This is no ordinary drumming

Noto con dispiacere che ormai la cadenza dei post su questo blog sta diventando quasi mensile… la cosa mi rende triste e, non che io cerchi scuse, ma ci sono un paio di problemi di troppo a sbarrare la strada a una più prolifica produzione da parte del sotto scritto:

1. Lavoro al computer quasi otto ore al giorno tutti i giorni, ci implica che, giunta sera i miei occhi sono fatalmente fritti.

2. Bisognerebbe aver qualcosa da dire…

E sulla seconda purtroppo devo ammettere che sono in difetto io. Ogni idea mi sia venuta in mente nell’ultimo mese è stata quasi immediatamente cassata come: troppo banale, troppo vuota, …ancora?! o qualche felice espressione del genere.

Fortunatamente oggi sono in grado di parlare di un paio di cose nello stesso post.

Ne faccio uno solo perché si tratta di un comune denominatore che è la batteria.

Esiste un film sulla batteria jazz chiamato whiplash (ci deve essere almeno una canzone ed un gruppo metal con lo stesso nome…)

A priori ne consiglio la visione. Personalmente l’omaggio di questo film (come, in parte di “Cigno nero”) a Stanley Kubrick mi pare più che evidente si tratta di un’iniziazione dura e a tratti selvaggia. Solo che qui non si tratta di guerra, si tratta, come in “Cigno nero”, di arte e, personalmente, si tratta della forma più alta d’arte: la musica.

La storia è piena di musicisti violenti: di pazzi visionari che inseguono uno spettro, quello dell’esecuzione perfetta. Personalmente sono uno sfascia carrozze, non ho nemmeno mai pensato a me stesso come un musicista. Sono uno che ama la musica, la ama con tutta l’anima. Per questo non posso essere un musicista. L’amore è troppo irrazionale per una cosa quadrata e perfetta come lo è la musica ad altissimo livello.

La metrica perfetta uccide il sentimento nella maggior parte dei casi, io l’ho sempre pensato. La passione non può nutrirsi di perfezione, non conosce regola o, se la conosce, la rompe. Questo non significa che la perfezione e chi la persegue non meriti rispetto ed ammirazione, esattamente come da non credente, io abbia un rispetto (poco palesato, ma assai presente per la verità) profondo per la fede.

Ma parlavamo del film: il suo pregio più alto per conto mio è il ritmo. Il che, essendo un film su un batterista, è assolutamente encomiabile. Impossibile non partire a tamburellare ovunque durante la visione, con tanto di air drumming forzatamente non enfatizzato come si converrebbe. Il film ti afferra e ti getta a forza nel suo mondo, nel vortice di pazzia che avvolge e travolge tutto ciò che è musica e ciò che non lo è. E’ un bel crescendo, e sale col passare del tempo.

Ovviamente non ha la maestria assoluta del maestro, tuttavia funziona bene. Non finisce per essere drammatico e senza speranza, non si muove nei meandri della desolazione di un mondo senza umanità: non uccide, ma ci manca poco.

La seconda cosa a proposito della batteria è questa:

Ovvero una delle eccellenze musicali italiane che ritorna sulle scene con un lavoro completo.

La vera questione da dirimere è: Gabe Serbian è in grado di rimpiazzare Jacopo Battaglia?

No.

Ma il gruppo ha ancora ragione di esistere?

Sì.

Hanno ancora tanto da dire ed il brano postato sopra ne è la primaria dimostrazione, dato che, per chi scrive, può entrare di diritto nel novero dei migliori brani mai prodotti dal gruppo. Poi io sono sempre stato un grandissimo ammiratore dl sig. Battaglia, quindi magari sono un po’ troppo severo, tipo Terence Fletcher. Eppure il mr. Locust è bravo fa anche delle cose interessanti ma, come dire, Battaglia era (è?) di un altro pianeta.

Detto questo il gruppo continua ad esistere e ne sono contento, il disco merita, le idee non latitano. Questo mi sembra, più che mai, il disco di Massimo Pupillo: prende in mano il gruppo e lo porta avanti con una fierezza ed un piglio che prima venivano più controbilanciati, forse, dai suoi compagni di avventura. Adesso chi emerge è lui, anche Luca T. Maj ha i suoi momenti, eppure quel che emerge da ogni solco è la sua presenza, i suoi effetti ed il suo basso.

