2021

10. Melvins: working with god. Questo disco è un classico disco dei Melvins vecchia maniera. Per chi li conosce nulla di nuovo: ci sono i loro classici scherzi da prete (la proto-versione del classico dei Beach Boys e quella in cui mandano tutti affanculo), bei riffoni portanti a supporto delle composizioni. In questo disco è tutto apposto, i Melvins che, finalmente, tornano a fare i Melvins. Non finirà in nessuna lista di fine anno ma finisce nella mia perché, da loro ammiratore, avevo bisogno di un disco come questo. Salvo che poi si siano subito smentiti: certo che se c’è una cosa da dire sul gruppo del Washingston state è che non sono fatti per accontentare tutti.

9. Nick Cave, Warren Ellis: Carnage. Spero di non prendermi del nostalgico a tutti i costi ma pur trovando spunti interessanti nel nuovo corso di Nick Cave con il timoniere Warren Ellis, io continuo a preferire la vecchia produzione con i vecchi Bad Seeds. Per me non c’è partita. Eppure questo nuovo capitolo convince, è bello nel suo essere scarno come al solito. Però forse con l’età è venuto a mancare l’impeto emozionale dei vecchi tempi. Senza contare che restare senza due geni musicali come Herr Bargeld e Mr. Harvey, per un pur meritevole Ellis, sicuramente è un’operazione al ribasso. A me questi dischi piacciono ma mi risultano freddi, in molti li apprezzano, io faccio molta fatica pur riconoscendone il valore.

8. Carcass: Torn arteries. Sempre un piacere parlare di Jeff Walker e soci. Questa volta non fa eccezione, sono in forma e all’altezza del nome che portano. Se poi volete fare dei paragoni ingombranti col loro passato, continuare a lagnarvi che Ken Owen non è più della partita e via discorrendo, siete liberi di farlo. Io ho scelto di alzare il volume e godere della loro ultima fatica, non è un’impresa impossibile nemmeno nel 2022.

7. Mondaze: Late Bloom. Mentre molti indugiano in cosucce tipo la synth wave et similia, per il secondo anno di fila ospito nel listone di fine anno un gruppo che fa un genere con dentro la parolina gaze. Stavolta, dopo i Nothing l’anno scorso, tocca a i Mondaze da Faenza con furore. La cosa bella di questo genere è che potenzialmente a tutti gazer piace alzare il volume a dismisura facendo rimbombare tutto. Sembrerà una bestemmia ma la cosa funzione bene con i Carcass e anche con i Mondaze, ovviamente sono diverse le sensazioni ma questo disco ha comunque molto da offrire anche ad un appassionato di cose molto più brutali e trucide. Un bellissimo esordio.

6. Coverge: Bloomoon I. Di questo disco ho già parlato, mi sembra un lavoro meritevole ma un po’ discontinuo e che, alla lunga, non mi ha fatto venire troppo spesso voglia di essere riascoltato. Ancora un giudizio un po’ sospeso: magari poi a distanza di tempo potrebbe venire assimilato meglio almeno dal sottoscritto, le perplessità tuttavia non smorzano l’interesse per un possibile vol. 2.

5. Amenra: De Doorn. Poco da aggiungere anche qui, il solo limite degli Amenra è che fanno musica che è di difficile ascolto. Bisogna essere nella giusta predisposizione spirituale e allora se ne fruisce nel modo migliore e se ne traggono belle soddisfazioni. Il cantato in lingua fiamminga, a mio modo di vedere, aumenta di molto il fascino della loro proposta, anche se non ne capisco praticamente una parola.

4. Godspeed you! Black Emperor: G_d’s Pee AT STATE’S END! Bellissimo lavoro della band canadese, che questa volta, più che in passato, riesce ad essere quasi più fruibile, con passaggi di una bellezza assoluta che rimangono molto più in testa anche a distanza di tempo. Non vedo l’ora di sentire questi brani dal vivo, con il supporto della parte visiva: in tale caso sarebbero già da adesso da mettere al primo posto.

3. Jointhugger: Surrounded By Vultures. Buonissima seconda prova della band norvegese, che incorpora maggiore psichedelia nel proprio suono rinunciando a qualcosa in pesantezza: il risultato è comunque da applausi, un gruppo come ormai se ne sentono pochi. A partire da qui, le loro possibilità evolutive per il futuro hanno mille direzioni, tutte da esplorare.

2. Monolord: Your Time To Shine. Gli svedesi sono ormai un’istituzione e si confermano ancora alla grande con questo disco, molto più oscuro e dolente del precedente. Inizialmente mi aveva quasi respinto, poi mi ha definitivamente conquistato: è un vero e proprio gioiello.

1. Green Lung: Black Harvest. Vincono a mani basse. Hanno i riff, hanno il groove, soprattutto l’immediatezza ed il coinvolgimento che creano con le loro canzoni non hanno praticamente eguali nel panorama odierno. Per riassumere: hanno un gusto per la canzone invidiabile. Ogni brano è un inno da cantare a squarciagola, una marcia trionfale, un coro da stadio dell’occult rock. Forse poco impegnativi e un po’ facili ma in questi tempi difficili avevo proprio bisogno di un disco del genere.

