono dei tratti riconoscibili: l’incredibile voce di Edda, i suoi testi in bilico fra l’assurdo, l’ironico ed il poetico e la sua chitarra. Il contesto però è completamente diverso. Essenziale. Non una nota in più, uno strumento aggiunto, un arrangiamento sontuoso. Sembra riprendere “Semper biot” ma attraverso un lungo percorso evolutivo che lo arricchisce di accenti e sfumature che prima erano solo intuite. Canzoni che non superano mai i quattro minuti, riverberi, note accennate ed altre marcate, mai eccessive. Mi è venuto in mente che è un processo non dissimile a quello operato da Nick Cave su “Skeleton tree”, nel quale il cantante australiano ha completamente spogliato la propria musica riducendola all’osso, qui è quasi la stessa cosa, anche se quest’esigenza non nasce da una tragedia (la morte del figlio nel caso di Cave), bensì da una precisa necessità artistica.

Tutto quel silenzio nascosto tra le note, ha lo stesso suono di un’ illusione che deve essere metabolizzata. E Stefano non ti rende affatto semplice il compito. Sono dischi i suoi che necessitano di partecipazione, di interiorizzazione, occorre prestargli attenzione e volergli bene, piantarli e coltivarli, lasciare loro il tempo di fiorire.

Da subito mi colpisce “Trema”, nella quale spicca un bel suono di chitarra che mi fa tornare in mente Jeff Buckley e gli amplificatori Fender, con un testo lacerante, ma è quasi sicuro che se me lo chiedete tra 15 giorni avrò un altro brano in testa.
Ed ancora non l’ho inquadrato completamente questo disco, ma so che mi piacerà sempre ascoltare quello che canta e quello che suona, il suo essere senza filtri e strampalato come lo si legge nei social. Edda rimane un unico nel panorama della musica popolare italiana: ispirato, passionale e vero. Uno che ha vissuto sul serio, senza mai atteggiarsi (e ne avrebbe ben il diritto) e risultare artefatto o pieno di sé, inimitabile e personale. Ad ogni sua prova discografica non posso fare altro che ringraziare, stavolta anche Maroccolo.

Mark Lanegan, 57 anni

L’annuncio è laconico. Salta fuori in mezzo a mille altre insostenibili notizie sciatte da social, è morto Mark Lanegan. Devo rileggerlo, una, due, tre, dieci volte. Non è mai stato un salutista l’amico di Ellensburg, ma nulla lasciava presagire una sua dipartita a 57 anni appena, sembra incredibile pensando alle cose che avrebbe ancora potuto dire e che adesso non verranno dette mai più.

La sua autobiografia racconta di una vita difficile, di un carattere scontroso e respingente, di amici morti come mosche tutto intorno e adesso anche lui. Sembrava un sopravvissuto in mezzo a tutto quel silenzio che era rimasto dopo la fine degli anni novanta, uno dei pochi che speri non abbandoni mai le scene, che vada avanti, perché comunque ha qualcosa da dire: un’anima profonda come un abisso che ancora non è stato sondato fino in fondo, un’anima profonda come la sua voce.

Sono riuscito a vederlo all’ Alcatraz di Milano nel 2015, aggrappato all’asta del microfono e quasi immobile, ogni tanto inforcava gli occhiali, avvolto nelle scarse luci colorate. Forse non era più in forma come un tempo, ma il fascino non l’aveva comunque perso e fu un onore assistere a un suo concerto e vederlo sorridente abbracciare i fan alla fine.

Una mia amica mi ha scritto che resteranno solo pessimi musicisti, la mia risposta è stata che non è vero ma ieri sera abbiamo fatto un enorme passo in quella direzione. Oggi il mondo è un posto più vuoto e non c’è nulla da fare.

Odio gli epitaffi on line ma due parole dovevo dirle.

L’ultimo profeta!

Dovendo scrivere un post su  Mauro Guazzotti, in arte MGZ, non so davvero da dove cominciare. La prima immagine che ho di lui è in un’improbabile costumino rosso attillato da pseudo lottatore che saltella ovunque durante il leggendario concerto dei Negazione al 2 di Cigliano lamentandosi di qualcuno che gli aveva staccato la coda e voleva tenersela come cimelio. Durante un concerto hardcore (il primo conecrto della tua vita scelto autonomamente, tra l’altro) vedi questo tizio peloso ma calvo, coi capelli laterali lunghi saltare fuori dal nulla, misurando a balzelli il palco e facendo delle smorfie improbabili. Sicuramente un’immagine che lasciò il segno… solo che non avevo la minima idea di chi fosse.

Occorrerà aspettare qualche anno perché torni a farsi viso sul palco del Babylonia anche se non collegai le cose e mancai l’appuntamento. E poi, a forza di frequentazioni, articoli su riviste, amici vari il Profeta mi apparve. Più o meno all’epoca dell’uscita di “Cambio vita”, imprescindibile primo capitolo discografico del nostro. Non assomigliava a nulla di quanto avessi visto fino a quel momento. La musica mi era resa sopportabile solo dalla chitarra di Roberto “Tax” Farano o di Dome La Muerte, per il resto era elettronica piuttosto tamarra e mi schifava abbastanza. Solo che aveva dei test geniali e, alla fine, riuscii a contestualizzare anche quella.