A volte si indugia un po’ troppo in certi passaggi atmosferici che fanno perdere fatalmente di intensità al lavoro, questo va detto: una volta gli Zu erano tesi e corposi, non lasciavano tregua. Ora sono capaci di rilassarsi, di accogliere un approccio meno claustrofobico. All’ ascoltatore il verdetto finale. Personalmente è una nuova incarnazione che ci sta, ma che  non riesce a non farmi rimpiangere un poco il passato.

In ogni caso c’è da essere fieri di essere loro compatrioti. Forza Zu, sempre.

E alla fine cosa siamo senza passione?!

Con questo interrogativo dall’esito scontato il compare giustifica l’insano gesto. Che si traduce in una disperata, strenua trasferta a Milano, per vedere quattro giapponesi più una suonare come dei Black Sabbath pesanti e strafatti. Roba per noialtri insomma. Roba senza la quale non potremmo non dico vivere ma avere una certa dignità innanzi a noi stessi. Ha ha.

Il punto è che ha ragione, ascolto musica da una vita e non mi ha mai abbandonato, è sempre stata fedele e presente. E probabilmente il concerto è l’espressione massima di tutto questo. Lo è sicuramente per i Church Of Misery, e per spezzare un digiuno che oramai sapeva di uno stantio imborghesire, abbiamo scelto loro. Non è stata una scelta casuale: oramai siamo alla terza volta che ne gustiamo le performance. La prima volta, quella della rivelazione, fu nella bassa trevigiana dove un manipolo di uomini locali li aveva chiamati a suonare al loro centro ricreativo, con anche i Minsk e una selezione di gentaglia locale, per dar vita ad un mini festival ruspante e fraterno, una cosa che difficilmente scorderemo, come pure la puntata in terra del prosecco (e della grappa) del giorno susseguente.

La seconda volta non riuscimmo a vederli come si deve al confusionario, quanto lodevole nelle intenzioni, MiOdi di qualche anno fa. Stavolta la cosa è diversa. Spesso eventi contingenti ci portano a lasciare in un angolo le nostre passioni, quello che più ci piace fare. Però queste non possono soccombere in eterno.

“That is not dead which can eternal lie,  And with strange aeons even death may die.”

Questo lo sapete tutti, mi auguro. E infatti risorge, la passione risorge. E lo fa in in tripudio di valvole affumicate! Se abbiamo scelto i CoM, lo abbiamo fatto perché dal vivo sono spettacolari. Se su disco la loro miscela di groove sabbathiano (e settantiano) e serial killers (ognuno ha le sue ossessioni) fa sfrigolare gli amplificatori a dovere, anche senza brillare in originalità, dal vivo la presenza fisica, elettrica e vibrante dei nostri diventa incontenibile. Straripante.

Questi quattro giapponesi riaccendono tutto ed il fuoco divampa in un attimo e cammina con noi. All’entrata ci accaparriamo le ultime due copie in vinile di “The second coming” con mr. Bundy in copertina, con buona pace di tutti gli altri intervenuti. La ragazza nipponica ci resta di stucco quando specifichiamo che ne vogliamo due, cosa del resto ovvia per noi. Si prosegue tra un amaro (mai notato che il dozzinale montenegro sembra chinotto alcolico?!) e quattro chiacchiere, per ammazzare il tempo aspettando che il gruppo di supporto finisca.

Poi finalmente, in netto anticipo per i pessimi standard del Magnolia, iniziano ed è come se il tempo intercorso dal primo concerto non fosse mai passato, certo: cantante e chitarrista sono cambiati, ma lo spirito è sempre quello. E pare che ogni nota concorra a ricordarci chi siamo, cosa ascoltiamo, un po’ tutte le avventure vissute assieme. Una passione che si riafferma, che non si arrende e non si estingue. Siamo noi e la musica: i piatti, le corde, i cavi, i coni, le pelli e le valvole.

Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014
Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014
Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014
Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014
Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014
Church of Misery live @ Magnolia 04/02/2014

The Melvins Lite live @ Bloom Mezzago

Non può piovere per sempre… ed infatti ha smesso giusto in tempo per permettere a noi altri di affrontare la trasferta in quel di Mezzago senza essere bersagliati dalla pioggia battente. L’occasione era perfetta per spezzare un digiuno francamente avvilente dai concerti dal vivo, i Melvins sono in tour nel nostro paese e qundi ci tocca di vederli per la terza volta! E siamo entusiasti al pensiero di rivedere il faccione di Buzzo e quel ceffo di Dale.

La trasferta è impegnativa e probabilmente qualcuno sta maledicendo se stesso stamattina, eppure come si fa a non voler bene ai ragazzi, come si fa a non accorrere al loro richiamo? A Mezzago si sta bene in maglietta: è una bella serata primaverile, un po’ troppo umida e appena arrivati scorgiamo gli stessi Buzzo e Dale aggirarsi all’esterno del locale, si rifugiano in tutta fretta nel tour-bus e questo è quanto. All’interno la bancarella è deludentissima: qualche t-shirt (pessima) dei Melvins, qualche altra dei Big Business e un manifesto la cui grafica sinceramente è deprimente, del resto i Melvins sono famosi per il pessimo aspetto dei loro CD, perché smentirsi con i volantini? Uno si aspetterebbe di trovare il CD nuovo, se non proprio qualche 7″ raro della Amphetamine Reptile, invece niente, che tristezza.

I Big Business, si rivelano molto migliori di come me li ricordavo… l’inserimento di una chitarra (Scott Martin) e il tempo trascorso devono aver ulteriormente permesso alla sezione ritmica dei Melvins di rendere il suono decisamente più compatto e corposo. Composizioni solide e trascinanti, sostenute da un batterista (Coady Willis)  di tutto rispetto, autore di una prestazione sicuramente di rilievo, seguito dallo sbraitare di Jared Warren che sembra un novello boscaiolo particolarmente ilare. E poi tocca a loro…

Una testata Sunn 0))) model T sovrasta due casse Orange nella postazione di Buzzo e lascia presagire delizie future. Un campanaccio molto artigianale fa la sua figura sulla batteria di Dale e rafforza tale impressione, quando poi Trevor Dunn si presenta sul palco con un contrabbasso classicamente inteso, penso che ci sia stata l’assoluta certezza che sarebbe stato un gran concerto. Introdotti da una fastidiosissima divagazione noise sui colpi di tosse che fungono da introduzione a “Sweet Leaf” dei ‘Sabbath (sarà una intro casuale nell’anno del ritorno?) che viene poi lasciata scorrere mentre i musicisti si preparano, ecco i nostri eroi guadagnare il palco! Buzzo ha il solito improponibile faudal (grembiule in piemontese), l’immancabile ventilatore e la fida chitarrina di stagnola. Trevor invece sembra l’ultimo dei nerd con tanto di camicia a maniche corte cravattata e occhiali con nastro adesivo bianco. Non può mancare all’appello Dale con una maglietta che sembra una versione marcia delle divise dei Beatles di Sgt. Peppers! Ci siamo tutti ed andiamo ad incominciare.

Un set basato abbastanza sull’ultimo “Freak Puke”, vista anche la presenza di Dunn, che suona il contrabbasso veramente alla grande, senza alcun problema di suono che, anzi, riulta davvero caldo e corposo perfettamente contrapposto alle sonorità di Buzzo che, questa volta, appaiono più fredde del solito (a volte il Les Paul black beauty ci manca)… la batteria di Dale invece è microfonata benissimo ed ogni suo tocco sembra uno sparo al cuore… intenso e furente come solo lui sa essere. Tra le altre come non ricordare l’immancabile “Hooch”, la nuova “Mr. rip off” o la cover di Mc Cartney “Let me roll it”, tanto per citarne tre. Il pubblico è abbastanza movimentato e qualche spintarella arriva anche a noi, ma in mezzo c’è un bel pit e non manca anche un episodio di crowd surfing come ai bei vecchi tempi. Da bassista ho apprezzato molto il lavoro di Dunn, che poi era la novità principale per quel che mi riguarda, e anche il suo assolo terminato con la sfruttatissima “Somewhere over the rainbow” (vi perdono solo perchè siete voi e non sapete nulla della sfrangiata di maroni della tim) è stato assolutamente convincente ed un ottimo preludio alla parte finale nella quale Coady raggiunge Dale per una bella mitragliata con due batterie.

