2021

10. Melvins: working with god. Questo disco è un classico disco dei Melvins vecchia maniera. Per chi li conosce nulla di nuovo: ci sono i loro classici scherzi da prete (la proto-versione del classico dei Beach Boys e quella in cui mandano tutti affanculo), bei riffoni portanti a supporto delle composizioni. In questo disco è tutto apposto, i Melvins che, finalmente, tornano a fare i Melvins. Non finirà in nessuna lista di fine anno ma finisce nella mia perché, da loro ammiratore, avevo bisogno di un disco come questo. Salvo che poi si siano subito smentiti: certo che se c’è una cosa da dire sul gruppo del Washingston state è che non sono fatti per accontentare tutti.

9. Nick Cave, Warren Ellis: Carnage. Spero di non prendermi del nostalgico a tutti i costi ma pur trovando spunti interessanti nel nuovo corso di Nick Cave con il timoniere Warren Ellis, io continuo a preferire la vecchia produzione con i vecchi Bad Seeds. Per me non c’è partita. Eppure questo nuovo capitolo convince, è bello nel suo essere scarno come al solito. Però forse con l’età è venuto a mancare l’impeto emozionale dei vecchi tempi. Senza contare che restare senza due geni musicali come Herr Bargeld e Mr. Harvey, per un pur meritevole Ellis, sicuramente è un’operazione al ribasso. A me questi dischi piacciono ma mi risultano freddi, in molti li apprezzano, io faccio molta fatica pur riconoscendone il valore.

8. Carcass: Torn arteries. Sempre un piacere parlare di Jeff Walker e soci. Questa volta non fa eccezione, sono in forma e all’altezza del nome che portano. Se poi volete fare dei paragoni ingombranti col loro passato, continuare a lagnarvi che Ken Owen non è più della partita e via discorrendo, siete liberi di farlo. Io ho scelto di alzare il volume e godere della loro ultima fatica, non è un’impresa impossibile nemmeno nel 2022.

7. Mondaze: Late Bloom. Mentre molti indugiano in cosucce tipo la synth wave et similia, per il secondo anno di fila ospito nel listone di fine anno un gruppo che fa un genere con dentro la parolina gaze. Stavolta, dopo i Nothing l’anno scorso, tocca a i Mondaze da Faenza con furore. La cosa bella di questo genere è che potenzialmente a tutti gazer piace alzare il volume a dismisura facendo rimbombare tutto. Sembrerà una bestemmia ma la cosa funzione bene con i Carcass e anche con i Mondaze, ovviamente sono diverse le sensazioni ma questo disco ha comunque molto da offrire anche ad un appassionato di cose molto più brutali e trucide. Un bellissimo esordio.

6. Coverge: Bloomoon I. Di questo disco ho già parlato, mi sembra un lavoro meritevole ma un po’ discontinuo e che, alla lunga, non mi ha fatto venire troppo spesso voglia di essere riascoltato. Ancora un giudizio un po’ sospeso: magari poi a distanza di tempo potrebbe venire assimilato meglio almeno dal sottoscritto, le perplessità tuttavia non smorzano l’interesse per un possibile vol. 2.

5. Amenra: De Doorn. Poco da aggiungere anche qui, il solo limite degli Amenra è che fanno musica che è di difficile ascolto. Bisogna essere nella giusta predisposizione spirituale e allora se ne fruisce nel modo migliore e se ne traggono belle soddisfazioni. Il cantato in lingua fiamminga, a mio modo di vedere, aumenta di molto il fascino della loro proposta, anche se non ne capisco praticamente una parola.

4. Godspeed you! Black Emperor: G_d’s Pee AT STATE’S END! Bellissimo lavoro della band canadese, che questa volta, più che in passato, riesce ad essere quasi più fruibile, con passaggi di una bellezza assoluta che rimangono molto più in testa anche a distanza di tempo. Non vedo l’ora di sentire questi brani dal vivo, con il supporto della parte visiva: in tale caso sarebbero già da adesso da mettere al primo posto.

3. Jointhugger: Surrounded By Vultures. Buonissima seconda prova della band norvegese, che incorpora maggiore psichedelia nel proprio suono rinunciando a qualcosa in pesantezza: il risultato è comunque da applausi, un gruppo come ormai se ne sentono pochi. A partire da qui, le loro possibilità evolutive per il futuro hanno mille direzioni, tutte da esplorare.

2. Monolord: Your Time To Shine. Gli svedesi sono ormai un’istituzione e si confermano ancora alla grande con questo disco, molto più oscuro e dolente del precedente. Inizialmente mi aveva quasi respinto, poi mi ha definitivamente conquistato: è un vero e proprio gioiello.

1. Green Lung: Black Harvest. Vincono a mani basse. Hanno i riff, hanno il groove, soprattutto l’immediatezza ed il coinvolgimento che creano con le loro canzoni non hanno praticamente eguali nel panorama odierno. Per riassumere: hanno un gusto per la canzone invidiabile. Ogni brano è un inno da cantare a squarciagola, una marcia trionfale, un coro da stadio dell’occult rock. Forse poco impegnativi e un po’ facili ma in questi tempi difficili avevo proprio bisogno di un disco del genere.