La sua proposta era teatro, cabaret, musica: punk, elettronica… solo apparentemente demenziale. Personale, sognante e visionario come solo un personaggio assolutamente fuori dal mondo può essere. Su di lui girano leggende e dicerie, oscuri esordi nell’ambiente punk fatti di performance sullo sfondo di diafane lastre a raggi x. Chissà cosa c’è di vero. Io Mi ricordo leggendari concerti, questo sì. Sempre seguito da gruppi di persone, all’epoca furono “Le Signore” in seguito le “Buru buru girls” e poi chissà che altro, sul palco è uno spettacolo multicolore con travestimenti, balli e saltimbanchi. Coriandoli, bolle di sapone, stelle filanti, trucco e bandiere sventolanti in quello che potrebbe sembrare un circo deviato o una festa per bambini cresciuti con qualche turba, ma non di quelle moleste.

Alcuni dei concerti di MGZ resteranno nella storia, purtroppo non ho grandi rifermenti temporali, le date si confondono nella memoria, eppure la prima volta dopo tantissimo tempo dopo che ne avevamo perso le tracce fu una storica serata al CSA “Il Gabrio” di Torino. Un vero e proprio evento che fece sì che ci muovessimo in quattro dalla provincia con due bottiglie di CocaCola truccata col rum del discount. Sapeva di acquaragia e ne bevetti mezzo sorso per poi lasciarlo ai compagni di viaggio. Ovviamente uno finì per disegnarmi una “fiamma delle hot wheels” di vomito sulla portiera mentre parcheggiavo una volta giunti a destinazione: aspettare di scendere no eh?! Il concerto fu divertentissimo e dissacrante… peccato che due settimane dopo chiusero il centro sociale a causa di un’infestazione da vibrione che si pensava estinto in Italia. Ad ogni modo sopravvivemmo.

Un’altra volta finimmo nel nulla cuneese a una specie di festa di paese alla quale il signore solo sa come mai decisero di farlo suonare. Avvicinato da un compare ebbe a commentare “Lascia stare… è un posto allucinante!”, comunque poi salì sul palco e fu anche una grande festa, credo che comunque in parecchi affrontarono la trasferta, del resto un profeta è pur sempre un profeta.

Ci fu poi la data, l’ultima volta che lo vedemmo, all’Hiroshima mon amour a pochi giorni di distanza da un altro storico concerto degli Einstürzende Neubauten all’ auditorium RAI (nientemeno) dove incontrammo Tax Farano. Roberto era presente anche a quella serata e ci salutammo, noi assolutamente increduli, due volte in un mese.

Ed eccolo, fotografato da me, all’ Hiroshima Mon Amour nel 2014

In ogni occasione fu una grande occasione di divertimento, anche nel suo caso una performance che va assolutamente vista e vissuta.

Il suo nuovo album “Vale tutto” è uscito da poco e porta una ventata di spensieratezza in questi tempi difficili. Sogniamo tutti in coro Burulandia dove tutti sono luminosi, telepatici, innamorati e immensamente liberi e felici!

La questione principale

Biella sta vivendo un momento di strana popolarità legata al fatto di essere stata inserita da Zerocalcare nella sua serie a disegni animati “strappare lungo i bordi”. Ogni tanto capita che la città finisca sotto dei riflettori dalla luce tenue: era successo anche con “I due Carabinieri” con Montesano e Verdone millenni or sono o quando Dario Argento si mise in testa di girarci alcune scene di un fantomatico Dracula con Rutger Hauer (l’attore poi sparì nella campagna e lo cercarono tutti…), cose così.  Adesso il disegnatore romano ambienta alcune scene della sua serie su netflix nella nostra città ed alcuni si risentono perché, a loro dire, non ne esce in modo propriamente lusinghiero.

Chissenefrega. Questo è un posto impermeabile a qualsiasi cosa, si farà scivolare addosso anche questo. Intanto il modo in cui il fumettista romano si attiene alla corrispondenza dei luoghi è quasi sbalorditivo e, comunque aldilà di tutto, la serie è ben fatta e tratta molti temi interessanti.

Zerocalcare è bravo ma è un po’ limitato. Soprattutto, per quello che può contare il mio umile parere, è decisamente troppo ancorato alla sua realtà quotidiana. Parla sempre e soltanto delle sue esperienze, di quello che gli capita e delle sue riflessioni in merito. Lo fa bene, le sue riflessioni offrono spunti interessanti e un punto di vista fresco sulla vita di ognuno di noi, una voce fuori dal coro, appartenente ad una di quelle controculture che raramente escono dal loro guscio inoltre ha una sensibilità fuori dal comune. Però, pur ammettendo di non essere un suo conoscitore ai massimi livelli, io non gli ho mai visto fare nulla di diverso da questo. Personalmente poi non ho mai amato le cose troppo ancorate al presente. Mi chiedo cosa potrebbe pensare qualcuno che legga i suoi fumetti tra vent’anni, probabilmente avranno un interesse storico di un qualche tipo, ma a parte questo? Gli va riconosciuto di parlare sempre a proposito: difficilmente blatera a vanvera di cose che non conosce o si lancia in giudizi affrettati, anzi, spesso da anche la parola a persone più competenti.

Esempio di quanto appena detto. Veramente ben fatto.

