2020

10. Jesu- Terminus.

Avevo lasciato un po’ perdere di seguire quello che a tutti gli effetti si può ben considerare uno dei massimi padri della musica estrema, Mr. Justin Broadrick dopo l’ ultima uscita di questo stesso progetto denominato Jesu. Premesso che i primi due capitoli erano di una qualità indiscutibile per quanto mi riguarda, successivamente hanno cominciato a venirmi a noia, a sembrarmi meno ispirati e, per quanto concerne l’ultimo capitolo, a svoltare pericolosamente verso un addolcimento sonoro tale da farli diventare stucchevoli. Onestamente dopo 8 anni non sapevo cosa aspettarmi. L’ho comprato un po’ per supportare il notevolissimo negozio di dischi di Ivrea discoccasione e un po’ per nostalgia. Da principio mi sono detto subito che era una palla, fino a sentirmi davvero infastidito dall’uso di certi effetti vocali (“Consciousness”). L’effetto è durato un altro paio di ascolti, poi piano piano il disco ha cominciato ad insinuarsi e adesso mi ritorna in mente a spezzoni e sono arrivato ad assimilarlo. Se volete farvi un’idea di come suona guardate la copertina: abeti, nebbia, neve. Un inno al silenzio, al morbido sprofondare dei passi tra le cotri candide: lento, leggero eppure intenso con scariche elettriche ad appuntare il maestoso paesaggio. Sono quasi arrivato a sopportare anche la molestissima effttistica di cui sopra, credo che meriti dunque una certa attenzione: bentornati.

9. Scorched Oak -Withering Earth.

Non so voi ma io sento il bisogno di omaggiare i Black Sabbath con un disco di loro adepti almeno una volta all’anno. Fortunatamente qualcosa di decente su questa falsariga di solito si palesa: l’anno scorso i Monolord (sempre corna al cielo per loro!), quest’ anno gli Scorched Oak. Tedeschi, alternano voce maschile e femminile in brani che non indugiano molto sulla lentezza o sulla pesantezza del suono considerato il genere. Si muovono in un’atmosfera decisamente grassa musicalmente parlando ma mantengono un sound dinamico e ricercato (grande merito al batterista che sorregge la struttura alla grande) che li porta a comporre brani dalla lunghezza medio-alta ma non giocata su effetti ipnotici, quanto sulla costruzione del brano a partire dai riff. Decisamente una buona prova, se potete soprassedere ( in questo caso lo si fa volentieri) sull’ originalità a tutti i costi.

8. Mr. Bungle- The Raging Wrath Of The Eastern Bunny.

Altro caso in cui occorre non aspettarsi chissà quale innovazione, anche se da un gruppo come i Mr. Bungle sembra assurdo non aspettarsela. In realtà questo disco è senz’altro la loro uscita più canonica: hanno ripreso un vecchio demo e lo hanno risunato ad anni di distanza con l’aiuto di Scott Ian degli Anthrax e Dave Lombardo degli Slayer. Quello che ne esce è un disco di thrash metal con le palle fumanti, come si diceva una volta. Un superlativo esempio di come i vari Municipal waste, Toxic holocaust e compagnia siano davvero poca cosa rispetto a chi con il thrash c’è nato. Semplicemente questo. Chi si accontenta gode e tanto!

7. Kvelertak-Spid.

Un gruppo che, per molti, ha rappresentato una sana ventata di aria fresca nell’asfittico panorama del metal post 2000, uno dei pochi a uscirsene con qualcosa di personale e ben architettato, una diretta evoluzione di quello che c’era prima ma con un valore aggiunto importante che rendesse loro il merito di aver codificato un nuovo stile. Purtroppo, dopo il botto del primo disco (assolutamente ottimo), la conferma del secondo, comunque non all’altezza del primo, il terzo disco suonava decisamente sottotono e diversi punti interrogativi si palesavano all’orizzonte per il proseguio della loro carriera. Dopo aver cambiato formazione si ripresentano invece in una forma più che buona, rilasciando un disco fresco, in continuità con i primi due, ma soprattutto in grado di restare in mente e di esaltare in diversi passaggi da headbanging e corna al cielo. Una rimonta come se ne vedono poche.

6. Zolle-Macello.

Unico gruppo italiano della lista (forse), unico duo e unico disco (quasi) strumentale. Di loro ho già detto tanto, mi hanno anche fatto l’onore di concedermi un’intervista. Sono ruspanti, genuini e combattono dalla bassa lombarda a colpi di riff, disegni (animati), salami e vino. Dall’alto dei loro trattori nonostante i ritardi in sala prove… avete bisogno di altro?