Luna di sangue

Fonte: Bandcamp

Due nomi grossi che uniscono le loro forze fanno sempre un effetto di… inquietudine, almeno a me. Capita spesso che escano cose egregie, capita anche che la montagna partorisca un topolino oppure che ne esca una schifezza immonda. Gli esempi non mancano in tutti i sensi. Quando Converge, Wolfe e Brodsky annunciarono che avrebbero unito le loro forze per un progetto assieme, onestamente non sapevo cosa pensare. Non so cosa aspettarmi, mi resero impaziente e spaventato allo stesso tempo. I Converge sono un gruppo, forse uno degli ultimi, ad aver spalancato nuovi orizzonti alla musica pesante (il loro batterista Ben Koller è un vero animale) e la Wolfe una delle ultime, bellissime ed emozionanti, scoperte in campo musicale davvero in grado di farmi saltare sulla sedia. Date queste premesse, la loro collaborazione non la potevo proprio prendere alla leggera.

Tutto sarà nato quando Kurt Ballou ha prodotto “Hiss Spun” e nelle varie collaborazioni nello show a supporto degli artisti “Two minutes to late midnight”, vedi la cover di “Crazy train” che, tra l’altro, non è niente male.

I più potrebbero dire che questa collaborazione pende più dalla parte della cantautrice californiana, in realtà i più attenti sapranno senz’altro che esiste senz’altro un’anima più riflessiva in seno ai Converge: mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe successo se avessero esplorato maggiormente la vena di brani come ispirati “Cruel Bloom/Wretched world”, da “Axe to fall”, per dirne una.

“Bloodmoon I” potrebbe essere un tentativo di risposta a questa domanda. Non che l’apporto di nostra signora dell’inquietudine non si faccia sentire, anzi, però sarebbe ingiusto non considerare che anche i Converge una certa propensione in tal senso ce l’avevano. Il disco risulta quindi lontano dai  Converge caustici e percussivi, lontano dalla rabbia e dall’assalto veemente cui siamo soliti associarli, esplora una dimensione diversa e la espande in larghezza sull’intera durata di un disco.

Funziona? Sì, con qualche riserva. Per esempio le tastiere invasive e plasticose della canzone apripista “Coil” che suonano stucchevoli e compromettono molto l’espressività del brano: una scelta quantomeno curiosa quella di farlo uscire in anteprima, visto che, a mio gusto personale, risulta la più scarsa del lotto.

Per contro i primi due brani sono un vero colpo al cuore, “Blood moon” e “Viscera of man”, ti afferrano al collo e ti fondano nel disco con una violenza emotiva che letteralmente ti esplode in petto. Non succede spesso, una simile presa ad impatto immediato. Per il resto questo disco va soprattutto ascoltato e metabolizzato, non lo si può affrontare come se fosse solo dei Converge o solo di Chelsea Wolfe o Stephen Brodsky… è qualcosa di nuovo, una avventura sonora da interiorizzare abbandonando ciò che sapevamo prima dei singoli artisti che la compongono. Richiede impegno ma promette tantissimo in potentia. Un disco da scoprire individualmente e intimamente, rimandando le considerazioni e mettendosi in gioco. L’occasione è buona per farlo, ancora una volta, se siete indecisi c’è sempre lo streaming di Bandcamp.

Dove la terra finisce (ed inizia la musica)

A chiunque sospetti che la musica di un certo tipo (estrema) sia finita e non abbia più nulla da dire farei ascoltare gli Storm{O} da Feltre. E’ appena uscito il loro nuovo “Finis Terrae” e quale occasione sarebbe migliore per cominciare a conoscere il gruppo? Dopo due dischi che li hanno messi all’attenzione generale, il terzo non tradisce le attese. Hardcore moderno, tirato, nervoso, teso come una lama e violento. Quasi sicuramente figlio imbastardito di uno di quei gruppi, i Converge, che molto tempo fa mi sembrava rappresentassero il futuro della musica. Dalla loro fondamentale lezione gli Storm{O} sono partiti, per rileggere la materia sonora in chiave estremamente personale, con il cantato in italiano e i testi sempre ispirati e mossi da una passione fiammeggiante ed autentica.

L’evoluzione continua, anche in questo lavoro. Sinceramente: vedere dei ragazzi (l’età media è comunque relativamente bassa) che se ne escono da una provincia della quale i più non hanno nemmeno mai sentito parlare (con Biella è lo stesso discorso) con una simile proposta ed un simile livello di ispirazione, passione e, diciamolo pure, preparazione tecnica è qualcosa che lascia intravedere delle possibilità di vita per il genere tutto.

