2/10/1999

È una data che difficilmente riuscirò a scordare quella del 2 ottobre del 1999. Al Leoncavallo suonano i Fugazi, il CSA salito alla ribalta della cronaca pochi anni prima per la cacciata dalla sede storica ospita il gruppo che rappresenta il simbolo stesso della musica indipendente. È una delle prime trasferte in assoluto, una delle prime occasioni in cui io e l’Oltranzista ci muoviamo in coppia per assistere ad un concerto. Quale occasione migliore. Quale gruppo migliore se non un gruppo leggendario come i Fugazi. Ebbi addirittura l’ardire di immortalare l’evento su una musicassetta da 90minuti che tuttavia non furono sufficienti. All’inizio ci siamo noi due che scherziamo sull’insegna dei fratelli G., che avevano la propria impresa a due passi dal luogo del concerto.

Nessuno dei due c’era mai stato. Nessuno dei due era poi questo grande fan dei Fugazi in quel momento, più per ignoranza che per scetticismo: li conoscevamo ancora troppo poco. Uscimmo da lì che erano diventati uno dei nostri gruppi preferiti e lo saranno per sempre. Due ore e passa di concerto più di trenta canzoni suonate, un’atmosfera di festa senza forzature: partecipe, appassionata. Qualcosa di unico. Un capannone industriale stipato di persone in estasi. Per il modico prezzo di 5000 lire in barba alla SIAE, con l’unico rammarico di non avere tra le mani nemmeno il feticcio del biglietto, solo i ricordi. Solo una MC HF Sony da 90 minuti che poi sarebbe stata soppiantata dal download quando il gruppo di Washigton D.C. rese disponibile in concerto sul sito della loro etichetta, la dischord rec.

Riportare alla mente quei momenti è sempre molto bello, e non solo per la nostalgia, per il fatto che si era più giovani. Il punto è proprio lo stupore: trovarsi davanti un gruppo, fatto di persone semplici e fiere, sinceramente coinvolte in quello che stavano facendo. Ian Mac Kaye che prega tutti di non essere violenti nel pogo, di saltare anziché spingersi, che ricorda un concerto passato al vecchio Lenocavallo nel quale in tetto era andato. E poi un modo di suonare generoso e appagante, una vera e propria esperienza. Chi oggi affronta due ore e passa di concerto? Chi propone una scaletta con 34 brani (!!!), chi porta ancora sulle spalle la propria musica sbattendo fieramente le porte in faccia al music business? È rispondendo a queste domande che ti rendi conto di aver assistito ad un vero e proprio evento, ti rendi conto di essere diventato parte di qualcosa che trascende anche il concetto stesso di movimento musicale, è un vero e proprio modo di essere.

Come dicevano i Minor Threat: almeno loro ci hanno provato! E, per fortuna, ci sono riusciti: i circa 4 milioni di dischi (!!!) complessivi venduti dagli artisti della dischord stanno lì a dimostrarlo. E facendo tutto praticamente  da soli: quando, per esempio Dave Grohl (di Wasinghton D.C. anche lui, oltre ad aver militato negli Scream) intervista Ian nel documentario sonic highways e lui parla di tutte le proposte ricevute dalle major e rispedite al mittente, ti rendi conto della loro grandezza e, al tempo stesso, di quanto potrebbero guardare tutti dall’altro invece non lo fanno. Nel lungometraggio “Instrument” c’è quella lunga carrellata su tutti i volti dei ragazzi che assistevano alle loro esibizioni, quale altro gruppo si priva del ruolo di protagonisti a quel modo?

Quella sera i Fugazi furono stellari, non riesco ad usare un’altra parola per descriverli, semplicemente nel novero dei migliori artisti mai visti dal vivo, si percepiva un’intesa fuori dal comune, una coesione di intenti artistici che, a ben guardare, rappresenta un caso più unico che raro con 10 anni di carriera alle spalle. Vederli suonare fu come imprimere un’immagine indelebile nella memoria, quella di un gruppo che ha sfidato con successo le leggi del mercato, quelle scritte e quelle taciute, che è riuscita a togliersi ben più di una soddisfazione producendo Arte, esprimendosi ai massimi livelli.

Oggi resta sul web una pallida e sfuocata testimonianza in un video di pochi minuti.

Ma la memoria e l’anima ancora fremono per quello di cui sono state testimoni: uno dei più bei concerti di sempre.