5. Deftones-Ohms.

Ennesima prova per il gruppo di Chino Moreno e Stephen Carpenter. Ennesimo bel lavoro, anche loro in rimonta vista la prova un po’ sottotono (per i loro standard, sia chiaro) del disco precedente. Da un disco dei Deftones chiunque dovrebbe ormai sapere cosa aspettarsi, più che altro la domanda da porsi è quale forrma daranno questa volta alla loro proposta, come saranno in grado di miscelare i vari elementi che contraddistinguono la loro musica e quanto sapranno essere coinvolgenti nel farlo. Bene, in questo caso, tutto riesce alla grande, sono tornati a dei livelli più che buoni con un disco che a pieno titolo entra in molti listoni di fine anno. Grazie: la musica ha bisogno di un gruppo come voi.

4. Nothing-The Great Dismail.

Questa è storia recente, come potete leggere dal post precedente a questo. Un disco ispirato e avvolgente, a tratti intriso di inquietutine e sogni. Sanno far viaggiare l’immaginazione per poi abbatterla con bordate ad un volume smodato. Un lavoro che cresce con gli ascolti e si perde nel cielo notturno, affascinante e assordante, chilometri al di sopra delle strade deserte.

3. Celestial Season- The Secret Teachings.

Qui gioco in casa, “Solar Lovers” è uno dei miei dischi preferiti di sempre, anche se giocare in casa a volte è più difficile che in trasferta. La pressione è molto maggiore e qui era alle stelle: era questione di rimettere in gioco i propri sentimenti, di confrontarsi con un passato impossibile da eludere. Missione compiuta, se parliamo di essere all’altezza del proprio passato, il resto lo dirà il tempo e gli ascolti accumulati. Ovviamente ho preso tutto il cofanetto “The Doom Era”, non c’era nemmeno da chiederlo.

2. Human Impact- S/T.

Altra vecchia conoscenza: Chris Spencer, che posso farci se ben pochi giovani sono in grado di smuovere le mie emozioni? Messi in soffitta gli Unsane, ecco gli Human Impact esordire praticamente assieme alla pandemia. Il disco pesca a piene mani nel sound degli Unsane ma riesce a rivisitarlo e a mettere in evidenza diverse sfaccettature interessanti che nella band madre non emergevano vista la natura monolitica della loro proposta. Come già i Celan, anche gli Human Impact riescono quindi a ritagliarsi una fetta di personalità distinta, soprattutto grazie ai tocchi elettronici di Jim Coleman che inseriscono una sfumatura greve e delineano le nuove coordinate stilistiche del gruppo, già dotato di una coesione e comunione di intenti ammirabile e solida.

1 .Coriky-S/T.

Disco dell’anno. Finalmente Ian MacKaye rompe la quiete dei suoi progetti post Fugazi (gli Evens, soprattutto) e torna a scrivere una musica con un grado di intensità finalmente elevato. Non che mancasse la qualità, ma era proprio il trasporto a mancare: gli Evens erano soprattutto la parte calma e riflessiva di MacKaye e della sua compagna, a volte però lo erano fin troppo, al punto che, pur riconoscendone i meriti si correva il rischio di annoiarsi (anche a morte). Nulla di tutto questo qui. Un disco che riprende il discorso dei Fugazi e gli dona nuova linfa e nuove voci, dimostrando che la fiamma non è spenta, il cammino non è finito, l’integrità paga e il cielo non è più il limite.

Alla fine dell’anno giunge la notizia dello scioglimento del gruppo biellese Electric Ballroom. Sinceramente una bruttissima notizia, visto che erano senz’altro uno dei gruppi più promettenti della nostra zona. Lascia l’amaro in bocca che l’annuncio venga dato in concomitanza con la pubblicazione on line delle loro ultime registrazioni. Lasciano con un solo EP all’attivo oltre al disco postumo di cui sopra, con una miriade di potenzialità inespresse, come se questi 366 giorni non fossero già stati pesanti abbastanza. Andate sul loro Bandcamp e abbracciateli idealmente, il disco è gratis.

Gente con ancora qualcosa da dire? Parte 2: Deftones.

Ohms è gia uscito da più di un mese, ho avuto tempo per pensare se acquistarlo o meno. Alla fine ho deciso per il sì. Alla fine anche perché ho tutte le altre uscite del gruppo di Sacramento (che sembra una esclamazione folkloristica che era solito utilizzare mio nonno, con diversi punti esclamativi successivi), sono un loro fan dall’uscita di “Around the fur” e credo che siano uno dei pochi gruppi longevi e con scarsi cambiamenti di formazione rimasti. Già questo di per sé non è poco, nel loro caso poi il cambio del bassista è anche dovuto ad un evento tragico, quindi la sorte nel loro caso ha avuto un corso beffardo: si narra infatti che Stephen Carpenter abbia avuto la possibilità di imparare a suonare la chitarra a causa di un incidente in skateboard (che con i dovuti rimborsi servì anche a comprare l’attrezzatura) e sempre per lo stesso motivo persero il loro bassista storico Chi Cheng.