Il disco è una mazzata in piena faccia. Il disco, però, non è solo una mazzata in piena faccia, si profilano all’orizzonte degli scenari evolutivi interessanti: basta sentire le aperture quasi industrial di “Niente” (il cui titolo ricorda una storica canzone dei Negazione, ma musicalmente mi ha riportato alla mente qualcosa dei Jesu/Godflesh più tesi) e negli episodi maggiormente ragionati come “Progresso”. Il resto è furioso, il resto sono schegge impazzite ed incontrollabili di rabbia, dissonanze, accelerazioni e rasoiate sonore: non ci si protegge dagli Storm{O}, li si lascia passare, si gode dello spettacolo della tempesta e alla fine si contano le ossa per vedere se è ancora tutto a posto. Impossibile restare indifferenti di fronte all’enorme lavoro compiuto dalla batteria (vero punto di forza del lavoro), di fronte alla coesione generale di un gruppo che rimane tra i fari illuminanti (ed illuminati) della scena italica.

Se proprio devo muovergli una critica riguarda la produzione, in quanto spesso il cantato nella lingua madre diventa, nell’aggressione generale, quasi intelleggibile sommerso com’è da tutto il resto. Non è una grave pecca perché sono sicuro che, testi alla mano, sia possibile capire ogni parola, tuttavia si perde un po’ di quella immediatezza nel messaggio che dovrebbe essere tra le caratteristiche base del genere. Altri appunti al disco non mi sento di muoverne: gli Storm{O} tornano a presentarsi come una delle più convincenti e belle realtà in ambito di musica estrema in Italia, consolidano la loro posizione e gettano un paio di idee sul piatto per il futuro. Dal prossimo lavoro sono auspicabili maggiori spinte evolutive nel suono, ma per ora il disco funziona alla perfezione e, al momento, non si può chiedere di più.

Ho ancora un rammarico personale: quando passarono da qui, in un concerto nell’unica vera (e meritevole) sala da concerto locale (l’ Hydro) , si esibirono assieme ai locali O (che colpevolmente non avevo citato nel post sulla scena locale) e furono massacrati da suoni pessimi che ne rovinarono irrimediabilmente la prestazione riducendola ad una poltiglia sonora dalla quale a mala pena si scorgevano le potenzialità della band. Spero di poterli rivedere presto in un contesto migliore: gruppi come questo necessitano assolutamente di avere fonici in grado di farli rendere al meglio per non vanificarne il talento.

Il futuro della musica II

chelsea
Deranged for rock’n’roll

Se mi avessero chiesto una quindicina di anni fa quali gruppi avessero in mano il futuro della musica, avrei risposto senza esitazioni: Neurosis, Tool e Converge. Mi fa piacere che oggi quei gruppi siano ancora in relativa buona salute. Solo che, nel frattempo, Tool e Neurosis sono diventati gruppi dalle tempistiche mastodontiche, un po’ per narcisismo e un po’ per necessità e non si intravvedono in esse i margini di evoluzione del suono che sembravano esserci un tempo. Circa i Converge, godono di buona salute devo dire, “The dusk in us” è un disco che tiene altissimo lo standard qualitativo dei loro lavori. Con qualche momento di stanchezza relativa nella loro discografia (chi ha detto “No heroes”?) e qualche distrazione di troppo di Kurt Ballou, impegnatissimo sul fronte produzione, sono forse quelli che hanno retto meglio il passare degli anni.

Ma oggi, sinceramente, cosa tiene viva la musica? Si fa prima a dire cosa la ammazza: i maledetti talent show, la maledetta mania del tutto e subito di porcherie come spotify, i concerti faraonici dal prezzo impopolare ed ingiusto: cose come queste. Io mi sento braccato da queste cose, ma non mi hanno ancora preso. E resisterò fino alla morte.

Poi in un mese escono tre dischi come l’ultimo dei Tool, “Free” di Iggy Pop e “Birth of violence” di Chelsea Wolfe. Non può che essere un segno che non sono solo nella mia battaglia. Sul primo posso accettare obiezioni, e qualcuna è venuta in mente anche a me, sugli altri due no.

Lo sapevo che ascoltare un brano in anteprima su you tube sarebbe stata una mossa sbagliata, infatti con le altre anteprime ho resistito. Ma era talmente tale tanta l’attesa di lasciare entrare nelle orecchie qualcosa di nuovo firmato da CW che per liberarmi della tentazione ho dovuto cedere. Ero già consapevole dell’errore: “The mother road” non mi fece una bella impressione, invece ascoltata su disco mi ha ammaliato, per un attimo ho quasi pensato che Siouxsie si fosse appropriata del microfono, e da lì in poi è stata solo adorazione per questa fantastica artista californiana che ben difficilmente si fa cogliere in fallo con lavori che siano anche solo meno che coinvolgenti.

Un disco intimo ed intimistico. L’ho ascoltato per la prima volta nell’isolazione di un abitacolo, col sole che giocava a fare l’ effetto serra per farlo sbocciare meglio. In autostrada e stanco dopo una giornata di lavoro. Mi ha tenuto sveglio ed attento pur cullandomi. Perché, in questo lavoro, è questo che fa Chelsea: da una parte ti avvolge e ti riscalda con poche note acustiche e con la sua voce meravigliosa e, quando hai abbassato la guardia, inietta il ghiaccio nelle tue vene, l’inquetudine nell’anima, il buio nei pensieri.