I Fugazi non si sono mai ufficialmente sciolti, sono sospesi in un limbo temporale dal quale escono, si dice, a volte per suonare assieme, ma senza pubblico e senza pubblicare più nulla da “The argument” del 2001. I componenti sono comunque rimasti attivi in svariati progetti, di cui il più significativo appare Coriky dell’anno scorso.

Il Leoncavallo è rimasto al suo posto, ma non ci andiamo da secoli.

Io e l’oltranzista siamo orfani di concerti con trasferta dal 17 febbraio 2019. Per questo sto tentando di ricordarmi tutti i più belli ai quali ho assistito, non potevo che partire da questo.

Coriky

Ian Mackaye, Amy Farina, Joe Lally. Questo scritto potrebbe benissimo finire qui. Non sarebbe nemmeno il caso di parlare di chi sono, la musica che fanno è una cosa che ognuno dovrebbe prendersi il piacere di scoprire da solo. Soprattutto se ha nel cuore uno spazio vacante fatto a forma di Fugazi.

A frugare nei ricordi c’è sicuramente uno dei più bei concerti cui io abbia mai assistito: quello dei quattro al Leoncavallo nel 1999, quando, con 5000 miserrime lire, potevi assistere a uno di quegli eventi davvero in grado di cambiarti la vita. Suonare per un’ora e mezza allora era ancora poco (ora si contano sulle dita di una mano quelli che superano questo limite), loro suonarono due ore, forse due ore e mezza. Entravi con un walkman tentando di registrare tutto, ma l’atmosfera che si respirava veniva riportata su nastro in maniera assolutamente troppo riduttiva. Poi più tardi furono loro stessi a rendere scaricabile quello storico concerto come molti altri della loro carriera infinita.

Un passato ingombrante dunque, con il quale i due superstiti e la compagna del chitarrista devono forzatamente fare i conti, ma sapete cosa? Lo fanno con una naturalezza disarmante, senza ansie e senza arroganza. Quando nel loro spazio bandcamp ho visto scritto “They hope to play live” mi sono chiesto: ma davvero esiste qualcuno, nei circuiti underground, che non gli stenderebbe un tappeto rosso davanti? Io li farei suonare a casa mia se potessi e comunque è bellissimo che qualcuno con una siffatta carriera alle spalle scriva una cosa del genere, senza falsa modestia.

Quello che mi colpisce sempre dei personaggi legati ai Fugazi e alla Dischord in generale è la loro semplicità ed umiltà: potrebbero tirarsela a non finire invece sono come li vedi, persone normali, anche se hanno fatto la storia della musica, ridefinendo la parola indipendenza e, allo stesso tempo, vendendo delle buone quantità di dischi senza rinunciare all’integrità che li contraddistingue da sempre. Se sentite il Sig. MacKaye parlare nel documentario “Sonic Highways” di David Grohl (che prima di essere nei Nivana e nei Foo Fioghters era il batterista degli Scream, storica band HC di Washington) sembra di sentir parlare il tuo vicino di casa, se non fosse per gli argomenti.

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Coriky (fonte Bandcamp)

I Coriky sono senza abbelimenti, come la figura su Bandcamp che ritrae tre cerchi uno tale e quale, uno col cappello e l’altro coi capelli lunghi, eppure quando li ascolti, sembra che la magia di quel mondo sia tornata come un fiume in piena. Non possono prescindere dal passato dei due superstiti e sicuramente non guardano tutti dall’alto al basso. Alcune variazioni risultano sufficienti a dare un’identità di spessore a questa nuova creatura. Ovviamente per la maggior parte sono opera di Amy Farina che introduce la sua visione dello strumento percussivo, maggiormente aperto e meno quadrato se volete di quello di Mr. Canty e soprattutto la sua voce che si accosta a quella di Ian e Joe, fa quasi strano sentire una voce femminile ma si incastra alla perfezione. E poi composizioni che funzionano e rimangono in testa, senza essere invasive, dei suoni  scevri da iperproduzioni e postproduzioni, di una naturalezza quasi disarmante che però risultano pieni e corposi fino a riempire l’aria.

Finalmente un disco che punta sulla musica, che pone in primo piano gli strumenti e chi li suona, le composizioni e l’amalgama che unisce tutto questo. Non ne trovate molti altri in giro ed è di diritto una delle cose più belle sentite negli ultimi anni. Per molto tempo è stata disponibile solo “Clean Kill” e l’ho ascoltata a ripetizione vedendo la data di rilascio allontanarsi man mano che la pandemia avanzava, ma ora finalmente il momento è giunto, abbandonate gli indugi e questa pagina, una bella avventura sonora vi aspetta qui.