Nonostante questo hanno tirato avanti dagli anni ’90 ai giorni nostri. Ingiustamente, fino a quando il fenomeno è durato, accostati al movimento del cosiddetto nu-metal un po’ per il periodo storico, un po’ per certe assonanze stilistiche (chitarroni ribassati, uso della voce e groove ritmici) hanno saputo guardare oltre e rinnovarsi, con alterne fortune fino ai giorni nostri. Solo per questo mi verrebbe da dire: avercene.

Ovviamente non è tutto così perfetto, almeno un paio di episodi debolucci nella loro carriera sono indubitabili: “Saturday night wrist” e il disco precedente a questo “Gore” suonano un po’ sottotono nonostante alcuni picchi notevoli a livello di singoli episodi siano innegabili (io continuo ad avere un debole per “Phantom Bride” per esempio), anche “Diamond eyes” girava un po’ su regimi bassi per i loro standard. Quindi il dubbio se fosse la pena di acquistare il nuovo “Ohms” lo ritenevo legittimo.

C’è da dire subito che i loro punti più alti in carriera: “Around the fur”, “White pony” e “Koi no yokan” rimangono lontani all’orizzonte, non aspettatevi un rientro su tali livelli. Se sapete ascoltare però alcuni punti a suo favore il nuovo disco li ha. Carpenter continua ad aggiungere corde alla sua chitarra (siamo a nove tipo Matt Pike? il prossimo traguardo forse è lo stickman di Tony Levin con 10 corde) chissà se poi servono oppure no, rimane il fatto che l’ispirazione, pur con qualche calo sembra non esaurirsi e, se a un primo ascolto sembra non esserci un guizzo particolare in questo disco, man mano che si continua ad ascoltarlo, le melodie ti si piazzano in testa e riemergono di quando in quando nei momenti più inaspettati. ho sempre pensato che la capacità di un disco di rimanerti in testa viaggi di pari passo con la sua qualità.

Almeno per decidere se acquistarlo o meno, per decretare il capolavoro è poi necessario andare oltre… spingere avanti il suono, cercare il lampo di originalità, fare emergere la propria personalità e ispirazione. Sulla personalità dei nostri mi auguro non ci siano dubbi, mentre forse quello che manca a questo disco è una spinta innovativa spiccata. Mi viene anche da pensare però che in questo loro hanno già dato in passato: non voglio ripetere le considerazioni fatte per i Tool, ma anche nel loro caso forse non è più il loro ruolo quello di cercare nuove strade, quanto piuttosto quello di ribadire quelle che loro stessi hanno tracciato rendendole grandi ancora una volta: in questo si può dire che siano riusciti. A più di vent’anni dall’ esordio è sempre meglio che vivacchiare all’ombra del loro stesso nome con dischi scialbi e troppo ripetitivi.

Deftones (Fonte Wikipedia)

Quindi riecco l’elettronica, l’amore mai sopito per gli anni ’80 (“Pompeij” sembra uscito dalla colonna sonora di Twin peaks), i chitarroni ribassati, la voce capace di passare attraverso vari registri con scioltezza le ritmiche serrate e sfaccettate, in poche parole i Deftones, uguali a loro stessi ma senza annoiare, senza restare troppo a corto di argomenti. Scusate se è poco.

Postilla personale: il mio attaccamento ai Deftones arriva direttamente da una delle loro canzoni più famose “Be quiet and drive (far away)” , quando uscì arrivai ad ascoltarla quasi prima che il mondo stesso si accorgesse della loro esistenza. Mi colpì come un diretto alla bocca dello stomaco, mi fece quasi male: era esattamente la summa dei miei sentimenti di inadeguatezza, della mia sensibilità instancabile che mi costringeva a ridurre ogni cosa ad un’estenuante riflessione, che mi teneva ingabbiato al tetro me stesso che ero allora. Sentirmi sussurrare “Now drive me far… don’t care where but far” era esattamente ciò di cui avevo bisogno: che qualcuno mi allontanasse dal mio stesso mare dei sargassi perché da solo non avevo abbastanza forza per farlo e sarebbe stato così ancora per tanto tantissimo tempo. Non importava dove ma lontano, da me e da tutto.