Benissimo. Temo però che prima o poi questo modo di raccontare la realtà mostri i suoi limiti… restando a Roma pensate a Moretti che in “Caro diario” parla di Beautiful (nell’episodio “Isole” di “Caro diario”) e ne fa una sorta di icona: uno che guardi oggi quell’ episodio difficilmente riuscirà a coglierlo fino in fondo. Per contro il bellissimo percorso fatto in vespa fino al luogo dell’assassino di Pasolini con The Köln Concert di Keith Jarrett in sottofondo: credo che possa colpire chiunque in qualsiasi epoca anche ammesso che nemmeno sappia chi sia l’intellettuale friulano.

Ogni volta che ne parlo non riesco a non rimetterlo, è uno dei momenti più alti della storia del cinema a mio parere.

Manca una cosa del genere nella narrazione del fumettista romano: la ricerca di qualcosa che trascenda il mero qui ed ora, una tensione che vada oltre la dimensione personale. Inoltre non si capisce bene perché uno che fa controcultura si appoggi a netflix o disegni anche i brand sulle scarpe. Tuttavia non siamo qui per disquisire di Zerocalcare bensì di Biella, Zerocalcare giustamente ci darà lo spunto.

Che poi ci ha anche descritto meglio di quello che siamo per certi versi. Non è mai arrivato un freccia rossa a Biella, e nemmeno c’è mai stato un treno che parta da Biella e arrivi a Roma Termini. Minimo sono tre coincidenze e nemmeno delle più agevoli. Un tempo c’era UN diretto per Torino al mattino in andata e UN diretto al Pomeriggio al ritorno. Fine. Ora, credo, nemmeno quello. Con Milano non abbiamo mai nemmeno avuto collegamenti diretti. Allargando il discorso, per dirla tutta, non arriva nemmeno l’autostrada. Siamo isolati, almeno per quello che riguarda le vie di comunicazione principali. Da adolescente mi pesava tantissimo. Adesso sono contento. Mi rendo conto che sia da egoisti, da misantropi, ma essere fuori dal giro grosso ha il suo perché e comunque non è che i collegamenti non ci siano, solo sono meno… diretti, il che spesso basta a scoraggiare la gente dal venirci a trovare. Non siamo un posto di passaggio, devi proprio voler venire a Biella. Anche il Covid c’è arrivato meno che da altre parti. Certo se stai a Roma, a Milano o a Torino hai molte più possibilità e strade aperte, puoi trovare più facilmente persone che ti somiglino, vedere mostre, andare a concerti ed è anche molto più facile trovare un lavoro. Tutte cose che mi interessavano di più quando avevo vent’ anni. Ma ho sempre molto apprezzato il fatto di poter chiudere la porta in faccia al mondo quando ne avevo bisogno e a Biella una cosa del genere ti riesce molto meglio. In piemontese si dice sü da doss. Probabilmente si apprezza con l’età e con la permanenza in loco, tutte cose che Zerocalcare non ha avuto modo di sperimentare anche se da misantropo quale si professa mi stupisce che non abbia considerato la cosa. Nelle grandi città ti stanno tutti col fiato sul collo, c’è sempre casino, la gente ti sommerge da ogni parte e io non lo reggo.

I love living in the city

Adesso se ho bisogno di andare in una grande città ci vado faccio quello che devo e scappo alla massima velocità, senza guardarmi indietro. Di Roma in particolare ho anche un pessimo ricordo, ma questa è un’altra storia.

L’assenza di possibilità ha anche dei risvolti interessanti: ti spinge a sbatterti per farti le cose da solo. Ho sempre avuto l’idea che chi vive nelle grandi città non coltivi mai veramente le cose: forse sono io, ma conosco persone che vivono nelle grandi città che si stupiscono quando gli racconto che ho amicizie che durano dall’ asilo. Il punto è che quando hai poco, di solito ti sbatti per far funzionare quel poco che hai e non abbandoni le persone alla prima divergenza. Ogni amico che ho perso, ogni ragazza andata sono sempre state tragedie per me… piccole o grandi. Significava in qualche modo aver fallito.

Inoltre Biella ha avuto dei suoi seri perché, molti di più di molte altre città. Forse proprio perché la mentalità biellese era testa bassa e lavorare ci sono state tantissime realtà che ci hanno allietato la vita da adolescenti a fare da contraltare. C’era una selva di gruppi musicali niente male, alcuni anche con delle idee grandiose (su tutti i Festina Lente, i Sentence To Blunder, i Keen o gli Yahozna che da poco si sono riformati), ovviamente c’era il Babylonia, il locale senza il quale la nostra vita sarebbe stata infinitamente più grigia, c’erano negozi di dischi (Valerio e Paper Moon su tutti), l’informagiovani funzionava davvero bene, c’erano molti locali che facevano suonare dal vivo e non solo coverband. Addirittura ci fu chi tentò la via dell’autogestione (il collettivo “Arsenio Lupin”) che ovviamente finì in malo modo: non ci potevamo spingere così oltre.

Grandissimi Festina!

Poi dai, siamo sinceri, Biella non ne esce male: nella serie è semplicemente un posto dove è successo qualcosa di terribile, avrebbe potuto essere benissimo qualsiasi altro posto di provincia in Italia, solo che il personaggio era di qui. E viveva male il fatto di esserci dovuta tornare dopo aver fatto la fuori sede a Roma. Ma, suvvia, l’autore mantiene un atteggiamento davvero neutro circa la città stessa.