Nonostante questo, ti fa sentire maledettamente vivo: allontana la solitudine con un soffio di grazia inaudita. Senza nascondere la realtà, getta un ponte in direzione dell’ascoltatore, offre una possibilità di salvezza nella condivisione. Almeno questa è la sensazione che ne ho ricavato fin’ora perchè mancano ancora svariati ascolti per cogliere quest’ opera in modo maggiormente compiuto. Mi manca di addentrarmi meglio nei testi, di scorgere i dettagli sonori sfuggiti e mi manca di far germogliare le canzoni con attenzione amorevole negli organi sensoriali.

Comunque appare assolutamente chiaro che chi riesce ad evocare tale sensazioni, chi riesce a dipingere scenari musicali di una tale intensità ha in mano il futuro della musica. E non si può fare a meno di volerle bene.

Non escludo il ritorno

Califano

Non mi piace Califano, ma quando ho saputo che sulla sua tomba c’era scritto “non escludo il ritorno” ho pensato che la citazione fosse perfetta per tornare dopo mesi di silenzio… che questo significhi qualcosa non lo so. Amo il blog e mi piace scriverci, ma sono terribilmente a corto di: tempo, ispirazione, vista, energia, pazienza e altro.

Quindi i mesi se ne sono scivolati via dall’ultimo post su Marco Mathieu, per quello che ne so io le sue condizioni non sono migliorate. Io non mollo la speranza: ora e sempre tieni duro Marco!

Detto questo sono tornato su queste pagine solo per lasciare la classica classifica di fine anno, ammesso che qualcuno la voglia leggere e che a qualcuno interessi.

10. ALL PIGS MUST DIE: “Hostage animal”

Una sana dose di violenza messa in musica. Io ne ho sempre bisogno, un canale per la rabbia, per la tensione che si accumula, finalmente senza che ogni riff sia telefonato e prevedibile. E Ben Koller, un batterista enorme.

9. IRON MONKEY “9-13”

Un altro gruppo che non scherza. Vent’anni cancellati, un cantante di meno con tutti i dubbi che possono venire e che si allontanano via via con l’ascolto di un disco marcio e roccioso al tempo stesso. Ritornare sulla scena senza tradire il proprio passato non è cosa da tutti.

8. Telekinetic Yeti “Abominable”

Grande esordio per questi americani dagli amplificatori fumanti, una piacevolissima sorpresa e nebbia aromatica che si alza da ovest.

7.Crystal Fairy “Crystal fairy”

Dopo aver amato le Butcherettes di “A raw youth”, potevo perdermi il supergruppo con i Melvins, il tipo degli At the drive in e Teri Gender Bender? No. Il disco è grande, cresce con gli ascolti e surclassa alla grande l’ultimo Melvins fin troppo influenzato dal risibile nuovo bassista che si spera venga issofatto licenziato dal duo. Forse un progetto nato morto, chissenefrega.

Se vi fosse venuto il dubbio ascoltando “A walk with love and death” no non si sono rincoglioniti e sì ritorneranno alla grandissima!

6. Godspeed You! Black Emperor “Luciferian towers”

Il Canada dovrebbe essere fiero di questi suoi figli sovversivi e traboccanti di lirismo e magia (dal vivo poi sono da lacrime a scena aperta). Una conferma incontestabile.

5. Electric Wizard “Wizard bloody wizard”

Dorset will rise again. Dopo innumerevoli cambi di formazione, tour svogliati e quasi casuali nelle tempistiche e nei luoghi, dischi quasi sporadici e quant’ altro, alla fine ce la fanno sempre a tornare. Io ne ho bisogno di Jus Oborn e anche di Liz Buckingham, del loro immaginario satanico settantiano da fumetto porno di infima qualità, delle loro fumate bianche, delle loro SG vintage e degli amplificatori in fiamme. Al diavolo ogni remora, ci vediamo all’inferno: portate le birre, farà caldo!

4. Converge “The dusk in us”

Altro giro altro ritorno. I Converge sono dei grandissimi e quando, tra mille impegni, trovano il tempo di far uscire un disco nuovo è sempre una festa per le orecchie di chi scrive. Assolutamente brutali, certamente intensi, incredibilmente mai banali. La perfezione del concetto di “evoluzione sonora” assieme ai mai troppo lodati Neurosis. E Ben Koller, assieme a Nate Newton, Jacob Bannon e Kurt Ballou. Non serve altro.

3. Edda “Graziosa utopia”

Volevo metterlo come menzione speciale per il disco più ascoltato dell’anno. Invece no, ho deciso di trovargli una posizione nella classifica e basta. Questo è il disco italiano dell’anno, almeno per quanto mi concerne. E non mi importa se non c’entra nulla con gli altri. Le canzoni sono geniali e sorprendenti, i testi irriverenti e a doppio fondo. Lui rimane una spanna sopra la melma e una persona assolutamente grandiosa. Come si fa a non volergli bene?