Count down to 2017

 

Odio capodanno. Amo l’inverno. E’ il periodo per tirare le somme. Ma è una mera convenzione presa in prestito da anni di calendario gregoriano. Potrei tirare le somme anche a marzo o a novembre, ma oramai ho cominciato a farlo a dicembre e mantengo le tradizioni. Odio le tradizioni, le occasioni, le feste comandate. Non mi servono per ricordarmi le cose. Non le festeggio. Sdegno le convenzioni eppure ne accetto una minima parte per inerzia e per pigrizia. E perché alla fine di ogni anno devo tirarne le somme musicalmente parlando, almeno per ricordarmi di dov’ero e cosa facevo. Capirete cosa state per affrontare. 10 dischi per il 2016. E via.

10. Deftones “Gore”

Tutti hanno fatto a gara a parlare male di questo disco. Spero si divertano. A me è piaciuto. E’ da due tornate discografiche che i Deftones mi emozionano, certo, non come negli anni ’90 ma, a mio parere, hanno riguadagnato smalto e ispirazione. Felice di essere l’unico a pensarla in questo modo. In particolare “Phantom bride”, bellissimo testo e chitarra di Jerry Cantrell.

09. Melvins: “Basses unloaded”

Non potevano mancare. Un gruppo degno di venerazione, anche se ultimamente Dale e Buzz finiscano per timbrare dignitosamente il cartellino ogni anno, in compagnia di questo o quell’amico a me non importa. Penso che i due abbiano abbiano ampiamente dimostrato tutto quello che dovevano e adesso finiscano per mantenersi senza dover cercarsi un lavoro comune. Rimane il fatto che Mr. King, per quanto mi concerne, è secondo solo a Mr. Iommi per la capacità di mettere in fila delle semplici note. Up the Melvins no matther who plays bass!

08. Iggy Pop “Post Pop Depression”

Bowie è morto. E non troverete il suo disco in questa lista, così come non troverete quello di Leonard Cohen. Non li ho ascoltati, non volevo gettarmi nel calderone delle condoglianze, della tristezza, dei riconoscimenti dovuti per due artisti che non ho approfondito come avrei dovuto. Al cordoglio ci ha pensato Iggy e lascio a lui la parola per piangere Bowie. Pensatela come volete, questo disco, per me, è un enorme tributo al Duca Bianco, ripesca l’atmosfera di “The Idiot”, il primo disco della nuova carriera dell’iguana solista, in tutto e per tutto patrocinata dall’amico. E mi faccio beffe di tutti quelli che sono stati delusi aspettandosi che Josh Homme prendesse il posto di Ron Asheton per dare vita ad una nuova incarnazione degli Stooges. Le sue parti di chitarra avrebbe potuto suonarle chiunque, però fortunatamente il disco funziona.

07.In the woods… “Pure”

Un ritorno che non ti aspetti per una band norvegese che ha prodotto uno dei dischi più toccanti degli anni ’90 (“Omnio”) e come al solito non sai cosa aspettarti. Avrebbero potuto rovinare ogni bel ricordo… e fortunatamente non lo fanno, la paura era tanta. Certo a volte il disco suona stanco e fatica a prendere il volo, ma nella seconda parte sembra veramente ritornato agli antichi fasti, lontane le radici black metal, la fiamma del prog è ancora splendente e tutt’altro che autoindulgente. Bentornati.

06. Liquido di Morte “II”

Un disco strumentale? Certo. E’ una rarità che non può mancare, soprattutto se si tratta di uno dei migliori gruppi italiani al momento. Coinvolgenti. Ipnotici. Ispirati. Occorre essere dello stato d’animo adatto ma poi ti trascinano via. Lontano.

05. Kvelertak: Nattesferd

I gufi non sono quel che sembrano. I Kvelertak escono dal pantano (per quanto intrigante) del loro secondo lavoro e ritornano con un disco fresco dal deciso piglio rock’n’roll con pochi fronzoli e molta decisione. In pochi ci avrebbero scommesso eppure il disco vince in freschezza compositiva e trascinante foga. Mischiare black metal e rock può sembrare azzardato e loro ci sono riusciti, riprendere le redini di una proposta che aveva mostrato un po’ la corda solo alla seconda uscita forse era ancora più difficile. Ora non c’è due senza tre. Norway, here we come!