Oggi mi appare molto meno attiva ma non è che non ci siano cose comunque meritevoli. Non è passato molto tempo da quando fa il Cervo -un fiume locale- si è portato via l’Hydro forse l’unico locale veramente alternativo della città e, certo, con la pandemia ogni cosa è diventata ancora più difficile. Ma non manca la gente che ha voglia di sbattersi.

Gente che organizza festival come il Reload che propone cose che non mi interessano, ma rimane una bella realtà che è riuscita a fermarsi il meno possibile, cosa che, di questi tempi, è tutt’altro che scontata. Gente che propone posti per suonare ai gruppi locali che non siano cover band come il Vecchio mulino o il Sekhmet e poi c’è il concertone del primo maggio all’ARCI di Lessona (son due anni che mancate ragazzi). Gente che promuove l’arte come la fondazione Pistoletto, il museo del territorio o la fondazione della cassa di risparmio di Biella. Basta saper cercare. Basta darsi da fare: non saremo Roma ma nemmeno ci tengo che lo diventiamo.

Resterebbero altre considerazioni da fare sul tema centrale della serie. Solo che son cose che è meglio lasciare alla coscienza del singolo. Bisogna dare atto a Zerocalcare di aver parlato in un modo partecipe e sincero di un tema delicatissimo nel quale la tristezza alla fine la fa da padrone da qualunque angolazione la si consideri. Biella, anche questa volta, non è la questione principale con buona pace di chi vorrebbe farla diventare tale.

Voi (non) siete qui. (fonte Wikipedia)

Luna di sangue

Fonte: Bandcamp

Due nomi grossi che uniscono le loro forze fanno sempre un effetto di… inquietudine, almeno a me. Capita spesso che escano cose egregie, capita anche che la montagna partorisca un topolino oppure che ne esca una schifezza immonda. Gli esempi non mancano in tutti i sensi. Quando Converge, Wolfe e Brodsky annunciarono che avrebbero unito le loro forze per un progetto assieme, onestamente non sapevo cosa pensare. Non so cosa aspettarmi, mi resero impaziente e spaventato allo stesso tempo. I Converge sono un gruppo, forse uno degli ultimi, ad aver spalancato nuovi orizzonti alla musica pesante (il loro batterista Ben Koller è un vero animale) e la Wolfe una delle ultime, bellissime ed emozionanti, scoperte in campo musicale davvero in grado di farmi saltare sulla sedia. Date queste premesse, la loro collaborazione non la potevo proprio prendere alla leggera.

Tutto sarà nato quando Kurt Ballou ha prodotto “Hiss Spun” e nelle varie collaborazioni nello show a supporto degli artisti “Two minutes to late midnight”, vedi la cover di “Crazy train” che, tra l’altro, non è niente male.

I più potrebbero dire che questa collaborazione pende più dalla parte della cantautrice californiana, in realtà i più attenti sapranno senz’altro che esiste senz’altro un’anima più riflessiva in seno ai Converge: mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe successo se avessero esplorato maggiormente la vena di brani come ispirati “Cruel Bloom/Wretched world”, da “Axe to fall”, per dirne una.

“Bloodmoon I” potrebbe essere un tentativo di risposta a questa domanda. Non che l’apporto di nostra signora dell’inquietudine non si faccia sentire, anzi, però sarebbe ingiusto non considerare che anche i Converge una certa propensione in tal senso ce l’avevano. Il disco risulta quindi lontano dai  Converge caustici e percussivi, lontano dalla rabbia e dall’assalto veemente cui siamo soliti associarli, esplora una dimensione diversa e la espande in larghezza sull’intera durata di un disco.

Funziona? Sì, con qualche riserva. Per esempio le tastiere invasive e plasticose della canzone apripista “Coil” che suonano stucchevoli e compromettono molto l’espressività del brano: una scelta quantomeno curiosa quella di farlo uscire in anteprima, visto che, a mio gusto personale, risulta la più scarsa del lotto.

Per contro i primi due brani sono un vero colpo al cuore, “Blood moon” e “Viscera of man”, ti afferrano al collo e ti fondano nel disco con una violenza emotiva che letteralmente ti esplode in petto. Non succede spesso, una simile presa ad impatto immediato. Per il resto questo disco va soprattutto ascoltato e metabolizzato, non lo si può affrontare come se fosse solo dei Converge o solo di Chelsea Wolfe o Stephen Brodsky… è qualcosa di nuovo, una avventura sonora da interiorizzare abbandonando ciò che sapevamo prima dei singoli artisti che la compongono. Richiede impegno ma promette tantissimo in potentia. Un disco da scoprire individualmente e intimamente, rimandando le considerazioni e mettendosi in gioco. L’occasione è buona per farlo, ancora una volta, se siete indecisi c’è sempre lo streaming di Bandcamp.

