A.D. 2019

Ho volutamente aspettato fino alla fine nella speranza di qualche nuovo spunto, mi sono giunti all’orecchio solo i Naga da Metal skunk che però, per quanto mi concerne, pur concordando sui loro meriti, risultano troppo derivativi  per entrare nel novero dei migliori dieci dischi usciti quest’ anno.  Dunque andiamo con ordine.

10. Liquido di morte IIII: Nuova prova per i Milanesi, ancora una volta un disco strumentale carico di pathos e trasporto emozionale. Stavolta si muovono ancora su lidi onirici, spesso dilatati, a volte sottilmente inquietanti. Si confermano come una bella realtà che purtroppo non sono ancora riuscito a vedere dal vivo. Valore aggiunto (senza dubbio) lo stellare artwork di Luca SoloMacello che produce addirittura 200 copertine diverse. Da avere,

9. Crushed curcuma Tinval: Un doveroso omaggio alla Biella che mi piace. Un disco ancora una volta strumentale da parte di un gruppo che va via via aumentando il suo bacino di ascolto, finendo per suonare anche in posti lontani da casa (ultimamente Roma e Milano) e raccogliendo consensi da parte della critica specializzata. La loro proposta promette un tappeto sonoro elettronico sul quale svetta un sassofono in grado di apportare un’ulteriore apertura al suono. A momenti suonano quasi etnici, molto più spesso psichedelici e a tratti dilatati. Difficile descriverli oltre, provate ad addentrarvi e lasciatevi catturare.

8. Saint Vitus Saint Vitus: dentro nuovamente Scott Reagers, fuori Mark Adams, Dave Chandler rimane sempre di più al comando della sua creatura, facendo uscire il secondo disco omonimo della storia del gruppo e centrando l’obbiettivo maggiormente rispetto a quanto fatto anni prima con la formazione con Mr. Wino dietro al microfono. I brani appaiono maggiormente focalizzati, benché la durata del lavoro risulti sempre piuttosto risicata, c’è un impeto maggiore, una maggiore convinzione. Il lavoro appare più organico e coeso ed anche l’ ennesimo reinserimento del cantante originale sembra riuscire più del ritorno con Wino dietro al microfono che, comunque, nel frattempo ha pure trovato il sistema di rientrare egregiamente con gli Obsessed. Non siamo ai livelli del pre-reunion, ma comunque un lavoro per il quale vale la pena di scucire qualche pizza di fango.

7. Edda Fru Fru: Dopo ancora altri ascolti, l’opinione in merito non è cambiata. Si tratta di un’opera frivola e leggera dietro la quale si agita uno degli ultimi artisti sinceri e veri della musica italiana. Graziosa utopia era di un altro pianeta, ciò non significa che questo nuovo non sia piacevole e regali dei momenti di godimento sonoro (e anche lirico) notevoli, pur non raggiungendo certe vette, rimane una spanna sopra ciò che l’ Italia in media ha da offrire.

6. The Haunting Green Natural Extintions: Una gran bella scoperta fatta grazie a Blogthrower. Un duo dedito ad una musica quasi strumentale i cui numi di riferimento sembrano arrivare in parte da certo black metal evoluto ed in parte da una forma di post metal (Neurosis e compagnia), il tutto rivisto in un’ottica molto personale e intensa. assolutamente degni di attenzione e supporto.

5. Monolord No comfort: Un gruppo derivativo, ne convengo. Ma posso fare eccezioni e per loro le eccezioni le faccio più che volentieri. La prima volta che ho ascoltato questo disco mi sono detto che era tutta roba che avevo già sentito da qualche altra parte. Ma poi l’ho ascoltato una seconda, una terza, una quarta volta e così via, finché non sono più riuscito a scrollarmelo di dosso. Non importa se poi i rimandi a Black Sabbath ed Electric Wizard si sprecano, alla fine i Monolord vivono di vita propria. E che vita! Io avrò sempre bisogno di dischi come questo. Grandissimi Monolord!