Stringere alleanze

Nonostante il mio amore incondizionato per i negozi di dischi, c’è stato un bel periodo nel quale non li ho frequentati affatto. Tra gli svantaggi del vivere in provincia c’è senz’altro quello di avere la possibilità di imbattersi in negozianti che sembra siano lì per caso. Come già detto nel caso del Discclub, negli anni ’80 era normale: la provincia era un luogo d’ombra assolutamente refrattario a qualsiasi cosa non fosse la norma, sembrava di vivere in farenheit 431 e coloro che avevano una cultura musicale sembravano uomini-disco, votati alla conservazione del patrimonio musicale avulso dal contesto comune. Quando dico questo intendo che anche trovare un semplice fan, chessò, dei Led Zeppelin era difficile e facevi la ola quando qualcuno capiva di che diavolo stessi parlando. La situazione migliorò molto negli anni ’90, complice forse il Babylonia o il ruolo assunto dal suo gestore che contribuiva anche con un negozio di dischi (Paper moon). Aveva un pessimo carattere, trattava tutti con sufficienza, ma alla fine, dopo mille patimenti, i dischi te li trovava: rimembro ancora il giubilo per “Blues for the red sun” dei Kyuss o “How the gods kill” di Danzig in edizione cartonata lunga americana e primo incontro -alien escluso- con H.R. Giger.

Quando lasciò il negozio, per un po’ le cose continuarono a girare. Poi ricominciò un tira e molla fatto di mille difficoltà a reperire quello che chiedevo, poi diciamolo… era arrivato internet. E non sto parlando di canzoni scaricate da Napster (che usai davvero poco rispetto alle sue potenzialità) e nemmeno di streaming (quello arrivò dopo), sto parlando di ordinare on-line. Per un bel periodo ordinai dagli USA, laggiù avevano dei prezzi talmente bassi da compensare tasse e spese di spedizione (purtroppo quella cuccagna è finita da un pezzo, ho completato fior di discografie a quel modo), poi arrivarono ebay, discogs, amazon, la feltrinelli, IBS, qualsiasi sito dal quale fosse possibile farsi arrivare della musica.

Se uno come me abbandona i negozi di dischi sicuramente ha un motivo valido per farlo, altrimenti negozi di dischi tutta la vita. Per quanto mi concerne i motivi sono i seguenti:

  • L’attesa: capisco che sia impossibile rivaleggiare con amazon et similia in rapidità ma, inserite un’imprecazione pesante a scelta, attendere 3 mesi un disco che a me arriverebbe in due settimane dagli USA, io non lo trovo accettabile. Voglio dire: io sono un privato qualsiasi e riesco a farmi arrivare la roba mesi prima di te che dovresti avere dei canali di distribuzione come si deve? Qualcosa non va. Alle volte (vedi il disco dei Coriky) ho perfino disdetto il disco dalla disperazione: il disco era stato posticipato causa covid e poi si erano bellamente dimenticati di rimetterlo in ordine (inni sacri a volume assordante a coprire gli improperi): chissà perché non mi son fatto più vedere.
  • La competenza: senza troppi giri di parole (e scusando la volgarità in  veneto) mi sono rotto il casso di dover fare lo spelling del nome dei gruppi. Non pretendo che conoscano l’ oscuro progetto underground della, chessò, Bielorussia, ma se ordino (perché non sia mai che tu li abbia già in negozio) un disco degli High On Fire o dei Clutch, almeno che tu sappia come si scrivono (altre imprecazioni, ma si sappia che sono esempi reali).

Totalmente deluso dai rivenditori della mia zona, fortunatamente non sono il tipo che demorde. A circa una mezz’ora da dove vivo per fortuna c’è  Ivrea e Discooccasione. Frequentavo già il negozio saltuariamente non essendo particolarmente comodo andarci, tuttavia vedevo che era assortito e che il titolare, Roberto, sapeva assolutamente il fatto suo. Più tardi scoprii che teneva banchetti in varie occasioni di concerti dal vivo (vedi Desertfest e altri) e mercatini dell’usato, comunque stringemmo alleanza quando acquistai un CD dei Belzebong ( …sì è un gruppo stoner, per giunta polacco), quando mi disse “finalmente qualcuno che ascolta roba pesante!”

Galeotto fu il disco e chi lo registrò!

… da allora mi faccio mezz’ora di strada (di solito in moto) con il sorriso stampato sulla faccia, ordino via whatsapp e sono felice alla faccia di amazon e di tutti gli altri. Credo di aver avuto le lacrime agli occhi quando, l’ultima volta che ci siamo visti gli chiesi se aveva delle copie in vinile dell’ultimo dei Godspeed you! Black emperor, conscio dell’impresa impossibile visto che era esaurito su bandcamp, e ne aveva ben tre copie in casa, di cui una sotto il mio naso imbarazzato. Poco importa se avevo già ordinato il CD che sarebbe arrivato con nota autografa (!) tre settimane dopo dal Canada: ne ho preso una copia per me e una per l’Oltranzista (è in salute, grazie per l’interessamento).