Buzzo è il solito vocione imperioso, solenne e grandioso sotto ad una cascata di capelli grigi che esplodono sul capo, il fido ventilatore che li mantiene vaporosi e la chitarra che manda suoni potenti e a volte striduli, scuote la testa, si avvicina furtivo al microfono a volte per cantare ed a volte no. Dale, come accennato in precedenza, gode di suoni veramente ottimi stasera e, nonostante il caldo che fa sudare tutti quanti, sfodera ancora una volta una prestazione riuscita e potente, lanciando tuoni a destra e a manca, insomma: trent’anni dopo sono ancora qua ed è fantastico pensare che abbiano ancora tanta benzina da bruciare, tanta voglia di esibirsi e di confrontarsi con pubblico e strumentisti nuovi. Il concerto passa in un soffio, considerata anche la fame di concerti che avevamo, ci sembra che arrivi anche troppo in fretta  la fine incorniciata da un bel pezzo bluegrass che fa quasi venire in mente il Boars Nest.

Le foto, vista anche la movimentata audience, sono quel che sono ma tanto per inventario eccovele:

The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago

Sogna fratello

Mic
Mic

Un respiro prima di cantare, la folla aspetta, i ragazzi ti guardano e sorridono dietro agli strumenti e al sipario, un ultimo momento di intimità: inala a fondo, senti l’aria entrare, calda ed umida, come quella tra i ragazzi assiepati a pochi metri, sotto al palco. Vogliono vedere gli occhi limpidi di un ragazzo, i suoi sogni sgusciare tra le note, la sua sensibilità trafiggere le loro anime, percepire la sua voce cristallina e pura. Ammirare un colore che non hanno mai visto materializzarsi davanti ai loro occhi. Intuire che non è possibile vivere senza cantare e nemmeno senza sentire gli altri far vibrare l’aria.

Nessuno può avere la stessa angoscia dentro dopo aver cantato. E’ il canto che cambia colore all’anima, la musica che lo accompagna… la voce è il primo strumento che l’umanità abbia mai suonato, quello che ognuno può reperire e può sperimentare direttamente, senza nessun impegno ulteriore che non derivi da noi stessi. Le corde sono già dentro di noi, occorre lasciarle tremare, come un sentimento tanto potente quanto riservato, nascosto eppure riconoscibile. Il suono è immateriale e bellissimo. Trasparente come l’acqua di un fiume eppure senza peso: va oltre la gravità fiero, con il petto gonfio di note e di ancestrali ed iridescenti passioni.

Sogna fratello e rendici partecipi delle meraviglie della tua anima. Della purezza che, induriti dal mondo, non siamo riusciti a mantenere viva. Del tuo animo bambino e curioso, del tuo sorriso appena accennato e della voglia di dormire sul divano stanotte… io spero solo che le tue visioni oniriche  riempiano la stanza e non se ne vadano più…

Maurits Cornelis Escher e le valvole KT 88

Maurits Cornelis Escher
Maurits Cornelis Escher- “Autoritratto”

Trovarsi di fronte una rinnovata veste grafica così di punto in bianco può spiazzare, si vedano i commenti del post precedente. Ecco, aver messo il leggendario logo dei Black Sabbath sullo sfondo per il compleanno di Tony Iommi ieri, ha scatenato la rivoluzione grafica davanti alla quale vi trovate adesso.

KT 88 (Tubes forever!)
KT 88 (Tubes forever!)

Prima l’inversione: testata colorata e sfondo in b/n. L’occhio sullo sfondo è un’ opera del grandissimo M.C. Escher, incisore ed illustratore olandese noto per la sua propensione alle illusioni ottiche e prospettiche. Avendo io scelto una mia radiografia come immagine del profilo ed essendoci un teschio nella pupilla, sembra quasi che sia l’occhio di chi legge il blog, almeno quella era l’idea. La ripetizione accentua invece la componente ossessiva e claustrofobica.