4. STORM{O} Finis terrae: Non c’erano dubbi che finissero anche i feltrini in questa lista. Un disco vibrante e veemente, nel quale esce probabilmente quello che è il loro lato più nervoso e violento. Un disco teso, instabile eppure solido e con le idee incredibilmente chiare con momenti più riflessivi e, a tratti, quasi evocativi ma che fa dell’impeto il suo credo. Superlativa la prova del batterista Stefano. Tremate. Tutti.

3. Iggy Pop Free: Ho già parlato anche troppo di questo lavoro, se ancora non l’avete ascoltato, fatelo.

2. Chelsea Wolfe Birth of violence: Posso solo aggiungere a quanto riferito  a suo tempo che più uno si inoltra negli ascolti, più le sfumature si insinuano nell’ascoltatore ed il disco aumenta di spessore. Una ulteriore sfumatura di se stessa messa in musica da parte di quella grandissima artista che è Chelsea Wolfe, che con un altro disco superlativo, si conferma ad altissimi livelli.

1. Tool Fear Inoculum: Sono già pienamente al corrente di tutte (e dico tutte) le critiche sono state mosse al gruppo e a questo disco. Alcune le condivido, altre meno, alcune per niente. Però ad un certo punto bisogna anche guardare in faccia alla realtà: questo è stato il disco che ho ascoltato, gradito e ammirato di più durante tutto il 2019. Il resto sono chiacchiere.

Gente che è rimasta fuori:

Sunn 0))): Ben due uscite per il gruppo di O’Malley e Anderson. Nessuna delle due è in lista, eppure sono uno dei miei gruppi preferiti. Pur riconoscendone il valore ed adorando la proposta non li ho messi perché non vedo l’ora di vederli dal vivo e la trasposizione su vinile di quello che sviluppano in sede di concerto non è che un pallido tentativo di descriverlo. Vale la pena averli ed ascoltarli. Comunque.

Baroness e Nick Cave and the Bad Seeds: La verità è che non sono riuscito ad ascoltarli a dovere: i Baroness mi suscitavano emozioni troppo contrastanti e mi mettevano in un pessimo stato d’animo senza una spiegazione oggettiva del perché lo facessero. Di “Ghosteen” ho ascoltato solo un brano che mi è parso più pesante di un macigno. Non ho ancora avuto la presenza di spirito e la forza d’animo per approfondire.

Colle der Fomento e Carmona Retusa: Fuori tempo massimo. Non ho inserito i Colle solo perché l’anno scorso non ho fatto in tempo ad ascoltare debitamente “Adversus” e quest’anno non posso inserirlo perché è temporalmente sbagliato. Comunque il loro lavoro, a mio parere, confermando la mia ignoranza relativa sul genere, rappresenta il più bel disco di rap mai scritto in Italia per testi e musiche.

I Carmona Retusa li ho scoperti in concomitanza con l’intervista rilasciata con Blogthrower ma il loro disco, dal titolo ispirato ad Andrea Pazienza è addirittura uscito a marzo del 2018, quindi nulla. Ciò non tolga nulla al loro valore, sono bravissimi e meritano molto più successo.

…a proposito di Baronesse

L’altra sera, mentre fuori c’era la tempesta, ho finito di leggere l’autobiografia per recensioni di Lester Bangs ascoltando il nuovo dei Baroness. Un modo come un altro per passare la serata invece di smadonnare davanti a canali che perdono il segnale quando mancano 10 minuti alla fine del film, cosa che, in realtà, è successa la sera prima. Ci ho messo una vita a leggere il libro di Bangs (sarebbe utopico avere le tempistiche di una volta) eppure, quando ho finito, mi sono reso conto che molti dei pensieri che ho formulato in vita mia li aveva già elaborati lui prima e con molti anni di anticipo. Probabilmente lui avrà pensato la stessa cosa di qualcun’altro: è una ruota che gira.

Più probabilmente a girare è un cerchio nero con un forellino in mezzo, oppure un dischetto iridescente con un buco più grande sempre nel mezzo. Gli mp3 non girano, forse è per questo che, pur essendo comodi e tutto, non mi convincono, come del resto non lo riescono a fare gli ebook. Il fatto che qualcun’altro abbia già elaborato i tuoi stessi pensieri non significa che tu non debba sforzarti di formularne di nuovi. Anzi. Significa esattamente quello. E comunque il percorso intrapreso per formulare determinate riflessioni ha il suo peso, come pure hanno il loro peso il contesto e le piccole differenze che comunque non possono non esserci.