Lacrime!

Il negozio è piuttosto piccolo, ma è stipato di dischi, in penombra si scorgono anche manifesti e riviste musicali, tutto molto bello, tutto molto vecchio stile. Situato in una via laterale rispetto al corso pedonale principale della città eporediese, va quasi scovato ma difficilmente lascia indifferenti. Il titolare è in contatto con diverse distro, garantisce sempre prezzi al di sotto della media ed è ben difficile che gli chiediate un disco di un gruppo che non ha sentito almeno nominare; spesso si trovano dischi lì direttamente, ma anche ordinandoli non si resta delusi.

Il momento non è facile per tutti i negozi di dischi tra covid (i negozi di dischi restano chiusi più delle librerie: evidentemente è cultura di serie B rispetto ai libri, se ci devi campare peggio per te), filesharing e streaming. Quelli meritevoli vanno assolutamente supportati, datevi da fare a trovarli perché esistono!

Vinyl is not dead, long live record shops!

In attesa della fine

Poniamo che voi siate canadesi: vivete in uno degli stati più civili al mondo dove i concetti di giustizia sociale e welfare non sono un mero tentativo di non limitarsi alla teoria, vivete in un posto dominato da una natura strabordante con un panorama che letteralmente è in grado di abbagliarvi con la sua imponenza. In definitiva state bene, le possibilità non vi mancano e nemmeno il sostentamento; eppure un tarlo vi perseguita, un pensiero in fondo alla vostra testa che non vuole andarsene: una necessità di anticonformismo e di ribellione (anche violenta) che non trova sfogo. D’inverno le nottate sono infinite, domina il freddo che minaccia di strapparvi la faccia ogni volta che uscite dalla porta. Osservate il buio dalla finestra tentando di placare i pensieri che invece si amplificano. Sapete di dover trovare, se non proprio una via di d’uscita, almeno una valvola di sfogo.

Dopo svariate nottate (mattine, pomeriggi o sere) passate a questo modo imbracciate uno strumento e tutto sembra tornare a scorrere fluido, vi unite ad altre anime affini prendete un nome da un oscuro documentario giapponese che parla di motociclisti e costituite un gruppo, formate un collettivo, plasmate un flusso musicale, iniziate a dare un senso alle vostre riflessioni, cominciate a vivere e non solamente ad esistere. Non so se sia così che si sono formati i Godspeed you! Black Emperor, ma mi piace immaginare che sia qualcosa di estremamente simile a ciò che ho romanzato poco sopra.

Seguo i canadesi fin da Lift your skinny fists ed ho anche il privilegio di averli visti più volte dal vivo. Sono uno dei pochi gruppi a cui non riesco a muovere un appunto nemmeno volendo. L’unica cosa che mi sento di dire è che li preferisco nettamente dal vivo, ma è un problema mio. Li preferisco dal vivo perché il loro spettacolo è incredibile, visionario, intimo e lirico, ma soprattutto perché a casa non riesco mai a trovare il tempo e la tranquillità per godere appieno delle loro registrazioni. È chiaro che dal vivo ti trovi in un contesto totalmente diverso e privo di distrazioni (e interruzioni) e con una presenza fisica della musica imponente, a volte corredata da un supporto visivo assolutamente affascinante. La musica dei GY!BE deve essere lasciata fluire, necessita di tempo e di trasporto da parte dell’ascoltatore. Funziona anche come sottofondo ma è fatale che si perda e si squalifichi utilizzata a quel modo.

Il quattro febbraio è uscito il loro nuovo lavoro. La versione vinilica è andata esaurita in pochi minuti (forse la ristampano?), con il download e il CD forse ve la cavate ancora. Va detto che il nuovo lavoro non fa eccezione: composto tra la strada e l’isolamento, quando ancora si potevano fare i concerti dal vivo e quando invece siamo stati tutti costretti a chiuderci in casa e limitare i contatti; si muove al crepuscolo, in attesa del buio, in attesa della fine.

Parlare di un nuovo lavoro dei canadesi è come un sentiero estremamente impervio. Perché limitarsi all’aspetto strettamente musicale risulta troppo riduttivo: l’ascolto non può rimanere un mero processo intuitivo né barricarsi dietro una fredda analisi tecnica. Un gruppo come questo necessita di coinvolgimento personale che riguardi la parte emotiva come quella razionale, una disposizione d’animo che prepari ad un’ esperienza spirituale. Io almeno l’ho sempre vissuta a questo modo. E non sopporto interruzioni e distrazioni quando li ascolto. Il nuovo lavoro non si discosta dal resto della discografia, almeno al livello concettuale, a livello musicale, rilevo una maggiore attenzione alla melodia e fruibilità dei brani (se un termine del genere ha senso nel contesto nel quale ci stiamo muovendo) che più che in passato rimangono in testa anche una volta terminato l’ascolto. Permane il loro lirismo estremo, la loro spiccata propensione a creare paesaggi sonori commoventi e richiami musicali struggenti, la loro marcata vena progressiva (nel senso letterale del termine, non inteso come rock-progressivo) che fa fluire il brano come solo loro sanno fare.