La testata (anche per assonanza del termine!) invece riprende l’immagine delle mitiche valvole panciute KT88 durante il funzionamento. Solitamente vengono utilizzate dai vari Green, Orange o Matamp… turn it on!

L’alluminio no, non l’avevo considerato!

Aluminium Bass
Aluminium Bass

Quando si è fanatici di un gruppo si tende a notare tutto. Quando poi si tratta dei Melvins e della chitarra di Roger “Buzz” Osborne direi che la cosa non può passare inosservata.

Per anni ha suonato con una leggendaria Les-Paul nera, fino a quando si è munito di uno strano strumento non meglio identificato ed in un video lo si sente dire “Ho sempre pensato che la Les-Paul fosse la migliore chitarra del mondo. Ma ho dovuto cambiare idea!”.

Lo strano oggetto in questione è una chitarra tutta di alluminio, costruita dalla electric guitar company… e a giudicare da come suona (e da quanto costa) dev’essere senz’altro uno strumento meritevole. Inoltre il fatto che la suonino anche altri gruppi come Isis e Sunn 0))) depone ulteriormente a suo favore.

Ma l’alluminio no, non l’avevo considerato. Chissà che sensazione da’ in mano. Sicuramente deve avere un sustain infinito e la chitarra (o il basso come in fotografia) deve essere solida, difficilmente avrai bisogno di un liutaio in vita tua, se si dovesse stortare il manico, non si sa come, vai in officina direttamente! Il manico strettissimo è sicuramente una garanzia di maneggevolezza non indifferente ed anche il peso non dovrebbe essere troppo eccessivo, considerato che comunque l’alluminio è leggero, pensando che si tratta di un metallo: se realizzassero strumenti in ghisa, tipo la stufa della nonna, sarebbe sicuramente un’altra cosa!!

In un vecchio film di Nuti sul biliardo si diceva che le stecche di legno hanno un’anima propria, mentre a quelle di alluminio l’anima devi mettercela tu… magari è vero anche per gli strumenti musicali, comunque non avrò a breve 2.300$ per scoprirlo di persona!

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=o8ps1XLaJ3A]

Obsolescenza

Ammettiamolo: ossa, tendini, muscoli e nervi hanno fatto il loro tempo, davvero. E smettiamola di pensare che il corpo umano sia una macchina perfetta: oltre a produrre una quantità notevole di secrezioni nauseabonde (ricordate, per altro, in una immortale canzone di Elio che alle superiori veniva impropriamente utilizzata per scandalizzare le menti più sensibili) la suddetta “macchina perfetta” è passibile di malattie e malfunzionamenti di varia natura, genere e gravità.

Occorre far spazio al futuro, considerare nuove soluzioni. Come già paventato dai Fear Factory con il loro “Obsolete” del 1998 l’umanità sta diventando obsoleta e fallace, come magistralmente predetto dai Kraftwerk il mondo dei robot prenderà il sopravvento su gli umani e non credete alle sirene consolatorie di Schwarzeneggeriana memoria: questa volta il Terminator non riuscirete a fonderlo nel dimenticatoio cibernetico.

Loro sono già tra noi… e hanno cominciato ad alzare il volume!

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1NEzDw7XuBg]

Yeah!

Kyuss: "Blues For The Red Sun" 1992
Kyuss: “Blues For The Red Sun” 1992

Cominciamo dalla fine: uno “Yeah” pronunciato da qualcuno dei quattro guasconi californiani, probabilmente con la bocca piena, rappresenta la 14esima traccia e chiude uno dei più bei dischi degli anni ’90 e, per me, di sempre. Basta?

In questo ultimo periodo mi sono ritrovato a parlare spesso di dischi usciti nel 1992 e parlando dei QOTSA, qualche giorno fa mi sono reso conto che anche questo capolavoro compie quest’anno vent’ anni, mette quasi paura dirlo! Il disco esce il 30 Giugno 1992 per la misconosciuta Dalì Records, evidentemente un’etichetta indipendente locale (il cui fallimento, qualche anno dopo, metterà seriamente in forse la pubblicazione di quell’altra gemma denominata “Sky Valley”), ed è stato registrato a Van Nuys nello studio Sound City col producer Chris Goss (Master Of Reality).