2/10/1999

È una data che difficilmente riuscirò a scordare quella del 2 ottobre del 1999. Al Leoncavallo suonano i Fugazi, il CSA salito alla ribalta della cronaca pochi anni prima per la cacciata dalla sede storica ospita il gruppo che rappresenta il simbolo stesso della musica indipendente. È una delle prime trasferte in assoluto, una delle prime occasioni in cui io e l’Oltranzista ci muoviamo in coppia per assistere ad un concerto. Quale occasione migliore. Quale gruppo migliore se non un gruppo leggendario come i Fugazi. Ebbi addirittura l’ardire di immortalare l’evento su una musicassetta da 90minuti che tuttavia non furono sufficienti. All’inizio ci siamo noi due che scherziamo sull’insegna dei fratelli G., che avevano la propria impresa a due passi dal luogo del concerto.

Nessuno dei due c’era mai stato. Nessuno dei due era poi questo grande fan dei Fugazi in quel momento, più per ignoranza che per scetticismo: li conoscevamo ancora troppo poco. Uscimmo da lì che erano diventati uno dei nostri gruppi preferiti e lo saranno per sempre. Due ore e passa di concerto più di trenta canzoni suonate, un’atmosfera di festa senza forzature: partecipe, appassionata. Qualcosa di unico. Un capannone industriale stipato di persone in estasi. Per il modico prezzo di 5000 lire in barba alla SIAE, con l’unico rammarico di non avere tra le mani nemmeno il feticcio del biglietto, solo i ricordi. Solo una MC HF Sony da 90 minuti che poi sarebbe stata soppiantata dal download quando il gruppo di Washigton D.C. rese disponibile in concerto sul sito della loro etichetta, la dischord rec.

Riportare alla mente quei momenti è sempre molto bello, e non solo per la nostalgia, per il fatto che si era più giovani. Il punto è proprio lo stupore: trovarsi davanti un gruppo, fatto di persone semplici e fiere, sinceramente coinvolte in quello che stavano facendo. Ian Mac Kaye che prega tutti di non essere violenti nel pogo, di saltare anziché spingersi, che ricorda un concerto passato al vecchio Lenocavallo nel quale in tetto era andato. E poi un modo di suonare generoso e appagante, una vera e propria esperienza. Chi oggi affronta due ore e passa di concerto? Chi propone una scaletta con 34 brani (!!!), chi porta ancora sulle spalle la propria musica sbattendo fieramente le porte in faccia al music business? È rispondendo a queste domande che ti rendi conto di aver assistito ad un vero e proprio evento, ti rendi conto di essere diventato parte di qualcosa che trascende anche il concetto stesso di movimento musicale, è un vero e proprio modo di essere.

Come dicevano i Minor Threat: almeno loro ci hanno provato! E, per fortuna, ci sono riusciti: i circa 4 milioni di dischi (!!!) complessivi venduti dagli artisti della dischord stanno lì a dimostrarlo. E facendo tutto praticamente  da soli: quando, per esempio Dave Grohl (di Wasinghton D.C. anche lui, oltre ad aver militato negli Scream) intervista Ian nel documentario sonic highways e lui parla di tutte le proposte ricevute dalle major e rispedite al mittente, ti rendi conto della loro grandezza e, al tempo stesso, di quanto potrebbero guardare tutti dall’altro invece non lo fanno. Nel lungometraggio “Instrument” c’è quella lunga carrellata su tutti i volti dei ragazzi che assistevano alle loro esibizioni, quale altro gruppo si priva del ruolo di protagonisti a quel modo?

Quella sera i Fugazi furono stellari, non riesco ad usare un’altra parola per descriverli, semplicemente nel novero dei migliori artisti mai visti dal vivo, si percepiva un’intesa fuori dal comune, una coesione di intenti artistici che, a ben guardare, rappresenta un caso più unico che raro con 10 anni di carriera alle spalle. Vederli suonare fu come imprimere un’immagine indelebile nella memoria, quella di un gruppo che ha sfidato con successo le leggi del mercato, quelle scritte e quelle taciute, che è riuscita a togliersi ben più di una soddisfazione producendo Arte, esprimendosi ai massimi livelli.

Oggi resta sul web una pallida e sfuocata testimonianza in un video di pochi minuti.

Ma la memoria e l’anima ancora fremono per quello di cui sono state testimoni: uno dei più bei concerti di sempre.

I Fugazi non si sono mai ufficialmente sciolti, sono sospesi in un limbo temporale dal quale escono, si dice, a volte per suonare assieme, ma senza pubblico e senza pubblicare più nulla da “The argument” del 2001. I componenti sono comunque rimasti attivi in svariati progetti, di cui il più significativo appare Coriky dell’anno scorso.

Il Leoncavallo è rimasto al suo posto, ma non ci andiamo da secoli.

Io e l’oltranzista siamo orfani di concerti con trasferta dal 17 febbraio 2019. Per questo sto tentando di ricordarmi tutti i più belli ai quali ho assistito, non potevo che partire da questo.

Cosa starà facendo?

Non chiedetemi per quale motivo ma Roberto “Tax” Farano ha sempre suscitato in me e nel mio compare di avventura e concerti un fascino particolare. Certo era il chitarrista dei Negazione, aveva un volto che abbiamo sempre considerato particolarissimo, girava il mondo in furgoni scalcagnati, era vissuto in una Torino aspra, quella a cavallo tra i settanta e gli ottanta… ma non era solo questo. Avevamo preso anche a storpiarne il nome (ci perdoni) in qualcosa di onomatopeico che suonava circa come “tazfarrein” o “tazzefarrein” (pronunciato rigorosamente al rallentatore) e spesso c’era un ritornello che si ripresentava: “chissà cosa starà facendo tazfarrein?”. Non che volessimo fare gli stalker o altro, semplicemente in certi momenti finivamo col chiederci dove potesse essere e cosa stesse facendo, così senza motivo: saltava fuori la domanda e basta.