04. Darkthrone: Arctic Thunder

Io e l’altro unimog consideriamo i Darkthrone come i nostri padri spirituali, specialmente dopo l’abbandono della fase blackmetal. A loro non importa nulla e nemmeno a noi. Impegnati nella loro sempiterna crociata per il metal, quello esente da ogni suono plastificato, che ha il suo habitat naturale in qualche bunker svizzero impenetrabile nella prima metà degli anni ottanta, come fai a non stimarli? Quando poi abbiamo visto un fuoco rupestre in copertina, la vicinanza si è accorciata ancora. Rustici e veri, nel senso più genuino del termine, incidono un altro disco alla faccia di chi gli vuol male. E tanto basta.

03. Nick Cave and the Bad Seeds: “Skeleton tree”

Credo di aver scritto già a sufficienza di questo disco quando uscì. E visto che fa della sottrazione la sua forza non mi sento di aggiungere nulla se non che, a ben vedere, dovrebbe essere fuori “classifica” in quanto troppo intimo e sofferto per poter figurare in una cosa così frivola e vacua. Ci finisce solo perché non posso non ricordare un dico come questo. Curioso come la separazione tra lui e Blixa alla fine ce li restituisca entrambi in splendida forma (così ricordo anche “Nerissimo” e il bellissimo concerto a Milano con Teho Teardo).

02. Klimt 1918: “Sentimentale jugend”

Otto lunghissimi anni di silenzio. A me i Klimt 1918 sono mancati e parecchio. Il mio incontro con loro avvenne in una situazione che mi rende impossibile non considerarli vicini al cuore. Durante un viaggio a Vienna, in pieno trip Klimtiano da tre musei al giorno senza tregua, entro in un negozio di dischi (c’erano dubbi?) e scartabellando tra i CD mi viene tra le mani il loro, bellissimo, “Dopoguerra”. L’ho preso come un segno del destino e da allora occupano un posto speciale tra i miei ascolti.

Un doppio CD potrebbe essere una mossa decisamente pretenziosa e forse azzardata. Ebbene non lo è. Il lavoro è inteso, pregno di lirismo e ispirazione, magari non semplice da ascoltare di seguito eppure assolutamente affascinante nel concept (Germania anni ’80 e Roma), soavemente etereo e atmosferico. Non fateci mai più attendere tanto!

01. Neurosis: “Fires within fires”

Mi spiace, nessuna sorpresa. Dopo 10 minuti della loro esibizione bresciana dello scorso 11 agosto avevano agilmente spazzato via qualsiasi cosa avessi visto dal vivo nell’ultimo periodo. Semplicemente questo. Possiedono un’intensità ineguagliabile. Un suono personale e mutevole, senza che per questo si snaturi. Evolvono disco dopo disco, concerto dopo concerto. La loro ultima incarnazione è scarna, essenziale diretta.

Dritta al cuore, dritta all’anima all’origine stessa della musica. Il viaggio continua.

Criticism is a dead scene

Accolgo di buon grado la critica del buon pippo, nel commento che potete leggere nel post precedente. Sai che tu dico? Che alla fine hai ragione.

Erano delle cose che mi andava di esprimere e l’ho fatto, tutto qua, non è che io ci stia tanto a pensare all’opportunità di pubblicare le cose che scrivo qui. Ma voglio precisare una cosa, tanto perché ci tengo che sia chiara. Non ho velleità artistiche alcune. Mi esprimo, sono semplicemente cose che mi viene di buttare in pasto a chi legge, senza sovrastrutture. Se a qualcuno non dicono più di tanto, amen.

Mi piacerebbe poter mantenere il ritmo di un tempo con i post di questo blog, ma sta diventando impossibile, ciò non significa che io non continui ad ascoltare ed ultimamente anche a fare musica, solo non essendo costante mi sembra di essere sempre in ritardo sulle cose, quindi passa il tempo e la pigrizia vince.

Ma ora basta, quindi beccatevi la fredda cronaca dei dischi più meritevoli di questo inizio 2016 secondo il sottoscritto:

Iggy Pop “Post pop Depression”

In ritardo coi tempi dico la mia su questo lavoro dell’iguana di Detroit. Primo: l’iguana è in forma, Secondo: Josh Homme molto meno. Chi si aspetta un disco esplosivo che ti prende alla gola e non ti molla dall’inizio alla fine, lurido e strafottente in pieno stile Stooges rimarrà deluso. La mia chiave di lettura di questo lavoro è che sia il personale tributo di Jimmy a Bowie. Per apprezzarlo dovete avere in mente il paesaggio notturno,  rarefatto ed elettrico di “The Idiot” e nient’altro, altrimenti non ce la farete. Il fatto che ci sia una canzone intitolata “German days” sembra supportare le mie ipotesi. Se ad un primo ascolto restate indifferenti non preoccupatevi: è un passaggio natuarale, poi dovrebbe schiudersi con l’oscurità come un fiore delle tenebre. Dovrebbe.