Il disco si presenta da subito come qualcosa di straordinario: la copertina con le tempeste solari, il suono che fonde volutamente sonorità settantiane e psichedeliche con una pesantezza terrosa difficilmente riscontrabile in precedenza. Per la chitarra un giovanissimo Josh Homme decide di utilizzare un amplificatore da basso cosicché la caratteristica del disco finisce per essere una costante grevità nel suono, che, le prime volte che il disco finiva nel lettore, sembrava assomigliare a una curiosa amalgama di chitarra e basso, tenuta assieme dalla batteria ed in contrasto con la voce di John Garcia che risulta muoversi alla perfezione in un simile magma sonoro. Personalmente, per la scoperta di questo disco, devo rendere grazie alla trasmissione “Planet Rock” della Radio Rai e, segnatamente al dj Mixo che adesso è di stanza a Radio Capital. Sulle prime non è che mi fosse piaciuto poi molto, anche se il singolo “Green Machine” è ancora una cosa piuttosto abbordabile, era forse troppo diverso per coglierne il fascino al volo… tuttavia qualcosa era scattato nell’apparato uditivo: il bisogno di un suono totalmente greve e valvolare!!!

Spilletta dei Kyuss recuperata in un negozietto ad Amsterdam
Spilletta dei Kyuss recuperata in un negozietto ad Amsterdam

Quindi in capo a quindici giorni (considerati anche i tempi biblici dei negozi di provincia quasi un miracolo!) il disco si trova nelle mie mani e, quasi per magia, quando lo depongo nel lettore è amore a primo ascolto!!! Insieme al giro iniziale di “Thumb” si espande anche il sorriso, quando la distorsione entra a piena potenza è un tale visibilio sonoro che difficilmente si può descrivere!!! Tornano in mente immagini vecchie di vent’anni: il fantasma dei tripli stack di amplificatori dei Blue Cheer, della SG consunta di Toni Iommi, della batteria enorme di John Bonham… si fantastica (?) tra i fan di leggendarie sessions nel deserto, supportati dall’immagine interna della copertina che mostra un amplificatore monolitico sullo sfondo della mesa con un basso a terra e i raggi di luce violenti che sbucano da dietro…

E parlare delle singole canzoni non rende… anche se quando irrompe “Freedom Run” l’intero disco sembra bloccarsi per far passare un TIR sonoro enorme come solo certi trucks che solcano i deserti americani sanno essere… ed un titolo come “50 milion year trip (downside up)” la dice lunga sul contenuto della canzone stessa. Il blues straripa in “Thong Song” inno sulfureo al rock’n’roll, mentre “Allen’s Wrench” sfinisce definitivamente l’ascoltatore prima che quel tripudio di distorsione interstellare che è “Mondo Generator” (vi dice qualcosa cari Ufomammut?) conduca il lavoro alla fine.

“Blues For The Red Sun” non è un semplice disco… è una leggenda!!!

Regali di Natale?

Che diritto potrà mai avere un agnostico impenitente di fare la sua richiesta per i rituali regali natalizi? Nessuno appunto. Però se siete di quelle persone (io per esempio non lo sono: amo fare regali indipendentemente dal periodo e “azzeccarli” mi da una gran soddisfazione!) che necessariamente abbisognano di una ricorrenza per fare un presente (e tenendo conto che rickenbacker e matamp sono gia stati richiesti a San Nicola in persona) ebbene ecco un regalo che contribuirebbe ad aumentare non poco il mio esiguo parco strumenti: un bel tamburo giapponese!!!! Cosa volete che costi? E’ solo ricavato da alberi centenari, ci vogliono appena una trentina di strati di vernice e quattro persone che ci camminino sopra per tendere la pelle… quisquiglie non vi pare???

Nonostante io non dovrei nemmeno pensarci, converrete che ha un suono affascinante!

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