Scoprire il resto è un piacere che non voglio togliere a nessuno, rimando al loro Bandcamp per i loro proclami che qui non saranno oggetto di discussione in quanto ognuno può trarne ciò che vuole (ed è, a mio insignificante parere, tenuto a farlo se ama questa compagine).

L’ultima volta che vennero a Milano, ai magazzini generali, li persi… mi consolai pensando “pazienza torneranno a breve” ecco, a volte, certe cose non bisognerebbe darle per scontate.

Dal vivo

Aver perso la recente data milanese dei Godspeed you! Black Emperor (o ovunque abbiano deciso di mettere il punto esclamativo) mi è dispiaciuto: purtroppo a volte dopo un lunedì lavorativo farsi, tra andata e ritorno, tre ore di auto con la prospettiva di un intera settimana ancora davanti non aiuta a decidere positivamente. Avevo già avuto due occasioni di vederli dal vivo e restare coinvolto dalla loro grandissima forza corale, dal loro strenuo continuum sonoro che dal vivo si esalta oltremisura. Mancata l’occasione ne colgo un’ altra per mettere su queste pagine qualche considerazione sui gruppi che vanno assolutamente visti dal vivo. In molti casi ben poco di quello che potete sentire su disco sarà in grado di rendere un’ idea di quello che vi aspetta in sede di concerto. Con questi gruppi infatti, ciò che hanno dato alle stampe lambisce appena le emozioni che sono in grado di suscitare nel momento in cui salgono sul palco.

Einstürzende Neubauten: Un bel giorno arriva il momento nel quale uno fa finta di suonare la batteria con  le pentole, l’abbiamo fatto tutti. Ma l’arte suprema del Signor Bargeld e soci sta nel portare tutto ad un livello sublime utilizzando letteralmente qualsiasi cosa come strumento a percussione, facendo suonare saldatori e molle, tubi di plastica ed aria compressa, inventandosi letteralmente gli strumenti in officina e creandogli attorno una proposta musicale che funziona con tanto di cantato in tedesco. Basta ed avanza a far crollare la mandibola… solo che poi si finisce per chiedersi come porteranno tutto questo dal vivo. Io sinceramente mi aspettavo di rimanere deluso: nemmeno per idea. E’ la loro dimensione congeniale, fanno tutto come e meglio che su disco, con una naturalezza disarmante. Su tutti svetta Blixa: quando urla ti fa rizzare peli che nemmeno sapevi di avere, ma il resto del gruppo segue a ruota con una resa sonora che ha dello stupefacente se consideriamo quello che suonano: il palco è una ferramenta ricoperta da microfoni in ogni dove. Forse su disco non si apprezzano altrettanto bene perché non si ha un’idea effettiva di cosa facciano mentre suonano, mentre dal vivo è tutto lì davanti ai tuoi occhi esterrefatti: incredibile. Catturano la tua attenzione come gli sarebbe impossibile fare su disco e suonano come degli dei.

Si vocifera di un nuovo disco nel 2020, speriamo ne segua un tour!

 

Zu: Anche su di loro mi sono già sperticato in lodi più volte, probabilmente (anche per questioni di comodità) sono il gruppo che ho visto più volte dal vivo in senso assoluto e quindi posso ben dirmi esperto delle loro esibizioni live. Già in studio hanno dato più volte prova della loro maestria, dal vivo risultano esplosivi, sia che si esibiscano da soli che in compagnia (negli anni li abbiamo visti con Mike Patton, Joe Lally ed altri) la loro proposta musicale diventa una scheggia impazzita che finisce per afferrarti i sensi e farti concentrare su quell’amalgama assoluta di suoni. Assolutamente da vedere, adesso che è tornato anche Jacopo Battaglia alla batteria e si è aggiunta una chitarra non ci sono scuse che tengano: Nell’ultimo concerto a Torino dissero, usando un francesismo, che non avrebbero più suonato “Carboniferous” perché si sono rotti il cazzo: speriamo che questo implichi nuovo materiale presto…

Godspeed you! Black emperor : L’ ensamble canadese rappresenta la supremazia assoluta della musica: minime concessioni ai singoli strumentisti e impatto corale debordante. Si muovono in sordina entrano sul palco trafelati e silenziosi come ombre e dal silenzio parte la loro progressione sonora senza eguali. Il termine “progressivo” è forse quello che li descrive meglio, ma nella sua definizione originale che poco ha a che fare con l’idea che ci si è fatti di questo termine per definire un genere  negli anni ’70. Pulite lo schermo da idee preconcette i GY!BE le trascendono con una naturalezza impressionante, la loro progressione significa proprio partire dal silenzio per arrivare ad un estasi sonora con pochi eguali nella scena attuale, tanto che vedendoli dal vivo (e azzardando un paragone) la cosa che mi sembra più vicina a loro potrebbe essere il “Bolero” di Ravel traslitterato secondo una decodificazione moderna, elettrica e appassionata:  un crescendo travolgente di emozioni.