Formati della musica

In un tempo di pandemia mettersi a discutere di musica potrebbe apparire superfluo, superficiale e fuori luogo. Ebbene non lo è. Perchè senza la musica la vita sarebbe un errore e non l’ho detto io, per tanto finché c’è vita c’è musica e, per quanto mi riguarda, spero che ce ne sia anche dopo. Ogni giorno siamo bombardati da tutti i lati da notizie sulla pandemia, da catastrofiche visioni e immagini tragiche. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, per un momento, può anche valere la pena distendersi un attimo con della buona musica, ma in quale formato? Visto che la maggior parte di noi si ritrova in casa mi verrebbe da dire che non esiste migliore condizione per riprendere in mano la vecchia collezioni di vinili e cominciare con gli ascolti mentre il vicinato spara robaccia a caso come dragostea din tei o altre immonde porcherie sonore, possibilmente sovrastando di gran lunga in volume una siffata immondizia sonora.

Del resto, volendo evitare qualsiasi tipo di commistione con altri esseri umani, l’ideale rimane scaricare musica da siti che, si spera, supportino a dovere gli artisti come bandcamp. Lo streaming, mi scuserete, ma non lo prendo nemmeno in considerazione. Una discografia degna di questo nome già stona in un HD o un SSD figuriamoci in uno spazio virtuale a pagamento. Con buona pace di tutti gli appartenenti a questo nuovo filone di pensiero cosiddetto minimalista che considera il supporto fisico uno spreco di spazio, io non permetterò mai che si venga meno alla copertina, ai testi e anche alla gioia di tenere in mano un disco nuovo. Al diavolo lo spazio, la tristezza che mi fa una casa senza dischi (senza stereo!) ma anche senza libri non posso spiegarla a parole. E mi spiace se è antiecologico, io sono già vegetariano (quasi vegano ormai) dal ’94: la mia parte l’ho fatta e continuo a farla, lasciatemi con i miei amati dischi.

Ma veniamo a noi, ecco una personalissima disamina dei vari formati di musica.

Vinile: Mi verrebbe da dire la definitiva esperienza sonora che potete fare a casa vostra. Il vero feticcio voodoo di ogni musicofilo che si rispetti: una copertina di un formato nel quale non è impossibile cogliere particolari invisibili altrove, una busta interna spesso non scevra da bellissime sorprese (e non sto parlando solo di Lies dei Guns’n’ Roses!) e poi il pezzo di vinile sempre meno nero. Nulla batterà mai il vinile per quanto mi riguarda. I Difetti sono che è estremamente fragile e tende a usurarsi man mano che viene utilizzato, ma se ne avete cura non vi tradirà troppo velocemente e vi garantirà una resa che un supporto digitale fatica ad offrire anche se, per essere apprezzata appieno, necessita di un impianto come si deve. Attualmente è un formato caro, impegnativo ma elegante e prezioso, io cerco di riservarlo solo a quei dischi che reputo veramente meritevoli… chessò avere il vinile di un disco mediocre non sarebbe comunque questa gran cosa.

Primo vinile preso: “Every Breath You Take” 7″ dei The Police

CD: Anche i CD sono una parte importante di me. Sono cresciuto con i CD in un’epoca in cui il vinile era pressoché scomparso per poi rientrare prepotentemente solo in seguito. Chiunque fosse stato adolescente o post- adolescente negli anni ’90 sicuramente ha avuto nei CD il supporto più popolare. Il vero pregio è che, se correttamente manutenuto, è pressoché eterno e non peggiora con gli ascolti, il difetto è che ha un suono “freddo” decisamente poco avvolgente, un po’ come la luce fredda delle lampade a LED: brilla senz’anima. La copertina ha un formato decisamente risicato anche se era bella l’idea del libretto interno piuttosto della busta dei vinili.

Nota: attenzione a comprare ristampe in vinile di dischi usciti originariamente in CD, mi è capitato con i Kyuss e devo dire che, in quel caso, i CD suonano molto meglio. Probabilmente il master della registrazione non era settato per le caratteristiche del vinile… Difficile a dirsi.