A forza di chiedercelo un paio di volte la nostra curiosità è stata soddisfatta: abbiamo avuto l’onore di incontrarlo in maniera del tutto fortuita. La prima volta all’ auditorium RAI di Torino per il concerto del tour di “Lament” degli Einstürzende Neubauten: non potevamo credere che ci fosse passato davanti e soprattutto non potevamo non salutarlo. L’Oltranzista pretese di lavarsi le mani prima di andare a stringergliele! Fu una cosa che ci fece un enorme piacere e sperammo di non averlo infastidito più di tanto.  La seconda volta ad un concerto di MGZ all’ Hirosgima Mon Amour. MGZ è un nostro eroe da sempre e come non ricordare in questa sede delle hit fantastiche come “Muovete le manine”, “Sempre più veloce”, “Sopravvivo senza un motivo” o “La belva del condominio”? Ma a parte questo ero ben consapevole che fosse in contatto con tazfarrein visto che al mio primo concerto in assoluto dei Negazione (e della vita) al “2” di Cigliano sul palco c’era anche lui che protestava vistosamente perché qualcuno gli aveva rubato la coda. oltre al fatto che, naturalmente, sono collaboratori di lunga data.

Ebbene, a distanza di pochi mesi, rieccolo li, al bancone dell’ Hiroshima, questa volta ci vede lui e ci saluta e noi restiamo quasi di sasso. Avevamo smosso delle energie cosmiche con il mostro tormentone? Resterà un mistero ma qualcosa ci fa sperare di avere dei poteri sovrannaturali.

Tutto questo per dire che Area Pirata ha ristampato “Voglio di più”, secondo lavoro degli Angeli. Chiedersi “chi sono gli Angeli” è come chiedersi “Cosa starà facendo tazfarrein” dopo i Negazione e la collaborazione con i Fluxus (assieme all’altro transfuga Marco Mathieu a cui va sempre un pensiero di speranza e forza) che aveva prodotto il bellissimo “Non Esistere” cosa poteva mai fare? Creare un nuovo gruppo e questi sono gli Angeli.

Nati dalla collaborazione con Massimino Ferrusi (e Marco Conti al basso), diedero alle stampe il primo album intitolato come il nome del gruppo e cantato in massima parte in inglese. Il tocco del nostro è sempre pienamente presente, il suo suono di chitarra si impone subito all’attenzione, ma le sfumature sono più varie che in passato e Farano sfodera una bella voce abrasiva in contrasto con lo stile urlato di Zazzo Sassola che aveva caratterizzato i Negazione e anche con il timbro particolare di Franz Goria nei Fluxus. Ne risulta una miscela interessante che non rinnega le proprie origini HC ma aggiunge delle componenti in più che troveranno una forma compiuta nel secondo lavoro, quello oggetto di ristampa.

Rilasciato all’ inizio del ’99 dopo aver chiamato Luca Marzello in qualità di bassista, ritorna al cantato in italiano ed inizialmente lascia un minimo spaesati: i testi sembrano ingenui e fin troppo naif e quasi incastrati a forza nelle metriche delle canzoni. Dopo alcuni ascolti però, una volta abituati alla madrelingua, il disco mostra appieno il suo valore.  E allora la soddisfazione prende corpo nell’ascoltare l’impatto iniziale della canzone che dà il titolo al disco, l’assalto esplosivo di “Vivo”, la melodia di “Con le mie scuse”, lo sconfinamento nel metal dell’unica traccia cantata in inglese “Breakfast in hell”. A distanza di 22 anni ritorna un disco assolutamente da riscoprire. Chi c’era lo sa già, gli altri si facciano sotto e gli rendano giustizia come merita! Noi ci chiederemo ancora “chissà cosa starà facendo tazzefarrein?” Ma adesso ne sappiamo un po’ di più e, soprattutto, qualsiasi cosa stia facendo gli si vuole bene!

Per noi chiedersi cosa starà facendo tazfarrein è un po’ come chiedersi dove vanno le anatre in inverno a Central Park quando il lago ghiaccia.

Il punto della situazione sui Melvins ed il nuovo dei Tomahawk

Capitolo 1: Melvins (1983)

Ammetto di essere giunto alla nuova pubblicazione di casa Osborne/Crover estremamente prevenuto. Gli va dato atto di essere uno dei gruppi che continua a lavorare più sodo dell’intero panorama, gli va dato ancora atto di essere rimasti per anni in cima alla lista dei personaggi indipendenti ed indecifrabili, con una cifra artistica invidiabile, almeno fino alla dipartita della “sezione ritmica aggiunta” dei Big Business. Poi il caos: la formazione, che comunque non è mai stata stabile, diventa caotica con un andirivieni di personaggi che si susseguono al basso e la pubblicazione continua e ostinata di almeno un disco all’anno più i progetti solisti. Obbiettivamente mantenere un elevato standard qualitativo in queste condizioni sarebbe difficile per chiunque, a maggior ragione se hai tra i 25 e i 30 anni di carriera alle spalle. Oltre a questo aggiungete l’arrivo di un bassista (il pagliaccio Ronald ehm… Steven McDonald) che proveniendo da uno dei gruppi più mosci di sempre (i Redd Kross, già dal nome uno ci potrebbe arrivare, ma suonano come una versione asfittica degli Who, che è tutto dire) ne influenza negativamente la vena fino a portare a quello che, per chi scrive, è il loro peggior album di sempre ovvero l’infame “A walk with love and death” che per quanto mi riguarda ha la sinistra caratteristica di far suonare i Melvins come un gruppo rock “convenzionale” cosa che è una bestemmia in termini.