Una componente aggiuntiva notevole è inoltre quella visiva: in particolare in una occasione si portarono dietro un proiezionista che mandava spezzoni di film in 8mm come farebbe un dj con la musica, avendo a disposizione diversi proiettori. A un certo punto cominciò ad aggiungere effetti (lenti), filtri, a far bruciare la pellicola creando un’atmosfera assolutamente unica.

 

Sunn O))): Qui siamo all’apoteosi, al punto che uno finisce per comprare i vinili per dare supporto al progetto, li ascolta anche, ma da quando li ha visti dal vivo, sa che nulla è in grado di eguagliare quell’esperienza unica, quel momento estetico di creazione di realtà parallele senza spazio e tempo. Le luci, il fumo, le vibrazioni, l’ aura di un concerto dei Sunn O))) non possono essere riportate su supporto fisico. Occorre esserci e perdersi. Visti nelle situazioni più incredibili (in carcere a Torino, nel labirinto in Emilia, in un cinema di Losanna) ogni volta è un viaggio, ogni volta una scoperta. La prima volta a Bologna c’era di che essere sconvolti, solo in due sul palco produssero una tale ventata sonora che occorreva aggrapparsi per stare fermi, con tutti gli organi interni in vibrazione… Potrei stare qui per ore a parlarne e comunque non riuscirei a rendere l’idea. Il prossimo gennaio saranno a Trezzo, un po’ di delusione per il locale, fin troppo convenzionale, però ho già i biglietti in tasca.

N.B.: Ho lasciato fuori gruppi assolutamente meritevoli come Neurosis, Tool, High On Fire, Melvins etc… non perché vederli dal vivo non sia intenso o emozionante, ma perché non mi ha spiazzato così tanto rispetto a sentirli su disco (a parte l’aspetto visivo degli show dei primi due che è assolutamente notevole), qui ci sono gruppi che dal vivo assumono una statura tale che è quasi inimmaginabile sentendoli su disco.

Non escludo il ritorno

Califano

Non mi piace Califano, ma quando ho saputo che sulla sua tomba c’era scritto “non escludo il ritorno” ho pensato che la citazione fosse perfetta per tornare dopo mesi di silenzio… che questo significhi qualcosa non lo so. Amo il blog e mi piace scriverci, ma sono terribilmente a corto di: tempo, ispirazione, vista, energia, pazienza e altro.

Quindi i mesi se ne sono scivolati via dall’ultimo post su Marco Mathieu, per quello che ne so io le sue condizioni non sono migliorate. Io non mollo la speranza: ora e sempre tieni duro Marco!

Detto questo sono tornato su queste pagine solo per lasciare la classica classifica di fine anno, ammesso che qualcuno la voglia leggere e che a qualcuno interessi.

10. ALL PIGS MUST DIE: “Hostage animal”

Una sana dose di violenza messa in musica. Io ne ho sempre bisogno, un canale per la rabbia, per la tensione che si accumula, finalmente senza che ogni riff sia telefonato e prevedibile. E Ben Koller, un batterista enorme.

9. IRON MONKEY “9-13”

Un altro gruppo che non scherza. Vent’anni cancellati, un cantante di meno con tutti i dubbi che possono venire e che si allontanano via via con l’ascolto di un disco marcio e roccioso al tempo stesso. Ritornare sulla scena senza tradire il proprio passato non è cosa da tutti.

8. Telekinetic Yeti “Abominable”

Grande esordio per questi americani dagli amplificatori fumanti, una piacevolissima sorpresa e nebbia aromatica che si alza da ovest.

7.Crystal Fairy “Crystal fairy”

Dopo aver amato le Butcherettes di “A raw youth”, potevo perdermi il supergruppo con i Melvins, il tipo degli At the drive in e Teri Gender Bender? No. Il disco è grande, cresce con gli ascolti e surclassa alla grande l’ultimo Melvins fin troppo influenzato dal risibile nuovo bassista che si spera venga issofatto licenziato dal duo. Forse un progetto nato morto, chissenefrega.

Se vi fosse venuto il dubbio ascoltando “A walk with love and death” no non si sono rincoglioniti e sì ritorneranno alla grandissima!

6. Godspeed You! Black Emperor “Luciferian towers”

Il Canada dovrebbe essere fiero di questi suoi figli sovversivi e traboccanti di lirismo e magia (dal vivo poi sono da lacrime a scena aperta). Una conferma incontestabile.

5. Electric Wizard “Wizard bloody wizard”

Dorset will rise again. Dopo innumerevoli cambi di formazione, tour svogliati e quasi casuali nelle tempistiche e nei luoghi, dischi quasi sporadici e quant’ altro, alla fine ce la fanno sempre a tornare. Io ne ho bisogno di Jus Oborn e anche di Liz Buckingham, del loro immaginario satanico settantiano da fumetto porno di infima qualità, delle loro fumate bianche, delle loro SG vintage e degli amplificatori in fiamme. Al diavolo ogni remora, ci vediamo all’inferno: portate le birre, farà caldo!