Da più parti sento dire che la musica pesante ha perso stimoli, la furia che denotava certe proposte musicali ha perso il suo impeto di ribellione se anche nelle catene di vestiti da centro commerciale si vendono magliette metal. E ripenso al me stesso che quasi nascondeva le toppe degli Iron Maiden nel gubbotto di jeans delle superiori. La risposta che mi sono dato e che, alla fine, non mi interessa. Non amo questa musica perché è sinonimo di ribellione. Amo questa musica perché fa parte di me. Apprezzo altri stili misicali ho sempre considerato il goth la mia seconda casa, ho sempre apprezzato il jazz e, anche se per un numero ristretto di artisti, rispetto anche (e perfino) il rap senza nessuna “t” davanti (sia chiaro!) e tanti altri “amori musicali episodici” dei quali non importa a nessuno se non a me stesso. Tuttavia questo non cambia il fatto che un bel suono di chitarra distorta, una batteria menata a sangue e un basso che ti smuove le viscere rimangono il mio territorio e fin quando ci sarà qualcuno a suonare cose di questo tipo io sarò qui ad ascoltarli.

Il declino è evidente. Soprattutto dal punto di vista creativo credo che sia sotto gli occhi di chiunque abbia ben presente le proposte musicali in abito pesante dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine dei ’90: non raccontiamoci balle, certi dischi non torneranno mai più. Ma da qui a dire che è tutto finito ce ne corre, e parecchio. L’entropia è un processo irreversibile, le cose peggioreranno sempre e comunque, non si sfugge: se addirittura le grosse case produttrici di strumenti musicali (Gibson e Fender su tutti) sono in crisi perché ci sono molti meno ragazzi che smaniano per tenere in mano uno strumento credo che il fenomeno sia assolutamente tangibile. Pazienza. Ho fatto una buona scorta di bordate sonore, potrebbe anche bastarmi per una vita, rischierei di annoiarmi forse, ma potrebbe bastare.

Tuttavia sarebbe un accontentarsi triste, un immobilismo sterile, perché che lo neghiate a voi stessi o meno, siamo tutti in costante e continua evoluzione. Possiamo anche rallentarla allo fino allo sfinimento, tentare di controllarla o lasciarla correre senza freno, ma non possiamo fermarla. Dobbiamo tendere a qualcosa, almeno provarci. La musica pesante non è morta. Molti la danno per spacciata ma non è morta, sta a noi trovare nuovi stimoli. E ogni qualvolta un disco ci piace o almeno ci lascia perplessi abbiamo il dovere di esultare. Se ci piace è ovvio il perché, ma se ci lascia perplessi dovremmo esultare ancora di più perché dovremo fare un’ulteriore sforzo per entrare nelle sue dinamiche, per capire se le emozioni che ci genera sono noia o estasi, dobbiamo adoperarci per capire se ci appartiene o meno. Se tocca le corde delle nostre emozioni. In una parola dovremo rimetterci in gioco. Esattamente ciò che dovrebbe fare ogni artista quando si approccia ad un nuovo lavoro, a delle nuove composizioni.

Per il momento il disco dei Baroness, che continuano ad intitolare i loro lavori come dei colori (“Gold & grey”, nel caso), sta esattamente in quel limbo. Intuisco della grandezza in esso, percepisco lo sforzo evolutivo rispetto al passato (“Purple”, di qualche anno fa sembrava alla lunga fin troppo statico e quasi manieristico) ma ancora mi sfugge se può ergersi a grande lavoro o finirà sugli scaffali a prendere polvere. E questa sospensione, che non resterà tale in eterno, mi piace, perchè mi da modo di confrontarmi e crescere, anche solo ascoltando un disco. E’ un ottimo punto di partenza.