2. Unsane “Sterilize”

NYC. Il suono dei nervi tesi: urbano, opprimente, denso e viscoso. Se Chris Spencer, Dave Curran e Vincent Signorelli avessero deciso di smettere dopo il pestaggio di Chris non avremmo mai avuto “Visqueen” e “Sterilize”, non avremmo avuto concerti intensi e devastanti come quello del Magnolia lo scorso ottobre. Una telecaster nera dal manico violentato fino a spremerne sangue. Enormi.

1. Chelsea Wolfe “Hiss spun”

La sacerdotessa dell’ inquietudine rilascia il suo disco più intenso. Rimpinzata ad oscurità e tenebre, avanza strisciando verso l’ascoltatore ammutolito dai suoni grevi nell’aria. Non lascia respiro, stringe le spire, smuove la tela, corre in contro al baratro. E lo fa con una grazia inaudita. Io l’adoro.

In calce un ringraziamento a chi passa di qui dopo tutto questo tempo.

Vi regalo due chicche forse mezzo sconosciute:

Di una vi ho già parlato ( e lo ha fatto anche Neuroni): LOMAX

Una incontrata dal vivo al concerto di un gruppo di amici: TOTEM

Avessi un’etichetta li farei firmare io…

“Questo è per i cuori che ancora battono”

Forse sembrerà strano, eppure è un verso dei Converge (“First light/ Last light” da “You fail me”)

L’ Hardcore è musica viscerale, ferale, istintiva. Nata dal disagio e dall’iconoclastia del punk nichilista eppure consegue ad essa, si ribella alla tabula rasa mutandosi in costruzione, tentando di rimettersi in moto, come un cuore che, dopo una violenta scossa di defibrillatore, riparte più determinato di prima. Si nutre di rabbia: di quella positiva, di quella che fa reagire. Di quella che fa immaginare un mondo diverso e migliore, libero dal peso dello sfruttamento e dalle diseguaglianze, che lascia spazio (finalmente) ai sogni ed alle utopie.

Non sempre il mezzo, la violenza a lungo invocata, può essere condivisibile tuttavia, se si limita alla musica, non può far male.

Sebastian invece ama un’altra musica: il Jazz. Il Jazz è soprattutto comunicazione, ad un livello più ancestrale e profondo delle parole, una comunicazione fatta di musica.

Avede mai visto un musicista sorridere mentre un altro suona? Ebbene è probabile che il primo abbia appena accennato a qualcosa di spiritoso, solo che non l’ha fatto a parole.

E Sebastian ama Mia. Lei è bellissma, lui brillante e pieno di passione: questo la conquista e questo apre le porte al loro sogno. Due ribelli con una causa.  Fatta di stelle proiettate nel cielo, della stessa materia di cui sono fatti musica e teatro. Il sogno è la loro storia, bohemien ed idilliaca, in una città fatta di stelle che non si incendiano e non cadono, ma che non per questo non portano con loro dei desideri.

Qualcosa di eterno sovviene all’anima sotto le stelle. Qualcosa che, nonostante tutto, resiste, una luce che non si può spegnere, anche se vive solo di un fuggevole sguardo al passato.

Una luce che ferisce per le possibilità perdute, per gli orizzonti che non tornano mai. Una luce che, ciò nonostante, freme per non consumarsi e continua a baluginare, per quanto triste e afflitto sia ora il suo brillare. Un cuore che batte e la sostiene, un motore occulto di una passione sommessa che arde come brace sotto strati e strati di cenere, gettati crudelmente dal mondo e dagli eventi che ora li separano.

Seb e Mia si sono persi inseguendo i loro sogni separatamente ma, prima di questo, hanno sognato tanto assieme.

Su uno schermo, in qualche cinema, il loro sogno vive ancora. In cinemascope su una superficie argentata ed intrisa di fascino, nei ricordi di chi ha assistito ai loro sguardi.

Il sogno finge d’essere immortale, si ammanta di lirismo e di struggente nostalgia. Serra la gola in un nodo che si sente appena eppure toglie un poco il respiro.

Soprattutto il sogno sarà in perenne lotta per non farsi disarmare dal quotidiano, per non farsi imbruttire dalla realtà, per non farsi inghiottire, lui che può, in una quieta rassegnazione.

“L’innamorato, come il poeta, è una minaccia per la catena di montaggio” Rollo May “Love and Will”.

The interview

Unimog
Unimog

Quello che potete leggere qui sotto è un’intervista che ho recuperato in una oscurissima webzine che, non si sa come, è riuscita ad intervistare un oscuro rappresentante del bassistico duo. Non è chiaro molto alto al riguardo e mi scuso con i lettori non in grado di leggere la lingua inglese, ma tradurre tutto sarebbe laborioso e, ammettiamolo, non ne ho poi molta voglia: probabilmente ci sono anche degli errori dentro ma quelli non dipendono da me… onestamente non so nemmeno bene chi possa essere interessato ma tant’è…

Unimog is an italian band. We don’t really know much more than that… two people playing “music”. The word is quoted because you can’t really call it that way and even try to describe what they play gets difficult, what we heard was basicly a distorted bass-line and the kind of vocals you can expect to came out of a cave. Low distorted tunes, primordial growls but fascinating in some way. Don’t even ask how we get in touch with them, they aren’t exactly familiar with what you can call interviews and stuff like webzines, just enjoy the chat and hope not to hear them play. Ever.