4. Converge “The dusk in us”

Altro giro altro ritorno. I Converge sono dei grandissimi e quando, tra mille impegni, trovano il tempo di far uscire un disco nuovo è sempre una festa per le orecchie di chi scrive. Assolutamente brutali, certamente intensi, incredibilmente mai banali. La perfezione del concetto di “evoluzione sonora” assieme ai mai troppo lodati Neurosis. E Ben Koller, assieme a Nate Newton, Jacob Bannon e Kurt Ballou. Non serve altro.

3. Edda “Graziosa utopia”

Volevo metterlo come menzione speciale per il disco più ascoltato dell’anno. Invece no, ho deciso di trovargli una posizione nella classifica e basta. Questo è il disco italiano dell’anno, almeno per quanto mi concerne. E non mi importa se non c’entra nulla con gli altri. Le canzoni sono geniali e sorprendenti, i testi irriverenti e a doppio fondo. Lui rimane una spanna sopra la melma e una persona assolutamente grandiosa. Come si fa a non volergli bene?

2. Unsane “Sterilize”

NYC. Il suono dei nervi tesi: urbano, opprimente, denso e viscoso. Se Chris Spencer, Dave Curran e Vincent Signorelli avessero deciso di smettere dopo il pestaggio di Chris non avremmo mai avuto “Visqueen” e “Sterilize”, non avremmo avuto concerti intensi e devastanti come quello del Magnolia lo scorso ottobre. Una telecaster nera dal manico violentato fino a spremerne sangue. Enormi.

1. Chelsea Wolfe “Hiss spun”

La sacerdotessa dell’ inquietudine rilascia il suo disco più intenso. Rimpinzata ad oscurità e tenebre, avanza strisciando verso l’ascoltatore ammutolito dai suoni grevi nell’aria. Non lascia respiro, stringe le spire, smuove la tela, corre in contro al baratro. E lo fa con una grazia inaudita. Io l’adoro.

In calce un ringraziamento a chi passa di qui dopo tutto questo tempo.

Vi regalo due chicche forse mezzo sconosciute:

Di una vi ho già parlato ( e lo ha fatto anche Neuroni): LOMAX

Una incontrata dal vivo al concerto di un gruppo di amici: TOTEM

Avessi un’etichetta li farei firmare io…

Avevo dimenticato la password

A volte, per giustificare le assenze, si inventano delle scuse.

Questa regge poco, anche se è quasi vera. La verità è che sono stato a corto di argomenti, di voglia di ispirazione di… occhi. Il nuovo lavoro cui devo aver accennato prima di mettere mi assorbe molto, soprattutto gli occhi, spesso non riesco nemmeno a tollerare l’idea di uno schermo oltre l’orario di lavoro, magari questa regge un po’ di più.

Poi, forse, si perde anche l’abitudine allo scrivere. E invece adesso mi sembra di avere mille cose da raccontare. Di tutte le cose successe mentre non ero qui a scrivere. Me ne è venuta in mente una e chissà perché, adesso magari suona anacronistica, visto che se ne è parlato e riparlato. La sera del Bataclan io ero a Venaria a vedere i Godspeed you black emperor.

Non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di farci fuori, forse. Eppure aver assistito ad un concerto quel giorno mi ha messo i brividi, soprattutto quando ho appreso cosa era successo parecchie centinaia di chilometri più sù, nel cuore dell’Europa.

Ora probabilmente dovrei scrivere delle belle frasi sul fatto che nessuno ucciderà mai la musica o la libertà di espressione e blah blah blah. Non mi va la retorica. Mi annoia la correttezza a tutti i costi. I Godspeed sono un gruppo eversivo, scomodo, solo in apparenza etereo e atmosferico, io sono un semplice ascoltatore.

No non lo sono. Sono carne, sangue, ossa ed anima. Un’anima ferita e confusa, ma anche appassionata e partecipe. Soprattutto indomita, almeno nelle intenzioni. Un’anima che urla e tenta costantemente di espandersi e di non rimanere ferma, seduta sulle proprie sicurezze, sui propri punti di riferimento.

Un proiettile può bloccare tutto questo, il terrore può frenare questo impeto, la paura può spremere questo sangue fino a farlo diventare acqua. Sono vulnerabile. Ma non sono in grado di rinunciare a me stesso.

Non vi prometto che sarò qui spesso, ma vi ringrazio tutti.

Che dio ti benedica imperatore nero!

Difficile dire come i Godspeed you! Black emperor siano arrivati alle mie orecchie. Forse innalzando i loro Pugni pelle e ossa come antenne rivolte al paradiso.

Ci sono concerti che sono vere e proprie esperienze. E non sono necessariamente quelli dei tuoi gruppi preferiti, sono quelli che ti trasportano altrove per un’ora emmezza, se sei fortunato due. Che poi non significa che facciano la musica che ti piace di più, semplicemente sfruttano l’ hic et nunc, il qui ed ora il momento perfetto nel quale si vibra in sintonia, nel quale si rimane finalmente stupiti e rapiti al tempo stesso da ciò che succede sul palco.

Perché è una sorta di incantesimo che trascende la realtà. Personalmente mi è successo coi Tool, con gli Einstürzende Neubauten coi Sunn 0))) e adesso con questi canadesi eversori, gente che mette in copertina le istruzioni per fabbricare bottiglie Molotov. Eppure la loro musica, i loro crescendo, le loro visioni sembrano muoversi verso tutt’altro orizzonte.