Primo CD : “Nevermind the bollocks” dei Sex Pistols

 

MC: Ultimamente c’è stato un ritorno a questo formato che, onestamente, tra tutti quelli fisici è quello che mi esalta meno, benché ci sia stato un periodo, all’inizio, dove non avendo un piatto, compravo praticamente solo cassette. La copertina è ridicolmente piccola (in certe cassette della EMI è ancora più piccola), la resa sonora scarsa e, al giorno d’oggi, non ha nemmeno più senso come supporto versatile per le registrazioni, quindi, nonostante il revival tendo a non considerarlo molto. Inoltre ha la sinistra caratteristica di smagnetizzarsi e le testine parimenti sono tutt’altro che eterne. Obsolete.

Prima cassetta presa: “Back In Black” degli Ac/Dc

MP3: Questa è storia recente… tutti conoscono gli mp3, si tratta di files compressi che tagliano certe frequenze per risultare meno “pesanti” in termini informatici. Sicuramente comodi per un utilizzo versatile per evitare di rovinare, portandoli in giro, i supporti fisici. In tempi di pandemia anche piuttosto antisettici visto che uno se li scarica direttamente sul PC, senza contatti fisici con i rivenditori. Tutto questo a discapito del fascino che è assolutamente assente. Personalmente mi servo, se possibile, da Bandcamp che mi sembra il mezzo anche più rispettoso nei confronti degli artisti. Se avete notizie diverse fatemelo sapere.

Primo MP3: Qualcosa di scaricato da Napster alla faccia dei metallica

PS: è stata rinviata l’uscita dell’esordio di questo affascinante progetto ma sono giorni che ho in testa questa canzone… dannato virus.

 

Indipendenza dichiarata

Se la parola “indipendente” ha mai assunto un qualche significato quando si tratta del mondo della musica, questo significato si deve, in massima parte, a tutte le persone che fieramente si sono costruite da sole la propria etichetta discografica al di fuori delle logiche corporative e di affari.

Sia sempre lode e gloria a voi etichette indipendenti, solo voi sapete quanta fatica sta dietro al vostro lavoro, quanto impegno e quanta dedizione siano necessari a portare avanti un progetto senza contare su uffici stampa e promoter prezzolati, infischiandosene (o quasi, pure loro devono restare in vita!) delle logiche di mecato massive, delle mode e delle tendenze commerciali.

La madre di tutte voi, mi sento di dirlo, è la Dischord Records, l’etichetta dei mai troppo celebrati Fugazi, di Ian MacKaye e tutti gli amici suoi. Proprio in questi giorni è circolata la notizia del grande rifiuto dei nostri di riunirsi dietro compenso. Ian si è limitato a dire che gli sembrava più un’ attestazione di stima che una reale offerta, quindi ringrazia per le belle parole ma non ritiene che ci sia nulla da prendere in considerazione. Ciao ciao Ted Leonsis, il quale dal canto suo, dichiarò che avrebbe offerto dei soldi a nome della band alle principali associazioni di carità locali ma poi non ha nemmeno insistito troppo: forse non ci credeva fino in fondo.

Di quando in quando, è risaputo, i nostri si incontrano ancora per suonare. Lo fanno per loro stessi. In anni e anni il loro telefono ha squillato tantissime volte: dall’altra parte del filo etichette maggiori, impresari, agenzie di promozione di vario tipo… tutte le loro proposte sono sempre state rispedite al mittente, sia per riformare il gruppo, sia per assorbire l’etichetta.

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Joe Lally e Brendan Canty

Questi ragazzi iniziarono presentandosi di tipografi con copertine di LP “smontate” e gli chiesero se potevano farne di similari, poi se le incollarono da soli, cominciando a prendere contatti per far stampare i vinili.  Iniziarono in questo modo e finirono per vendere circa 4 milioni di dischi in tutto il mondo. La loro esperienza è stata fonte di ispirazione per tantissime altre realtà nella musica indipendente, la dimostrazione che l’impegno e la passione pagano. E, alla fine, anche l’integrità morale.

Dalla fine dei Fugazi hanno avuto origine alcune altre compagini e, tra queste, The Massthetics che ereditano dalla band madre la sezione ritmica ovvero Joe Lally e Brendan Canty. Si tratta di un trio, completato alla chitarra da un nerdissimo Anthony Pirog, dedito a composizioni musicali che si muovono da qualche parte tra il rock ed il jazz, senza una parola cantata. Ad un primo ascolto si rimane un po’ interdetti, ma lentamente le loro canzoni si insinuano nell’apparato uditivo come un accompagnamento cangiante nei toni e nell’umore, ed alla fine entrano. E sono un bel sentire.