La presenza di Homme è la vera cosa preoccupante, la sua chitarra è meramente funzionale qui, nessuno spunto personale, niente. Le canzoni funzionano ma avrebbe potuto suonarle chiunque. Lui latita come un fantasma da troppo tempo ormai…

 

Teho Teardo & Blixa Bargeld “Nerissimo”

Devi essere gentile con gli spiriti… sussurra Blixa in “Animelle”. Del duo scrissi già in sede di concerto, oramai sono una realtà ben consolidata, un progetto affascinante pregno del carsima germanico del leader degli Einstürzende e della sensibiltà sonora di Teardo, di un’ eleganza venata di misticismo che permea ogni nota del seguito di “Still smiling”.

Aldilà del fatto che sentire Blixa cantare in tedesco mi fa pensare che chi non apprezza questa lingua sicuramente non l’ha mai sentito proferir parola, personalmente ho anche apprezzato tantissimo anche la citazione artistica della copertina che completa degnamente l’opera. Chi meglio di loro può fare da ambasciatore alla musica?

La voce non ha colore, infatti è nera, nerissima.

Deftones “Gore”

Di questo disco tutti hanno fatto a gara a dire peste e corna e a me piace. Mi piace! devo dirlo più forte? E strorco il naso di fronte ai detrattori, scusate, sicuramente non è il loro capolavoro, ma, per la miseria, funziona. A me “Saturday night wrist” e “Diamond eyes” avevano annoiato a morte e invece gli ultimi due mi hanno restituito un gruppo che pensavo perso.

A chi invece vede in essi il loro declino non so cosa rispondere. Secondo me hanno recuperato una freschezza compositiva che mi sembrava ripiegata pericolosamente su se stessa. E non sono diventati pop, popolari lo erano già. Non sto dicendo di farveli piacere, ma non cedete ai pregiudizi e dategli un ascolto a sensi aperti. Comunque sappiatelo: gruppi di questa statura non ne nascono più.

Mike and the Melvins “Three man and a baby”

In attesa che tutti i bassisisti si concretizzino nella loro prossima uscita, questo brano sia da solo un motivo sufficiente per ascoltare la loro gemma perduta negli archivi della gloriosa sub pop!

Adoro essere preso per il culo da Buzz e Dale!

This time I don’t wanna listen!

Chi Cheng (1970/2013)
Chi Cheng (1970/2013)

Comincio davvero ad essere stanco di questo tipo di notizie che, ultimamente, si stanno susseguendo terribilmente una dietro l’altra. Davvero, vedere delle persone che ti sono state accanto con la loro arte che si spengono  in successione aggiunge una tristezza difficile da esprimere a parole al già problematico quotidiano che ci troviamo ad affrontare.

Difficile non intristirsi di fronte alla dipartita di Jannacci e adesso, per quanto artisticamente distante,  di fronte a quella di Chi Cheng dei Deftones che è tragicamente mancato (lasciando anche un figlio piccolo) sabato scorso a Sacramento.

Nel novembre 2008 era stato vittima di un serissimo incidente stradale, aggravato dal mancato utilizzo della cintura di sicurezza. Da allora il bassista era rimasto in coma per diverso tempo e solo ultimamente sembrava avviarsi verso una lunga e difficile riabilitazione avendo cominciato a muovere difficoltosamente gli arti. Purtroppo questi segnali di ripresa non sono stati sufficienti perché Chi ha cessato di vivere alle tre di mattina.

Basterebbe dire questo ed unirsi idealmente alla fiaccolata silente che ha avuto luogo alla Cesar Chavez plaza a Sacramento. Di fronte ad una simile tragedia in termini si resta senza parole o si ricordano dentro di se’ le circostanze legate al gruppo al quale Chi apparteneva.

I Deftones fecero la loro comparsa nei miei padiglioni auricolari nel 1997, con il loro secondo album “Around The Fur” e, almeno fino all’uscita del disco omonimo, sono rimasti costantemente nei miei ascolti. Mi raccolsero in uno dei periodi più bui e desolati della mia esistenza, esattamente quando le prime speranze incominciano ad infrangersi contro il cemento armato dell’esistenza e seguirono da vicino il declino delle utopie giovanili e l’amaro loro trasformarsi in disillusione e miscredenza. Misero una colonna sonora in sottofondo all’indurimento dell’anima che si verifica spesso, ad un certo punto, a chi fa degli ideali l’asintoto a cui tendere. Quando lo scontro con la realtà si fece cruento e disperato, la voce di Chino Moreno cantava: “stai tranquillo e guida, non importa dove, ma lontano” ed il basso di Chi scandiva il tempo sulle quattro corde, dietro di lui. Ed il suo suono non sarà dimenticato.