Verso l’ascensione, verso l’elevazione del se’ che poi, forse, è l’atto eversivo supremo.

Quello di credere in noi stessi, quello di elevare il nostro spirito e di crescere nell’animo. Quello di prendere coscienza che non possiamo solo ancorarci alla materia, ma anche vivere di visioni, di introspezione, facendo un viaggio dentro noi stessi che ci faccia capire che possa sollevare il velo pesante della routine e della quieta disperazione quotidiana.

Siamo più di una strisciata di badge, di un codice fiscale, di un nome annotato all’anagrafe e ce lo scordiamo ogni giorno, assuefatti all’ordinario, arresi all’abitudine, schiavi ella mediocrità. Nessun Salieri ci ha mai assolti per questo.

Karl Lemieux è il loro “braccio visuale” e proietta spezzoni di video 8, li deforma, li sovrappone, li brucia… e crea un effetto meraviglioso.

Godspeed you! Black emperor @ live Trezzo sull'Adda 10/04/15
Godspeed you! Black emperor @ live Trezzo sull’Adda 10/04/15

La maledizione dei dischi dell’anno continua!

Abracadabra
Abracadabra

Analizziamo i fatti con calma: un altro anno sta per essere lasciato alle spalle… ed è stato un anno personalmente iniziato male, ma nel quale il finale potrebbe riservare delle sorprese. Ciò che non dovrebbe sorprendere è che sono le 17 e 24 minuti di un martedì freddo e sono chiuso in una camera a guardare il soffitto senza lo straccio di un’idea su cosa scrivere per riempire lo spazio vuoto di una pagina digitale su questo blog. Non dovrebbe sorprendere nemmeno che, alla fine, ricada nell’errore di proporre la classica lista dei dischi di fine anno, praticamente una tradizione di ogni musicofilo che si rispetti.

A cosa serve? Non so… a me a ricordarmi dei dischi che ho amato durante l’ultimo anno e anche a disperarmi cinque minuti dopo averla postata per aver dimenticato questo o quel gruppo, una sorta di esercizio mentale, quasi masochistico. A voi a confrontarvi con le scelte del sottoscritto se trovate un senso nel farlo, altrimenti a riempire i commenti di pernacchie ed insulti dei quali vi sono grato fin d’ora.

Esordio dell’anno: Black Moth: “The Killing Jar”– Mi sono affezionato a questi ragazzi albionici prodotti da Jim Sclavunos… mi piace il loro rock nato dagli Stooges e dai Black Sabbath, pieno di buone premesse per il futuro. We hail you… Black Moth!!

…appena fuori dalla top ten: Enslaved:”Riitiir”– Decisamente un gruppo dal quale non si può prescindere questi norvegesi di Bergen, sia nel loro retaggio vichingo e blackmetallaro degli esordi che nel loro attuale viaggio introspettivo e progressivo con destinazione le nebulose e lo spazio interstellare ma senza dimenticare la madrepatria. La formula si consolida!

10. Unsane: “Wreck”– Io sono uno di quelli che si portano il gruppo newyorkese nel cuore, che si farebbe tatuare da Vinnie Signorelli, guidare per la città da Chris Spencer e che prenderebbe lezioni di basso da Dave Curran. Il loro ritorno non può che essere salutato ossequiosamente su queste pagine. Urbani, disturbati e con i nervi a pezzi: questi sono gli Unsane!

9. Melvins Lite: “Freak Puke”– Un’altra leggenda per il sottoscritto che ritorna in una veste inedita e “Lite” con Trevor Dunn (John Zorn, Mr. Bungle e Fantômas) al (contrab)basso. Giocano con il jazz ed i suoni vintage, con le spazzole e le batterie d’annata… possono legittimamente ostentare un menefreghismo senza limiti e rimanere fedeli a loro stessi, un gruppo al di sopra del bene e del male, un matrimonio artistico Dale/Buzz che supera agevolmente i 25 anni… Hats off, Mr. Rip-off!

8. Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”– Sovversivi dalla progressione facile, colmano rapidamente anni di silenzio con due canzoni maratona e due umanamente più corte. Personalmente mi sono mancati. La magia attraversa il tempo e si rinnova, fino al prossimo posto di blocco…

7. Deftones: “Koi No Yokan”– Un altro ritorno, anche se non avevano mai abbandonato le scene, però un disco di questa portata mancava almeno dal disco omonimo se non proprio da “White Pony”… un ritorno alla forma di un tempo che scalda il cuore e lascia spazio ai sogni. Intensi ed emozionanti, così ce li ricordavamo e così sono tornati…

6. Baroness: “Yellow And Green”– Con un sentitissimo augurio per una pronta ripresa dell’attività spezzata da uno sciagurato incidente stradale lo scorso agosto, accogliamo nella top ten il gruppo georgiano. Un doppio CD, che in parte tiene conto del retaggio sludge, ma che sviluppa maggiormente la parte prog e sperimentale soprattutto nell’episodio giallo…

5. Pallbearer: “Sorrow And Extinction”– Un esordio in classifica è cosa rara, ma onore al merito: il doom non ha mai avuto così bisogno di forze fresche e di dischi come questo. Se è difficile innovare in questo contesto è altrettanto vero che la tradizione, se trattata con personalità ed intelligenza, continua ad avere il suo fascino!