Aggiornamenti:

  • Sono stato raggirato da Chelsea Wolfe: Il nuovo disco esce a settembre! Il singolo on-line non mi dice un granché ma sono comunque fiducioso.
  • I Crushed curcuma hanno messo on-line un disco disponibile per download gratuito o formato fisico: cosa aspettate?

Back in the saddle!

Chi segue questo blog sa della mia partecipazione al dramma che ha colpito i Baroness sulle strade europee lo scorso agosto. John Baizey, cantante e chitarrista del gruppo, è stato, insieme all’autista, quello più colpito dal trauma successivo all’incidente, riportando diversi danni fisici che hanno rischiato seriamente di metterne a repentaglio la carriera. Credo che, come testimonia il video che riporta l’esibizione dei Converge alle celebrazioni per il centesimo numero del magazine di musica estrema americano decibel, la guarigione proceda speditamente nella direzione di un pieno recupero.

Tre giorni fa infatti il nostro è salito sul palco dell’ Union Transfer di Philadelphia dando vita ad una emozionate versione di “Coral Blue”, assieme agli headliners, riuscendo anche idealmente ad unire due compagini in grado di dar vita ad altrettanti lavori altamente significativi usciti lo scorso anno. Ma questi sono dettagli: l’importante è che, dopo tante storie finite male (Randy Rhoads, Cliff Burton, Duane Allman e Ronnie Van Zant sono solo i primi che mi vengono in mente), finalmente qualcuno riesce a sottrarsi alle grinfie della sorte e a rimettersi in piedi, sia pure dopo lunga convalescenza e riabilitazione. Direi che, ogni tanto, una storia che finisce positivamente non può che rinfrancare il morale, quindi forza John e forza tutti quanti: il resto della vostra vita vi aspetta e le cose positive succedono, anche se è sempre più difficile crederlo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=o-kmNN0evyk&feature=player_embedded]

P.s.: No, non sono completamente impazzito… ogni tanto capita anche a me, ora lo sapete!

La maledizione dei dischi dell’anno continua!

Abracadabra
Abracadabra

Analizziamo i fatti con calma: un altro anno sta per essere lasciato alle spalle… ed è stato un anno personalmente iniziato male, ma nel quale il finale potrebbe riservare delle sorprese. Ciò che non dovrebbe sorprendere è che sono le 17 e 24 minuti di un martedì freddo e sono chiuso in una camera a guardare il soffitto senza lo straccio di un’idea su cosa scrivere per riempire lo spazio vuoto di una pagina digitale su questo blog. Non dovrebbe sorprendere nemmeno che, alla fine, ricada nell’errore di proporre la classica lista dei dischi di fine anno, praticamente una tradizione di ogni musicofilo che si rispetti.

A cosa serve? Non so… a me a ricordarmi dei dischi che ho amato durante l’ultimo anno e anche a disperarmi cinque minuti dopo averla postata per aver dimenticato questo o quel gruppo, una sorta di esercizio mentale, quasi masochistico. A voi a confrontarvi con le scelte del sottoscritto se trovate un senso nel farlo, altrimenti a riempire i commenti di pernacchie ed insulti dei quali vi sono grato fin d’ora.

Esordio dell’anno: Black Moth: “The Killing Jar”– Mi sono affezionato a questi ragazzi albionici prodotti da Jim Sclavunos… mi piace il loro rock nato dagli Stooges e dai Black Sabbath, pieno di buone premesse per il futuro. We hail you… Black Moth!!

…appena fuori dalla top ten: Enslaved:”Riitiir”– Decisamente un gruppo dal quale non si può prescindere questi norvegesi di Bergen, sia nel loro retaggio vichingo e blackmetallaro degli esordi che nel loro attuale viaggio introspettivo e progressivo con destinazione le nebulose e lo spazio interstellare ma senza dimenticare la madrepatria. La formula si consolida!

10. Unsane: “Wreck”– Io sono uno di quelli che si portano il gruppo newyorkese nel cuore, che si farebbe tatuare da Vinnie Signorelli, guidare per la città da Chris Spencer e che prenderebbe lezioni di basso da Dave Curran. Il loro ritorno non può che essere salutato ossequiosamente su queste pagine. Urbani, disturbati e con i nervi a pezzi: questi sono gli Unsane!