Q: Would you like to introduce the band? A: Well we have known each other since more or less a lifetime ad at a certain point we just grab our basses and raised the volume. I don’t know if this could be called a proper “band” we just do what we feel like and obviously we don’t care. Most of the time it’s just us jamming for an endless time. And don’t think about complicated stuff, because one starts playing a riff and the other one follows adding what he feels like to the main theme, so our so-called “jams” are nothing serious, we have respect for those who jam the right way (laughs).

Q: What about the band’s name? A: It is a off-road vehicle made by Mercedes-benz. We prefer the 70’s vehicles to be honest, the ones without all that electronic shit, they were so great. Nowadays there’s too much electronic stuff everywhere, even in music, and we’d like to react going the other way with what we play, I don’t really think we will ever sound like much modern bands do. To hell with pro-tools! (laughs) We decided to call ourselves like that because we like to go outdoors where noone usually go, and that vehicle can bring you there, pretty much like when Kyuss used to play in the Death Valley, what we dreamt about was playing in a rather inaccessible place.

Q: And where do you usually play? A: It depends on how high the volume can be! Usually we play in one of our places at a low volume, but when it becomes necessary to make some serious noise we just rush in a workshop. In a workshop? Yeah, we know the right people to do that.

Q: Before you were talking about Kyuss, what artists have influenced you? A: Kyuss were absolutely among those who had a leading role in influence what we do. It’s always a matter of attitude and, of course, of the way they sound. I could say that Sunn 0))) are perhaps the biggest influence, great people and deep, slow and low-tuned  sound. Dark Throne are another if not for the music, for sure for the attitude and for doing what they want and what they feel. Then I can’t forget the Melvins, perhaps the biggest example of indipendence in today’s music… and tons of other bands like Neurosis, Converge, Electric Wizard, Sleep, Winter and, what the hell, the first six Sabbath albums!!! (laughs)

Q: But you don’t sound like any of them, do you? A: No. (laughs) Maybe a bit like Sunn 0))), but it’s a bold statement, man.

Q: What do you think Unimog is all about, then? A: Damned if I knew! (laughs) We are just a couple of friends doing what we like. If I wanted to be pompous I’d say we are about freedom of experssion, darkness, heavy music, but that’s bullshit and I don’t believe it at all. We are just free and we can’t really take any kind of label on what we do. We don’t like to discuss about it, we don’t like to give explanations or anything, that’s it. This is not something made to get a contract or to please people, like it or not. If it is so… why are you answering now? Because you were so kind to ask for an interview and because I felt like it!!! You know, usual things (inclucing people and music) are so damn boring, and I haven’t answered an interview yet!!!

Q: Will you ever record anything? Will you ever play live? A: Uhm… I don’t know, how did you get to hear us? I won’t say that… that’s right, you get the point. As I said before we do what we feel like, we live the moment, you know? If we will be able to record anything satisfying and the moment is right, then it could happen (there might be some bootleg recordings, I don’t really know). And we even played live once. It was a kind of a festival and a friend of ours asked if we’d like to join in. He had to ask several times, really (smiles)… but finally we played and had a good feeling out of it, it was just bass and vocals but i guess we scared the shit out of someone! There was no plan, we just dropped in and play, we preferred the version with “vocals” so there was a bass only. Some said we sounded like an elephant, others, linstening to our rehearsals, said like a dinosaur, we appreciated that! Horns up!

Back in the saddle!

Chi segue questo blog sa della mia partecipazione al dramma che ha colpito i Baroness sulle strade europee lo scorso agosto. John Baizey, cantante e chitarrista del gruppo, è stato, insieme all’autista, quello più colpito dal trauma successivo all’incidente, riportando diversi danni fisici che hanno rischiato seriamente di metterne a repentaglio la carriera. Credo che, come testimonia il video che riporta l’esibizione dei Converge alle celebrazioni per il centesimo numero del magazine di musica estrema americano decibel, la guarigione proceda speditamente nella direzione di un pieno recupero.

Tre giorni fa infatti il nostro è salito sul palco dell’ Union Transfer di Philadelphia dando vita ad una emozionate versione di “Coral Blue”, assieme agli headliners, riuscendo anche idealmente ad unire due compagini in grado di dar vita ad altrettanti lavori altamente significativi usciti lo scorso anno. Ma questi sono dettagli: l’importante è che, dopo tante storie finite male (Randy Rhoads, Cliff Burton, Duane Allman e Ronnie Van Zant sono solo i primi che mi vengono in mente), finalmente qualcuno riesce a sottrarsi alle grinfie della sorte e a rimettersi in piedi, sia pure dopo lunga convalescenza e riabilitazione. Direi che, ogni tanto, una storia che finisce positivamente non può che rinfrancare il morale, quindi forza John e forza tutti quanti: il resto della vostra vita vi aspetta e le cose positive succedono, anche se è sempre più difficile crederlo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=o-kmNN0evyk&feature=player_embedded]

P.s.: No, non sono completamente impazzito… ogni tanto capita anche a me, ora lo sapete!

