A.D. 2019

Ho volutamente aspettato fino alla fine nella speranza di qualche nuovo spunto, mi sono giunti all’orecchio solo i Naga da Metal skunk che però, per quanto mi concerne, pur concordando sui loro meriti, risultano troppo derivativi  per entrare nel novero dei migliori dieci dischi usciti quest’ anno.  Dunque andiamo con ordine.

10. Liquido di morte IIII: Nuova prova per i Milanesi, ancora una volta un disco strumentale carico di pathos e trasporto emozionale. Stavolta si muovono ancora su lidi onirici, spesso dilatati, a volte sottilmente inquietanti. Si confermano come una bella realtà che purtroppo non sono ancora riuscito a vedere dal vivo. Valore aggiunto (senza dubbio) lo stellare artwork di Luca SoloMacello che produce addirittura 200 copertine diverse. Da avere,

9. Crushed curcuma Tinval: Un doveroso omaggio alla Biella che mi piace. Un disco ancora una volta strumentale da parte di un gruppo che va via via aumentando il suo bacino di ascolto, finendo per suonare anche in posti lontani da casa (ultimamente Roma e Milano) e raccogliendo consensi da parte della critica specializzata. La loro proposta promette un tappeto sonoro elettronico sul quale svetta un sassofono in grado di apportare un’ulteriore apertura al suono. A momenti suonano quasi etnici, molto più spesso psichedelici e a tratti dilatati. Difficile descriverli oltre, provate ad addentrarvi e lasciatevi catturare.

8. Saint Vitus Saint Vitus: dentro nuovamente Scott Reagers, fuori Mark Adams, Dave Chandler rimane sempre di più al comando della sua creatura, facendo uscire il secondo disco omonimo della storia del gruppo e centrando l’obbiettivo maggiormente rispetto a quanto fatto anni prima con la formazione con Mr. Wino dietro al microfono. I brani appaiono maggiormente focalizzati, benché la durata del lavoro risulti sempre piuttosto risicata, c’è un impeto maggiore, una maggiore convinzione. Il lavoro appare più organico e coeso ed anche l’ ennesimo reinserimento del cantante originale sembra riuscire più del ritorno con Wino dietro al microfono che, comunque, nel frattempo ha pure trovato il sistema di rientrare egregiamente con gli Obsessed. Non siamo ai livelli del pre-reunion, ma comunque un lavoro per il quale vale la pena di scucire qualche pizza di fango.

7. Edda Fru Fru: Dopo ancora altri ascolti, l’opinione in merito non è cambiata. Si tratta di un’opera frivola e leggera dietro la quale si agita uno degli ultimi artisti sinceri e veri della musica italiana. Graziosa utopia era di un altro pianeta, ciò non significa che questo nuovo non sia piacevole e regali dei momenti di godimento sonoro (e anche lirico) notevoli, pur non raggiungendo certe vette, rimane una spanna sopra ciò che l’ Italia in media ha da offrire.

6. The Haunting Green Natural Extintions: Una gran bella scoperta fatta grazie a Blogthrower. Un duo dedito ad una musica quasi strumentale i cui numi di riferimento sembrano arrivare in parte da certo black metal evoluto ed in parte da una forma di post metal (Neurosis e compagnia), il tutto rivisto in un’ottica molto personale e intensa. assolutamente degni di attenzione e supporto.

5. Monolord No comfort: Un gruppo derivativo, ne convengo. Ma posso fare eccezioni e per loro le eccezioni le faccio più che volentieri. La prima volta che ho ascoltato questo disco mi sono detto che era tutta roba che avevo già sentito da qualche altra parte. Ma poi l’ho ascoltato una seconda, una terza, una quarta volta e così via, finché non sono più riuscito a scrollarmelo di dosso. Non importa se poi i rimandi a Black Sabbath ed Electric Wizard si sprecano, alla fine i Monolord vivono di vita propria. E che vita! Io avrò sempre bisogno di dischi come questo. Grandissimi Monolord!

4. STORM{O} Finis terrae: Non c’erano dubbi che finissero anche i feltrini in questa lista. Un disco vibrante e veemente, nel quale esce probabilmente quello che è il loro lato più nervoso e violento. Un disco teso, instabile eppure solido e con le idee incredibilmente chiare con momenti più riflessivi e, a tratti, quasi evocativi ma che fa dell’impeto il suo credo. Superlativa la prova del batterista Stefano. Tremate. Tutti.

3. Iggy Pop Free: Ho già parlato anche troppo di questo lavoro, se ancora non l’avete ascoltato, fatelo.

2. Chelsea Wolfe Birth of violence: Posso solo aggiungere a quanto riferito  a suo tempo che più uno si inoltra negli ascolti, più le sfumature si insinuano nell’ascoltatore ed il disco aumenta di spessore. Una ulteriore sfumatura di se stessa messa in musica da parte di quella grandissima artista che è Chelsea Wolfe, che con un altro disco superlativo, si conferma ad altissimi livelli.

1. Tool Fear Inoculum: Sono già pienamente al corrente di tutte (e dico tutte) le critiche sono state mosse al gruppo e a questo disco. Alcune le condivido, altre meno, alcune per niente. Però ad un certo punto bisogna anche guardare in faccia alla realtà: questo è stato il disco che ho ascoltato, gradito e ammirato di più durante tutto il 2019. Il resto sono chiacchiere.

Gente che è rimasta fuori:

Sunn 0))): Ben due uscite per il gruppo di O’Malley e Anderson. Nessuna delle due è in lista, eppure sono uno dei miei gruppi preferiti. Pur riconoscendone il valore ed adorando la proposta non li ho messi perché non vedo l’ora di vederli dal vivo e la trasposizione su vinile di quello che sviluppano in sede di concerto non è che un pallido tentativo di descriverlo. Vale la pena averli ed ascoltarli. Comunque.