9. Melvins Lite: “Freak Puke”– Un’altra leggenda per il sottoscritto che ritorna in una veste inedita e “Lite” con Trevor Dunn (John Zorn, Mr. Bungle e Fantômas) al (contrab)basso. Giocano con il jazz ed i suoni vintage, con le spazzole e le batterie d’annata… possono legittimamente ostentare un menefreghismo senza limiti e rimanere fedeli a loro stessi, un gruppo al di sopra del bene e del male, un matrimonio artistico Dale/Buzz che supera agevolmente i 25 anni… Hats off, Mr. Rip-off!

8. Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”– Sovversivi dalla progressione facile, colmano rapidamente anni di silenzio con due canzoni maratona e due umanamente più corte. Personalmente mi sono mancati. La magia attraversa il tempo e si rinnova, fino al prossimo posto di blocco…

7. Deftones: “Koi No Yokan”– Un altro ritorno, anche se non avevano mai abbandonato le scene, però un disco di questa portata mancava almeno dal disco omonimo se non proprio da “White Pony”… un ritorno alla forma di un tempo che scalda il cuore e lascia spazio ai sogni. Intensi ed emozionanti, così ce li ricordavamo e così sono tornati…

6. Baroness: “Yellow And Green”– Con un sentitissimo augurio per una pronta ripresa dell’attività spezzata da uno sciagurato incidente stradale lo scorso agosto, accogliamo nella top ten il gruppo georgiano. Un doppio CD, che in parte tiene conto del retaggio sludge, ma che sviluppa maggiormente la parte prog e sperimentale soprattutto nell’episodio giallo…

5. Pallbearer: “Sorrow And Extinction”– Un esordio in classifica è cosa rara, ma onore al merito: il doom non ha mai avuto così bisogno di forze fresche e di dischi come questo. Se è difficile innovare in questo contesto è altrettanto vero che la tradizione, se trattata con personalità ed intelligenza, continua ad avere il suo fascino!

4. Swans: “The Seer”– In tema di ritorni fruttuosi un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Swans di mr. Michael Gira, che qui si avvale addirittura della vecchia compagna Jarboe. “The Seer” è il disco della compiutezza degli Swans, dove tutte le anime del gruppo trovano spazio e convivono in armonia, dalle inquietudini industriali alle incursioni acustiche. Un lavoro mastodontico e impegnativo per chi l’ha concepito e per chi ne dovrà fruire… ma con un fascino enorme.

3. High On Fire: “De Vermis Mysteriis”– Matt Pike e soci sono probabilmente fra i gruppi fieramente heavy metal quelli più sottovalutati. Questo disco ha guidato ha lungo la classifica per quest’anno prima che i due nomi che seguono mettessero a segno due dischi superlativi. Tuttavia ciò non deve distrarre dal considerare il lavoro di Matt e soci: nonostante l’età di servizio elevata se l’heavy metal ha un futuro lo si deve a loro.

2. Converge: “All We Love We Leave Behind”– Ancora una volta sul podio, con i Converge è inevitabile. Sono un gruppo decisamente troppo avanti per personalità e coesione, in grado di modellare l’hardcore come nessun altro può anche solo ambire a poter fare. Dietro la furia, la passione e la perizia rendono questo gruppo inarrivabile.

1. Neurosis: “Honor Found In Decay”– Direte che sono di parte e io scrollerò semplicemente le spalle. Questo è IL disco dell’ anno. Dopo che la loro evoluzione sembrava essere giunta ad un punto morto, hanno ripreso in mano la loro carriera con una maestria incredibile e se ho parlato forse in toni un po’ tiepidi al tempo di questo disco era solo perché bisognava farlo crescere con gli ascolti. Recuperano venature sonore dalle carriere solistiche del duo Von Till/Kelly, si aprono solo all’apparenza ad una maggiore accessibilità e ribadiscono la loro ispirazione… adesso non resta che augurarsi il loro imminente ritorno dal vivo, con la curiosità del dopo Josh Graham…