I Melvins all’epoca Big Business (Fonte: Wikipedia)

Qua e là ci sono anche state cose divertenti e pregevoli: il simpatico “Tres Cabrones”, il cazzutissimo progetto “Crystal fairy” (assolutamente da recuperare!), “Hold it in”… e qualche canzone qua e là da tutto il resto. I progetti solistici in vero risultati piuttosto deludenti del duo (fatto salvo che il primo di King, del 2014 se mi ricordo correttamente, invece era assai godibile) e, come al solito, un’intensa attività live fin quando è stato possibile li hanno portati fin qui. L’ultima Fatica “Pinkus Abortion Technician” era un lavoro eterogeneo, solidamente radicato negli anni ’90, un disco che riprendeva in mano molte delle atmosfere musicali che si era soliti respirare allora, non era del tutto disprezzabile. Però ancora sembrava piuttosto fragile: parlando dei Melvins quello che si è soliti ricordare, al netto di stranezze e divagazioni che pure sono una parte importante della loro produzione musicale, sono i riff massicci e pesanti di Buzz (per chi scrive uno dei migliori riff master dopo il supremo Iommi), la potenza ritmica di Dale, assolutamente eclettica nel suo essere pachidermica. Ecco questo era fatalmente venuto a mancare. Oggi, come al tempo dei Cabrones, recuperano Mike Dillard dalla loro formazione storica e provano a ripartire. E ci riescono molto più che in passato. Finalmente dei brani possenti e trascinanti, finalmente un lavoro continuo e che fila con pochi cedimenti (“Hot Fish”?) , finalmente il vocione di Buzz che sale in cattedra a trascinare il gruppo con verve ritrovata e fresca, all’altezza del loro blasone. Dale prende in mano il basso e lascia la batteria al loro compagno storico e la differenza quasi non si sente. Personalmente avevo bisogno di un disco come questo, avevo bisogno di rinfrancarmi con uno dei miei gruppi preferiti. Finalmente segato, in maniera spero definitiva, il ramo marcio McDonald riecco i Melvins con l’attitudine da sberleffo che li ha sempre caratterizzati, si vedano l’omaggio ai Beach Boys di “I fuck around” e “1 Fuck you”, ma soprattutto riff che ti colpiscono come un autotreno a 100 all’ora vedi “Negative no no”, “Boy Mike” o “Hund”.

In conclusione: È meglio della trilogia Atlantic? Nemmeno per sogno, meglio di quella Ipecac? Nemmeno si avvicina. È alla loro altezza? Finalmente sì!

Capitolo 2: Tomahawk

Mike Patton, Kevin Rutmanis, John Stainer e Duane Denison. I nomi potrebbero bastare ma spesso la somma di grandi cifre produce un’addizione dagli scarsi risultati. Non è questo il caso: almeno per i primi due lavori (e soprattutto per l’oscuro “Mit Gas”) possiamo sicuramente parlare di lavori riusciti ed efficaci. Per quanto concerne gli altri due (“Anonimous” e “Odd Fellows”) la curva pareva in fase discendente seppur non in caduta libera; alla fine la classe ed il mestiere dei singoli riesce nell’intento di farli galleggiare anche se appaiono un po’ spenti rispetto alla prima parte della carriera. C’è da dire che quando Patton trova un contesto in un gruppo (come è successo con i Mr. Bungle l’anno scorso) effettivamente funziona meglio. L’attitudine con i piedi per terra di un classico gruppo a quattro elementi gli impedisce di pisciare fuori dal vaso, come in altri contesti forse un po’ forzati (vedi quando gorgheggia inseguendo Luciano Berio). I suoi fan ormai sono abituati a tutto, vedi anche quando si mette a rifare, rivaleggiando con gli originali in modo assolutamente sorprendente, i classiconi della musica italiana anni ’60 con il progetto Mondo Cane o quando collabora con compositori norvegesi come con Kaada, quindi qui si gioca sul facile.

Il nuovo lavoro, riprende la classica atmosfera allucinata e sbilenca propria dei Tomahawk, seppur in maniera più rocciosa e solida che nell’immediato passato. Il primo estratto da “Tonic immobility”, “Predators and scavengers” funziona alla grande ed è un’ottima iniezione di fiducia nel nuovo materiale. I nostri sembrano tornati in piena forma, forse più concreti che in passato.

E alla fine il disco scivola via piacevole con anche degli episodi che si muovono su territori meno canonici come la triade “Eureka” (forse un rifermento alla città di origine di Patton?), “Sidewinder” dove per un attimo riappare il crooner e “Recoil” o, ancora, “Doomsday fatigue”. In definitiva un buon rientro, sicuramente scorrevole e coinvolgente.