La maledizione dei dischi dell’anno continua!

Abracadabra
Abracadabra

Analizziamo i fatti con calma: un altro anno sta per essere lasciato alle spalle… ed è stato un anno personalmente iniziato male, ma nel quale il finale potrebbe riservare delle sorprese. Ciò che non dovrebbe sorprendere è che sono le 17 e 24 minuti di un martedì freddo e sono chiuso in una camera a guardare il soffitto senza lo straccio di un’idea su cosa scrivere per riempire lo spazio vuoto di una pagina digitale su questo blog. Non dovrebbe sorprendere nemmeno che, alla fine, ricada nell’errore di proporre la classica lista dei dischi di fine anno, praticamente una tradizione di ogni musicofilo che si rispetti.

A cosa serve? Non so… a me a ricordarmi dei dischi che ho amato durante l’ultimo anno e anche a disperarmi cinque minuti dopo averla postata per aver dimenticato questo o quel gruppo, una sorta di esercizio mentale, quasi masochistico. A voi a confrontarvi con le scelte del sottoscritto se trovate un senso nel farlo, altrimenti a riempire i commenti di pernacchie ed insulti dei quali vi sono grato fin d’ora.

Esordio dell’anno: Black Moth: “The Killing Jar”– Mi sono affezionato a questi ragazzi albionici prodotti da Jim Sclavunos… mi piace il loro rock nato dagli Stooges e dai Black Sabbath, pieno di buone premesse per il futuro. We hail you… Black Moth!!

…appena fuori dalla top ten: Enslaved:”Riitiir”– Decisamente un gruppo dal quale non si può prescindere questi norvegesi di Bergen, sia nel loro retaggio vichingo e blackmetallaro degli esordi che nel loro attuale viaggio introspettivo e progressivo con destinazione le nebulose e lo spazio interstellare ma senza dimenticare la madrepatria. La formula si consolida!

10. Unsane: “Wreck”– Io sono uno di quelli che si portano il gruppo newyorkese nel cuore, che si farebbe tatuare da Vinnie Signorelli, guidare per la città da Chris Spencer e che prenderebbe lezioni di basso da Dave Curran. Il loro ritorno non può che essere salutato ossequiosamente su queste pagine. Urbani, disturbati e con i nervi a pezzi: questi sono gli Unsane!

9. Melvins Lite: “Freak Puke”– Un’altra leggenda per il sottoscritto che ritorna in una veste inedita e “Lite” con Trevor Dunn (John Zorn, Mr. Bungle e Fantômas) al (contrab)basso. Giocano con il jazz ed i suoni vintage, con le spazzole e le batterie d’annata… possono legittimamente ostentare un menefreghismo senza limiti e rimanere fedeli a loro stessi, un gruppo al di sopra del bene e del male, un matrimonio artistico Dale/Buzz che supera agevolmente i 25 anni… Hats off, Mr. Rip-off!

8. Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”– Sovversivi dalla progressione facile, colmano rapidamente anni di silenzio con due canzoni maratona e due umanamente più corte. Personalmente mi sono mancati. La magia attraversa il tempo e si rinnova, fino al prossimo posto di blocco…

7. Deftones: “Koi No Yokan”– Un altro ritorno, anche se non avevano mai abbandonato le scene, però un disco di questa portata mancava almeno dal disco omonimo se non proprio da “White Pony”… un ritorno alla forma di un tempo che scalda il cuore e lascia spazio ai sogni. Intensi ed emozionanti, così ce li ricordavamo e così sono tornati…

6. Baroness: “Yellow And Green”– Con un sentitissimo augurio per una pronta ripresa dell’attività spezzata da uno sciagurato incidente stradale lo scorso agosto, accogliamo nella top ten il gruppo georgiano. Un doppio CD, che in parte tiene conto del retaggio sludge, ma che sviluppa maggiormente la parte prog e sperimentale soprattutto nell’episodio giallo…

5. Pallbearer: “Sorrow And Extinction”– Un esordio in classifica è cosa rara, ma onore al merito: il doom non ha mai avuto così bisogno di forze fresche e di dischi come questo. Se è difficile innovare in questo contesto è altrettanto vero che la tradizione, se trattata con personalità ed intelligenza, continua ad avere il suo fascino!

4. Swans: “The Seer”– In tema di ritorni fruttuosi un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Swans di mr. Michael Gira, che qui si avvale addirittura della vecchia compagna Jarboe. “The Seer” è il disco della compiutezza degli Swans, dove tutte le anime del gruppo trovano spazio e convivono in armonia, dalle inquietudini industriali alle incursioni acustiche. Un lavoro mastodontico e impegnativo per chi l’ha concepito e per chi ne dovrà fruire… ma con un fascino enorme.