Seconda possibilità

John Baizley stitches

Quello che potete vedere nella foto non è l’illustrazione che campeggia nella copertina del prossimo album dei Carcass, quello è il braccio dei John Baizley dei Baroness. Il gruppo georgiano di cui ho già avuto il piacere di parlare su queste pagine è stato infatti vittima di un pauroso incidente lo scorso agosto mentre si trovava in tour nel Regno Unito. Fortunatamente l’incidente non ha avuto conseguenze letali per nessuno degli occupanti del bus, il guidatore sembra essere quello che ha avuto la peggio, ma lo stesso John ha riportato conseguenze che potrebbero mettere in serio dubbio il proseguimento dell’avventura del gruppo (potrete leggere un resoconto qui) nonostante appena rientrato in patria abbia ripreso in mano la chitarra. Chiaramente ci vorrà tempo e pazienza, ma leggere della sua disavventura e del modo nel quale ne parla…

“We cannot allow this accident, which I believe is unrelated to the band or our music, to slow down or stifle what has become so much more than a passionate hobby for the four of us. Through Baroness, we have discovered a method by which we may harness our drive to create, and channel all the emotion, anxiety and pain in our lives into something constructive. Music is the universal means of communication we have chosen to express ourselves. Our message has never been one of the absolute positive or negative, neither black nor white. True life occurs within the shades of grey, and I see this experience form that perspective. It seems only fitting to me that we continue working towards creating and performing again as soon as possible, as this band and its music are the vehicle through which we grow as individuals, artists and brothers. The injury the band suffered is an injury to my family and loved ones. Rather than allow it to become a wedge that forces us apart, I would like to see this experience become part of the glue that strengthens us. We have only begun to accomplish what we set out to do through this band. There is so much more to say, and though we do need to heal up a bit; we will not allow any of those things to be left unsaid.”

Leggere frasi come queste, dicevo, mi ha fatto rendere conto che nel mio atteggiamento riguardo alle tragedie della vita c’è molto di sbagliato. Vorrei non farmi mangiare letteralmente vivo dalla rabbia, vorrei non pensare che ci sia dietro un disegno maligno dietro ogni cosa negativa che mi succede, vorrei essere in grado di imparare qualcosa da ciascuna di esse… anziché cadere vittima della rabbia costantemente. E vivere ed essere pronto, senza incolpare qualcun’altro e nemmeno me stesso per le cose che succedono fuori dal mio controllo.

Gialloverde

Dopo un paio di settimane di attesa si fanno vivi quelli della Relapse records nella mia cassetta postale  con il nuovo lavoro dei georgiani Baroness. Che dire, ho letto in giro recensioni non proprio positive su questa loro ultma fatica, in molti credono che stiano sterzando verso una fin troppo comoda deriva commerciale, altri non si spigano l’attenzione nei loro riguardi, probabilmente, dicono, ha a che fare con il fatto che hanno in comune coi Mastodon la città di provenienza e anche qualche sonorità, soprattutto (ma non solo) agli esordi…

Personalmente invece sono propenso a pensare che Yellow and Green sia il loro migliore lavoro. Ho gradito l’irruenza sudista dei due primi ep, lo sludge ragionato di “Red Album”, un po’ meno l’abbozzo evolutivo di “Blue record”, un po’ troppo prolisso ed inconcludente. Adesso, pur rimasti orfani di Summer Welch, il bassista originale, trovano prontamente un sostituto in Matt Maggioni e si lanciano addirittura in un CD doppio, un evento ormai più unico che raro. C’è anche da dire che i due CD non superano i 40 minuti di durata, quindi non superano di molto la durata standard di un CD singolo, probabilmente sono stati divisi per seprare le due colorazioni.