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La maledizione dei dischi dell’anno continua!

Abracadabra
Abracadabra

Analizziamo i fatti con calma: un altro anno sta per essere lasciato alle spalle… ed è stato un anno personalmente iniziato male, ma nel quale il finale potrebbe riservare delle sorprese. Ciò che non dovrebbe sorprendere è che sono le 17 e 24 minuti di un martedì freddo e sono chiuso in una camera a guardare il soffitto senza lo straccio di un’idea su cosa scrivere per riempire lo spazio vuoto di una pagina digitale su questo blog. Non dovrebbe sorprendere nemmeno che, alla fine, ricada nell’errore di proporre la classica lista dei dischi di fine anno, praticamente una tradizione di ogni musicofilo che si rispetti.

A cosa serve? Non so… a me a ricordarmi dei dischi che ho amato durante l’ultimo anno e anche a disperarmi cinque minuti dopo averla postata per aver dimenticato questo o quel gruppo, una sorta di esercizio mentale, quasi masochistico. A voi a confrontarvi con le scelte del sottoscritto se trovate un senso nel farlo, altrimenti a riempire i commenti di pernacchie ed insulti dei quali vi sono grato fin d’ora.

Esordio dell’anno: Black Moth: “The Killing Jar”– Mi sono affezionato a questi ragazzi albionici prodotti da Jim Sclavunos… mi piace il loro rock nato dagli Stooges e dai Black Sabbath, pieno di buone premesse per il futuro. We hail you… Black Moth!!

…appena fuori dalla top ten: Enslaved:”Riitiir”– Decisamente un gruppo dal quale non si può prescindere questi norvegesi di Bergen, sia nel loro retaggio vichingo e blackmetallaro degli esordi che nel loro attuale viaggio introspettivo e progressivo con destinazione le nebulose e lo spazio interstellare ma senza dimenticare la madrepatria. La formula si consolida!

10. Unsane: “Wreck”– Io sono uno di quelli che si portano il gruppo newyorkese nel cuore, che si farebbe tatuare da Vinnie Signorelli, guidare per la città da Chris Spencer e che prenderebbe lezioni di basso da Dave Curran. Il loro ritorno non può che essere salutato ossequiosamente su queste pagine. Urbani, disturbati e con i nervi a pezzi: questi sono gli Unsane!

9. Melvins Lite: “Freak Puke”– Un’altra leggenda per il sottoscritto che ritorna in una veste inedita e “Lite” con Trevor Dunn (John Zorn, Mr. Bungle e Fantômas) al (contrab)basso. Giocano con il jazz ed i suoni vintage, con le spazzole e le batterie d’annata… possono legittimamente ostentare un menefreghismo senza limiti e rimanere fedeli a loro stessi, un gruppo al di sopra del bene e del male, un matrimonio artistico Dale/Buzz che supera agevolmente i 25 anni… Hats off, Mr. Rip-off!

8. Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”– Sovversivi dalla progressione facile, colmano rapidamente anni di silenzio con due canzoni maratona e due umanamente più corte. Personalmente mi sono mancati. La magia attraversa il tempo e si rinnova, fino al prossimo posto di blocco…

7. Deftones: “Koi No Yokan”– Un altro ritorno, anche se non avevano mai abbandonato le scene, però un disco di questa portata mancava almeno dal disco omonimo se non proprio da “White Pony”… un ritorno alla forma di un tempo che scalda il cuore e lascia spazio ai sogni. Intensi ed emozionanti, così ce li ricordavamo e così sono tornati…

6. Baroness: “Yellow And Green”– Con un sentitissimo augurio per una pronta ripresa dell’attività spezzata da uno sciagurato incidente stradale lo scorso agosto, accogliamo nella top ten il gruppo georgiano. Un doppio CD, che in parte tiene conto del retaggio sludge, ma che sviluppa maggiormente la parte prog e sperimentale soprattutto nell’episodio giallo…

5. Pallbearer: “Sorrow And Extinction”– Un esordio in classifica è cosa rara, ma onore al merito: il doom non ha mai avuto così bisogno di forze fresche e di dischi come questo. Se è difficile innovare in questo contesto è altrettanto vero che la tradizione, se trattata con personalità ed intelligenza, continua ad avere il suo fascino!

4. Swans: “The Seer”– In tema di ritorni fruttuosi un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Swans di mr. Michael Gira, che qui si avvale addirittura della vecchia compagna Jarboe. “The Seer” è il disco della compiutezza degli Swans, dove tutte le anime del gruppo trovano spazio e convivono in armonia, dalle inquietudini industriali alle incursioni acustiche. Un lavoro mastodontico e impegnativo per chi l’ha concepito e per chi ne dovrà fruire… ma con un fascino enorme.