3. High On Fire: “De Vermis Mysteriis”– Matt Pike e soci sono probabilmente fra i gruppi fieramente heavy metal quelli più sottovalutati. Questo disco ha guidato ha lungo la classifica per quest’anno prima che i due nomi che seguono mettessero a segno due dischi superlativi. Tuttavia ciò non deve distrarre dal considerare il lavoro di Matt e soci: nonostante l’età di servizio elevata se l’heavy metal ha un futuro lo si deve a loro.

2. Converge: “All We Love We Leave Behind”– Ancora una volta sul podio, con i Converge è inevitabile. Sono un gruppo decisamente troppo avanti per personalità e coesione, in grado di modellare l’hardcore come nessun altro può anche solo ambire a poter fare. Dietro la furia, la passione e la perizia rendono questo gruppo inarrivabile.

1. Neurosis: “Honor Found In Decay”– Direte che sono di parte e io scrollerò semplicemente le spalle. Questo è IL disco dell’ anno. Dopo che la loro evoluzione sembrava essere giunta ad un punto morto, hanno ripreso in mano la loro carriera con una maestria incredibile e se ho parlato forse in toni un po’ tiepidi al tempo di questo disco era solo perché bisognava farlo crescere con gli ascolti. Recuperano venature sonore dalle carriere solistiche del duo Von Till/Kelly, si aprono solo all’apparenza ad una maggiore accessibilità e ribadiscono la loro ispirazione… adesso non resta che augurarsi il loro imminente ritorno dal vivo, con la curiosità del dopo Josh Graham…


Converge: “All We Love We Leave Behind”

Da Salem, Massachussetts, non provengono solo le streghe ma anche:

Jacob Bannon

Jacob Bannon: Cantante, ma sarebbe meglio definirlo martire vocale, nonchè artista poliedrico dal raffinato gusto grafico.

Kurt Ballou

Kurt Ballou: Chitarrista, ma sarebbe meglio definirlo un’inesuribile riffmachine, dopo aver lasciato il suo lavoro da ingenere biomedico (!!!) ha iniziato una brillantissima carriera da produttore musicale nei suoi GodCity studios, producendo decine di band ed anche, non ultimo, l’ultimo lavoro degli High On Fire.

Nate Newton

Nate Newton: Bassista, iperattivo sul palco e fuori dal palco, vanta, tra le sue cooperazioni, gruppi come gli oscuri Doomriders o gli inclassificabili Old Man Gloom con Aaron Turner ex-Isis.

Ben Koller

Ben Koller: Battersta, selvaggio ed ipertecnico, mulina le stecche come pochi altri e scatena terremoti emozionali incontrollabili. E’ anche noto per la sua frequentazione di altri loschi figuri come Acid Tiger e All Pigs Must Die.

Insieme formano i Converge, gruppo che ha contribuito a dare un volto nuovo ed una nuova definizione del termine Hardcore, con cui si suole indicare la frangia più estrema e radicale del movimento punk. Perché è assolutamente innegabile la loro appartenenza a questo genere: esso rappresenta l’ossatura del loro suono, ma loro sono gli organi interni, il cuore, il cervello, i polmoni ed i muscoli. Sono quella forza oscura che ti afferra per la nuca e ti costringe a guardare in faccia alle miserie umane senza distogliere lo sguardo e senza poter ostentare indifferenza, sono la stretta allo stomaco che ti obbliga a reagire, a non accettare soprusi e tradimenti, umiliazioni e sconfitte, sono la resistenza strenua all’imbarbarimento e al conformismo.

Il loro nuovo lavoro si intitola “All We Love We Leave Behind” ed è l’ennesima riconferma di quanto scritto sopra. Composizioni compresse, intense e vibranti anche quando, raramente, allentano la presa per farti metabolizzare quello che ti stanno trasmettendo. Queste canzoni rappresentano IL veicolo per la rabbia, in una recente intervista Bannon stesso si dice assolutamente non incline ad allentare la presa, se qualcuno stesse pensando che con l’età la furia si sarebbe placata si sbaglia di grosso: poiché più ci si guarda intorno più si trovano motivi per fomentare l’ira. Difficile non credergli, difficile non affermare che la conferma di tutto questo si trovi nel loro nuovo lavoro.

Loro sono qui, oggi più che mai. Loro sono qui e la riaffermazione del loro modo di essere, del loro stile, della loro attitudine passa attraverso un mondo in declino che, per giunta, non prova il minimo rimorso o vergogna di se stesso. Ed ogni nuova sfida, ogni traguardo deve essere conquistato con la passione e l’orgoglio, con la dignità e con l’amore, anche quello che siamo costretti a lasciarci alle spalle.

Ora dopo aver parlato del lato musicale grazie al download gentilmente offerto assieme all’edizione fisica, attendo di ricevere anche la medesima per poter fruire anche del lato visivo del disco. Se potete (e volete) accaparratevi l’edizione de luxe, ci sono più brani e vale la pena.

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