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Anthony Pirog

Personalmente quest’ anno ricorre l’anniversario della prima (ed unica) volta che vidi il gruppo di Washington D.C., nel 1999 appunto al Leoncavallo. Inutile dire che fu un evento storico che aprì le porte ad una serie di concerti che perdura ancora oggi. Per 5000 lire avevi l’opportunità di assistere ad un concerto indimenticabile, due ore e più di musica (chi diavolo è che, ad oggi, suona ancora per due ore!?) suonata con un’intensità incredibile pescando da quasi tutto il repertorio dei quattro. Una roba da libidinosi sonori. Ne uscii con una cassettina registrata clandestinamente e le costellazioni di stelle negli occhi. Più tardi, una volta scoperto che molti loro concerti erano disponibili in rete, mi scaricai l’intero concerto che, a mia insaputa, era stato a sua volta catturato.

E così il capitolo si chiuse. Fino all’altra sera quando, dopo 25 anni, ho rivisto Joe e Brendan allo Spazio 211 di Torino. In realtà Joe l’avevo già visto qualche anno fa alla gloriosa associazione “Perché no?” di Verbania (un posto che rimane consegnato alla storia) dove suonò assieme agli Zu… però era decisamente un contesto diverso.

Credo che tutti quelli dell’ambiente Dischord siano persone che, per i loro meriti artistici e non, potrebbero tranquillamente peccare di superbia con chiunque. Invece sono umili, semplici e con i piedi per terra: Joe e Brendan sono esattamente così, tranquilli ed alla mano… li vedi da come si mischiano alla gente, da come ti sorridono, da come salgono sul palco. E, a parte la musica, quest’attitudine ti colpisce: fanno sembrare tutto naturale e semplice… hanno un’aura da belle persone, anche se non li conosco, non so come dirlo altrimenti, quindi non uso giri di parole.

Il concerto fila via liscio, concreto e coinvolgente. Come dicevo, loro a parte, il chirarrista è un prototipo di secchione dello strumento, suona circondato da effetti sui quali mette le mani in continuazione e a tratti pare pure una versione dimagrita di Verdone. Però nulla da dire su come suona:  il suo compito è ricamare su quello che gli altri due costruiscono e, probabilmente, gli elementi jazz sono un suo retaggio. Non c’è traccia di nostalgia o elementi che possano eccessivamente rimandare alla band madre, vivono di vita propria con una personalità ben definita pur essendo, in parte, le stesse persone.  Era la prima esibizione in terra italiana ed è stato un privilegio assistervi e dimenticare la quotidianità per tutta la durata del concerto.

La Dischord (ed i Fugazi) appartengono alla storia, ma la fiamma è accesa, arde e freme e spero che non smetta mai.

Fugazi. F**ked Up Situation.

Una situazione fottuta. Come camminare in pantaloncini corti per il proprio paese all’alba del 3 gennaio e leggere lo stupore sulla faccia delle persone, mentre le foglie marce di ghiaccio ed acqua gelida ti scricchiolano sotto le suole, vecchie di tre anni, lise e consunte, a tratti abbrustolite dal tempo. Come una libera associazione di idee che ti fa star male.

Libertà. Incomunicabilità. Verità. Fiducia. Solitudine. Speranza.

Ognuno trovi le sue connessioni seguendo il filo rosso del ragionamento e dell’esperienza: è un percorso irto di spine esistenziali, di contusioni morali, di sfibramenti nervosi, di umiliazioni sostanziali: unire i puntini da  qui al giorno della nostra dipartita più o meno definitiva. Non arrendersi innanzi alla pochezza dei risultati, non essere soddisfatti di quozienti deludenti, non fidarsi di risultati falsati dal prossimo e nemmeno delle parole pronunciate al di fuori della nostra testa.

Ognuno di noi è un codice in attesa di essere decifrato correttamente, una sonda scagliata nel buio e freddo ignoto, nella speranza di venire raccolta ed accolta. Una prospettiva affascinante ma a tratti tragica, poiché ciò che va perso nell’opera di decriptaggio ci restituisce la misura del nostro isolamento non volontario. E mina pesantemente la strenua opera di avvicinamento tra esseri (si suppone) simili. Ancora una volta occorre dedizione, impegno e forza di volontà nel tentativo quotidiano di superare l’oceano di pressapochismo spirituale che ci circonda, ancora una volta la sensazione è quella di essere cani impazziti che tentano di mordere la propria coda. Un gioco che stanca in fretta, una situazione fottuta, come ogni essere umano sensibile e pensante.


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