Accade a marzo 2021

Il mese inizia con una notifica di Facebook mi ricorda che il 6 di questo mese ricorre il compleanno di Marco Mathieu, caduto in coma ormai diverso tempo fa a seguito di un ictus che lo colse nel 2017 mentre era in vespa. Il bassista dei Negazione fu il primo musicista a cui scrissi una lettera che forse ancora non ero maggiorenne. Ci sono molto affezionato perché mi rispose a mano (!!!) e fu davvero un grande facendomi anche gli auguri per la scuola. Inoltre poco dopo li vidi in concerto e fu il primo vero concerto visto in solitaria (seppur con il provvidenziale passaggio genitoriale) che finì per cambiarmi la vita. Non ho potuto fare a meno di rivolgergli un pensiero di speranza, seppur velato dal tempo trascorso dal suo incidente che ormai comincia ad essere veramente tanto. Mi resterà sempre nel cuore, la sua musica e i suoi scritti; mi rammarico ancora di non aver avuto l’opportunità di accedere al suo lavoro su Socrates.

Lo spirito continua, Sempre!

Il giorno 8 irrompe la notizia del decesso di Lars Goran Petrov, storica voce degli Entombed.

Lars Goran Petrov (1972-2021) Fonte Wikipedia

Ho dovuto trasgredire alla mia regola autoimposta di non partecipare al carrozzone di cordoglio che di solito si scatena sul web, perché l’estate del 2007 è un ricodo ancora vivido nella memoria. Dopo anni di attesa finalmente posso permettermi un viaggio in nord Europa, e per i quattro anni successivi sarà una costante delle mie estati. Scelgo subito Stoccolma, che diverrà a buon titolo una delle mie città preferite. Appena arrivato mi guardo attorno come un animale randagio, il posto mi sembra da subito troppo bello per essere vero. Fatico ad integrarmi: c’è un sole splendente ma non fa caldo anzi, l’aria è frizzantina e si sta benissimo, la gente sorride, il Baltico è a due passi e mi sembra di non aver bisogno d’altro. Solo i prezzi mi fanno rabbrividire e la prima sera mangio una pizza da asporto fatta dai turchi in un parco cittadino. Torno all’ albergo dicendomi che quella sarà la mia casa per i successivi 15 giorni. Mi basta questo.

Il secondo giorno mi fiondo a Gamla Stan, il centro medioevale della città con l’idea di girarmi tutti i suoi vicoli e vederla tutta. L’ idea naufraga clamorosamente quando vedo l’insegna di Sound Pollution, storico negozio di dischi in centro, patria della musica estrema. Entro con una maglietta degli Unearthly Trance e il commesso mi fa i complimenti: più a casa di così… I dischi alla fine non sono poi così cari (provate a farvi una birra per ridere) alla fine però esco con un libro “Swedish Death Metal” di Daniel Ekeroth, storico libro sulla scena svedese con Entombed, Grave, Dismember e Unleashed in primissima linea. Sarà la lettura che accompagnerà l’intera vacanza con tanto di sopralluoghi nei posti citati nel libro: Il punto di ritrovo alla stazione centrale, il cimitero di Skogskyrkogården (patrimonio dell’ Unesco e protagonista della storica foto interna di “Left Hand Path”), qualche locale citato (anche se i nostri non potevano ancora entrarci in quanto sotto ai 21 anni), i Sunlight Studios etc… A quel punto mi sento veramente a casa, Sebbene in giro non ci sia il minimo sentore di Death Metal, respiro la stessa aria dei protagonisti e ne sono felice. Posso girarmela tutta la città e scoprire che è bellissima, trovare il più accogliente ristorante vegetariano di Stoccolma (l’Hermitage a due passi dal Sound pollution, spero ci sia ancora: erano tutti gentilissimi), girare per i musei (Il veliero Vasa, il museo civico, quello di storia naturale… ho saltato quello degli Abba), visitare la torre comunale.

Questo per dire che la scena svedese fu davvero qualcosa di unico ed importante, qualcosa in grado di smuovere le persone ed aprire nuovi orizzonti. Il tape trading allora era davvero qualcosa di avventuroso e romantico, magari facevi chilometri per incontrare una persona sentita solo per lettera partendo armato solo di passione e fiducia, oppure contattavi uno studio di registrazione perché ti aveva catturato quel suono e partivi all’avventura perché volevi registrare lì e finivi per tornare in quel posto in vacanza perché avevi stretto delle amicizie lassù. Gli Entombed ebbero una parte fondamentale in tutto questo e LG Petrov era una parte fondamentale degli Entombed, l’unico a non mollare fino alla fine, fatta salva una parentesi di scazzo con il mastermind Nicke Andersson a causa (pare) di una ragazza all’ epoca di “Clandestine”. Un personaggio schietto e reale che dava il 100% ed oltre sul palco, un puro concentrato di attitudine e metal, che ho avuto l’onore di vedere in azione al Master of death metal e a Rossiglione nel festival organizzato sa Trevor dei Sadist all’epoca. Una perdita tristissima e incommensurabile per chiunque abbia amato quella scena e anche quel paese meraviglioso che è la Svezia.

Al sound pollution sono tornato altre volte, in una occasione acquistai anche Serpent saints con relativa magletta omaggio che resiste tutt’oggi dal 2007!

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