4. Swans: “The Seer”– In tema di ritorni fruttuosi un posto d’onore lo meritano senz’altro gli Swans di mr. Michael Gira, che qui si avvale addirittura della vecchia compagna Jarboe. “The Seer” è il disco della compiutezza degli Swans, dove tutte le anime del gruppo trovano spazio e convivono in armonia, dalle inquietudini industriali alle incursioni acustiche. Un lavoro mastodontico e impegnativo per chi l’ha concepito e per chi ne dovrà fruire… ma con un fascino enorme.

3. High On Fire: “De Vermis Mysteriis”– Matt Pike e soci sono probabilmente fra i gruppi fieramente heavy metal quelli più sottovalutati. Questo disco ha guidato ha lungo la classifica per quest’anno prima che i due nomi che seguono mettessero a segno due dischi superlativi. Tuttavia ciò non deve distrarre dal considerare il lavoro di Matt e soci: nonostante l’età di servizio elevata se l’heavy metal ha un futuro lo si deve a loro.

2. Converge: “All We Love We Leave Behind”– Ancora una volta sul podio, con i Converge è inevitabile. Sono un gruppo decisamente troppo avanti per personalità e coesione, in grado di modellare l’hardcore come nessun altro può anche solo ambire a poter fare. Dietro la furia, la passione e la perizia rendono questo gruppo inarrivabile.

1. Neurosis: “Honor Found In Decay”– Direte che sono di parte e io scrollerò semplicemente le spalle. Questo è IL disco dell’ anno. Dopo che la loro evoluzione sembrava essere giunta ad un punto morto, hanno ripreso in mano la loro carriera con una maestria incredibile e se ho parlato forse in toni un po’ tiepidi al tempo di questo disco era solo perché bisognava farlo crescere con gli ascolti. Recuperano venature sonore dalle carriere solistiche del duo Von Till/Kelly, si aprono solo all’apparenza ad una maggiore accessibilità e ribadiscono la loro ispirazione… adesso non resta che augurarsi il loro imminente ritorno dal vivo, con la curiosità del dopo Josh Graham…


Godspeed You! Black Emperor: “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”

Godspeed You! Black Emperor

Godspeed You! Black Emperor, è uno di quei nomi in grado di farmi venire i brividi su per la spina dorsale, è il nome di un oscuro cortometraggio di bikers giapponesi, ma è anche il nome di un gruppo di musicisti canadesi, di Toronto per la precisione, che veramente si sono impressi nel mio cuore oramai molti anni fa. Molti li classificano post-rock, io sono più propenso a definire la loro musica progressiva seppur non proprio nel senso classicamente inteso, ma chiunque li ascolti si renderà conto di come la definizione sia calzante.

Il gruppo, o forse sarebbe meglio dire l’ensamble (noto precedentemente col nome Godspeed You Black Emperor!), è sempre stato piuttosto avvolto nel mistero, con un numero di membri variabili tra 9 e 15 (!),  una profonda avversione per le istituzioni musicali e non, si veda l’illustrazione nel retro del loro disco “Yanqui U.X.O.” dove si mostrano i collegamenti tra le multinazionali del disco e -per esempio- l’industria bellica, dalle spiccate tendenze ipercritiche nei confronti del governo degli Stati Uniti (lo provano anche certi spezzoni parlati nelle loro composizioni) e assolutamente refrattari a rilasciare dichiarazioni, addirittura nel 2010 hanno deciso di non farsi intervistare mai più.

Dopo la loro  partecipazione al festival All Tomorrows Parties, sempre nel 2010, l’anno del ritorno, l’ensemble è tornato in attività dopo aver abbandonato l’attività nel 2003, senza tuttavia sciogliersi ufficialmente. Durante questo 2012 (che sinceramente mi ricorderò a lungo come una delle annate musicalmente più proficue dagli anni ’90) hanno deciso di tornare sulle scene con un nuovo disco ed ascoltandolo si ritorna ad amarli come un tempo. Le loro composizioni sono, ancora una volta, lunghe, in alcuni casi lunghissime (la durata media sorpassa agevolmente i 15 minuti), raccontano percorsi, si snodano tra immagini… comunicano e ci rimettono in comunicazione con noi stessi. Stavolta forse con più spazio agli strumenti elettrici e con influenze difficilmente inglobate nel passato dal vago sentore mediorientale, hanno il pregio di lasciarsi attraversare come se si guardasse un panorama dal finestrino di un treno: un paesaggio che ha, forse, punti di partenza e di arrivo fissati, ma nel quale lo spostamento puntuale è assolutamente al centro dell’attenzione, si costruisce istante per istante in un contesto cinematico elevato ed evocativo. Per questo, una volta tanto, non posterò singoli brani ma l’intero lavoro per chiunque abbia la pazienza di immergersi in una simile, avventurosa esperienza.

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