E’ vero che le sonorità si sono fatte decisamente più progressive e dilatate eppure, diversmente a quanto succeso con gli Opeth, la qualità della proposta non ne risente e, personalmente, non avverto un calo nella stesura dei brani e nella qualità dei giri di chitarra che sembrano catturare l’attenzione dell’ascoltatore, senza particolari debolezze, forzature e tedio di sorta. I due dischi scorrono via intensi e coinvolgenti, probabilmente mettere in apertura due brani come “Take my bones away” e “March to the sea” aiuta ad entrare gradualmente nell’atmosfera del doppio CD essendo le più vicine alla loro produzione passata. Da lì in poi il viaggio continua, con le atmosfere morbide di “Cocainum” con l’intensità idilliaca di “Eula” per sfociare definitivamente nella vena prog nella sezione verde, forse quella più ardita e difficile da digerire per chi si ritiene maggiormente legato al passato del gruppo. Eppure scorre via leggera ma non frivola, una colonna sonora perfetta per un viaggio in automobile al crepuscolo, senza che il buio faccia più paura…

il disco è ascoltabile in streaming su bandcamp.

La musica illustrata

La grafica ha da sempre accompagnato la musica, fin da quando i singoli finivano per essere raccolti in Lps e questi necessitavano di una copertina, ma sicuramente anche prima, musica e immagini hanno camminato assieme nel percorso affascinate dell’evocazione, delle sensazioni.

Ultimamente la tendenza è andata anche oltre, grazie ad artisti assolutamente dotati come i nostri malleus o steuso che hanno prestato il loro talento ed i loro inchiostri alle locandine dei vari concerti, cui, in alcuni casi, mi sono onorato di partecipare e acquistare, riempiendo le pareti della mia stanza con la loro bravura e vena artistica.

Tuttavia oggi è soprattuto egli americani che voglio trattare, in particolar modo di Jacob Bannon e John Blaizley.

Il cantante dei Converge, da Salem Massachussets, oltre a fornire elegantissimi artwork per le copertine (ed il merchandising) degli albums della band madre, lavora assiduamente anche per altri gruppi, con uno stile in grado di far confluire tecniche come la fotografia e l’uso dell’aerografo con risultati assolutamente epressivi e vibranti, perfettamente in linea con l’espressività di un gruppo sicuramente intenso e, per certi versi, sorprendente come i Converge. Attivo su svariati fronti, con molti progetti collarterali, l’etichetta deathwish e l’attività grafica, Mr. Bannon sembra, magicamente, trovare il tempo per tutto.

In attesa di dare continuità allo splendido “Axe To Fall” del 2009, con un disco probabilmente in uscita nell’anno in corso dal titolo non ancora sicuro di “All we love we leave behind” il nostro continua la sua attività nei campi più disparati, mantenendo un livello qualitativo francamente alla portata di pochi.
Mi permetto di proporre un brano tratto dal loro ultimo (capo) lavoro.

Own these dire nights
Own their seething lies
Own my damage, own my sears
They paint a broken life’s shattered art

And time won’t turn
My wretched world

John Baizley invece proviene da Savannah, Georgia e già il nome di questa città dovrebbe evocare qualcosa in voi, visto che ultimamente è la patria dello sludge avendo dato i natali a gruppi come Mastodon e Kylesa, per i quali, tra l’altro, ha curato l’artwork di “Static Tensions”. Il suo stile, rispetto a quello di Jacob Bannon, è decisamente più classico usando mezzi più tradizionali come chine, inchiostri, tempere e avendo come evidente punto di riferimento l’art noveau e, in particolare, Alphonse Mucha.

Da sempre piuttosto refrattario a fornire spiegazioni circa i testi del suo gruppo, come a proposito del significato delle sue illustrazioni, Baizley risulta essere una specie di mosca bianca (chissà perchè mi vengono in mente i Tool) in un mondo dove probabilmente ormai tutti sanno tutto di tutto anche grazie a quella macchina da informazione che è internet… il suo gruppo ha da poco fatto uscire un interessante doppio CD che, nella migliore tradizione cromoterapica (i dischi dei Baroness si intitolano con il nome dei colori), si intitola “Yellow and Green” e rapprensenta una energica sterzata verso territori di più facile ascolto rispetto al passato, senza snaturarne troppo l’attitudine. Da buon lemming, sono giorni che questa canzone non mi esce dalla testa…

…And what you did next
Was second to none
You really let us down…

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