3. High On Fire: “De Vermis Mysteriis”– Matt Pike e soci sono probabilmente fra i gruppi fieramente heavy metal quelli più sottovalutati. Questo disco ha guidato ha lungo la classifica per quest’anno prima che i due nomi che seguono mettessero a segno due dischi superlativi. Tuttavia ciò non deve distrarre dal considerare il lavoro di Matt e soci: nonostante l’età di servizio elevata se l’heavy metal ha un futuro lo si deve a loro.

2. Converge: “All We Love We Leave Behind”– Ancora una volta sul podio, con i Converge è inevitabile. Sono un gruppo decisamente troppo avanti per personalità e coesione, in grado di modellare l’hardcore come nessun altro può anche solo ambire a poter fare. Dietro la furia, la passione e la perizia rendono questo gruppo inarrivabile.

1. Neurosis: “Honor Found In Decay”– Direte che sono di parte e io scrollerò semplicemente le spalle. Questo è IL disco dell’ anno. Dopo che la loro evoluzione sembrava essere giunta ad un punto morto, hanno ripreso in mano la loro carriera con una maestria incredibile e se ho parlato forse in toni un po’ tiepidi al tempo di questo disco era solo perché bisognava farlo crescere con gli ascolti. Recuperano venature sonore dalle carriere solistiche del duo Von Till/Kelly, si aprono solo all’apparenza ad una maggiore accessibilità e ribadiscono la loro ispirazione… adesso non resta che augurarsi il loro imminente ritorno dal vivo, con la curiosità del dopo Josh Graham…


Deftones: “Koi No Yokan”

Deftones: “Koi No Yokan”

Con i Deftones personalmente si ritorna alla fine degli anni ’90, visto che nonostante li abbia comunque ascoltati, i loro CD, dopo il quarto, sono avvolti nella nebbia… mi rimangono offuscati rispetto all’assalto di “Adrenaline”, alla passionalità nervosa e sofferta di “Around The Fur”, alla rinnovata energia dell’eclettico e poliedrico “White Pony” o anche al più normalizzato “Deftones” nel quale la nebbia che avvolge “Saturday Night Wrist” e “Diamond Eyes” incomincia ad alzarsi.

Non che quei due lavori segnino una caduta verticale del guppo dal punto di vista qualitativo, semplicemente non sono rimasti impressi nella mia memoria come avrebbero dovuto, complice forse anche il mio avvicinarmi a musiche e modi di esprimersi diversi. Personalmente sono attaccatissimo a lavori come “Around The Fur” che me li fece scoprire in un momento tragico delle mia esistenza e che diventò lo specchio di un’esistenza spezzata e dolente, che non ne voleva più sapere nulla di niente e di nessuno… quasi annichilita. Poi c’è “White Pony” che fu come una linea bianca sullo sfondo nero dell’esistenza, a volte luminosa, a volte algida, altre asettica comunque sempre in risalto. Dopo il tragico incidente che è quasi costato la vita al loro bassista storico Chi Cheng nel 2008 la band ha dovuto rimettersi in gioco e continuare per la sua strada con un’innegabile peso nel cuore, per altro condiviso da molti amici che sono stati loro vicino come, sui tutti, Fieldy dei Korn.

Deftones

Con il sostituto Sergio Vega, si sono creati nuovi equilibri, ma il gruppo ha continuato per la sua strada e, ad un primo ascolto, sembra proprio che “Koi No Yokan” abbia recuperato quella capacità di rimanere incisa nella memoria collettiva. L’ispirazione finalmente diventa nitida. E riemergono tutti quegli elementi che li hanno contraddistinti, dall’amore viscerale per la New Wave albionica che rese memorabili alcune loro covers che poi entrarono in un disco di rarità (“Please, please, please let me get what I want”, “To have and to hold” e “The Chaffeur” le prime che mi vengono in mente) al gusto per i momenti maggiormente dilatati, figlio del Trip-Hop anni novanta, che li ha portati ad avere nei ranghi il dj Frank Delgado fin dal 2000, alla inestimabile bravura vocale del cantante Chino Moreno che sembra andare da sempre a braccetto con il vigoroso chitarrismo di Stephen Carpenter. Oggi questi elementi appaiono rispolverati e messi a lucido nel nuovo disco, con buona pace di tutti quei fan, come il sottoscritto, che li hanno portati nel cuore ma che per un motivo o un’altro li avevano un po’ allontanati dalle orecchie. Bentornati!

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