Baroness e Nick Cave and the Bad Seeds: La verità è che non sono riuscito ad ascoltarli a dovere: i Baroness mi suscitavano emozioni troppo contrastanti e mi mettevano in un pessimo stato d’animo senza una spiegazione oggettiva del perché lo facessero. Di “Ghosteen” ho ascoltato solo un brano che mi è parso più pesante di un macigno. Non ho ancora avuto la presenza di spirito e la forza d’animo per approfondire.

Colle der Fomento e Carmona Retusa: Fuori tempo massimo. Non ho inserito i Colle solo perché l’anno scorso non ho fatto in tempo ad ascoltare debitamente “Adversus” e quest’anno non posso inserirlo perché è temporalmente sbagliato. Comunque il loro lavoro, a mio parere, confermando la mia ignoranza relativa sul genere, rappresenta il più bel disco di rap mai scritto in Italia per testi e musiche.

I Carmona Retusa li ho scoperti in concomitanza con l’intervista rilasciata con Blogthrower ma il loro disco, dal titolo ispirato ad Andrea Pazienza è addirittura uscito a marzo del 2018, quindi nulla. Ciò non tolga nulla al loro valore, sono bravissimi e meritano molto più successo.

Sudditanza psicologica: vale la pena curarla

Quando leggevo ancora le riviste su carta stampata riguardanti la musica metal e tutte quelle cose lì, soprattutto nel primo periodo, si parlava spesso del fatto che, in un mondo ideale, il seguace della musica metal era tale per la vita. Si parlava di fedeltà ai gruppi, allo stile di vita, alla scena. Tutto molto nobile e bello, anche abbastanza naïf, al punto che si arrivava anche ad ipotizzare di una cosa chiamata fratellanza all’interno del movimento, cosa che si concretizzava in molti casi. Fin qui tutti lati direi positivi della questione, in media l’ascoltatore medio di metal pre-Nirvana e Guns’n’roses (che poi sono quelli che più di tutti hanno sdoganato un certo tipo di sonorità pur non essendo metal in senso stretto) era una sorta di personaggio strano, da una parte un ribelle, ma dall’altra nemmeno troppo, non così tanto come avrebbero potuto esserlo gli autonomi o certe frangie estreme di punk-hardcore. Le due correnti di pensiero, all’inizio, erano ben lungi dal mischiarsi e, anzi, i punk vedevano i metallari quasi come dei reazionari a dirla tutta.

C’era dunque bisogno di unità, c’era bisogno di figure carismatiche intorno alle quali stringersi, fare gruppo e, in qualche modo, resistere dinnanzi agli sguardi quantomeno interdetti della “gente normale”. Adesso sembra fantascienza. Tutte queste cose hanno completamente perso il loro senso. La normalizzazione avanza.

Sbranano, sputtanano ogni cosa e la riducono ad un cliché.

Ce ne siamo accorti tutti: oggi chili di borchie, giubbotti di pelle, sguardo torvo e capelli lunghi (ad averceli ancora!) non spaventano più nessuno. Eppure a distanza di 35 anni c’è chi non vuole mollare i propri idoli. Credo che tutti i metallari, chi più chi meno, soffrano di questo atteggiamento e, a ben vedere, ogni fan di qualsiasi gruppo rimane deve rimanere decisamente deluso dai suoi beniamini per non volerne più sapere. Infatti c’è ancora gente capace di spendere fior di bigliettoni per vedere i merdallica (mai visto gruppo meno rispettoso dei propri fan), che nonostante tutto continua a ritenere fighi gli Iron Maiden, anche se non rilasciano più un disco significativo dai tempi di “Fear of the dark” (anche se l’ultimo veramente bello è “7th son”), che non ammette che gli Slayer sono finiti da tempo, che non può fare a meno dell’ultimo isostenibile lavoro degli Opeth, che ancora sopporta Manowar e Judas Priest che io, per altro, non ho mai potuto reggere.

Io stesso sono vittima di questo processo: cerco i Black Sabbath costantemente nei gruppi che ascolto, a volte provando anche un piacere sottile ma  intenso (tipo ascoltando l’ultimo dei Monolord: ragazzi vi voglio bene!). Anni fa (2010), in Norvegia, capitai a Bergen il giorno stesso di un concerto degli Iron Maiden e come potevo non fare di tutto per andarci? Poi ok, mi sono sorbito tutte quelle canzoni nuove che mi hanno tritato i maroni da morire (a parte “Blood brothers” perché sentirla cantare da 35000 vichinghi è una gran cosa) ma le mie lacrime si sono confuse con la pioggia durante “Hallowed be thy name”…nessuno è immune.

Solo che a un certo punto basta. Adesso si paventa addirittura una cosa ignobile tipo Iron Maiden 2.0. Putroppo le cose finiscono e per diventare leggende si muore giovani, facciamocene una ragione. Poi, anche chi dice che ormai certa musica è finita sbaglia. Si tratta solo di evolvere, di guardare altrove senza aver paura di ammettere che certe cose hanno inesorabilmente fatto il loro tempo.

Tra parentesi, Iggy Pop ha fatto un disco clamoroso superati i 70 anni. L’eccezione è possibile. Bisogna continuare a crederci.

 

 

Il futuro della musica II

chelsea
Deranged for rock’n’roll

Se mi avessero chiesto una quindicina di anni fa quali gruppi avessero in mano il futuro della musica, avrei risposto senza esitazioni: Neurosis, Tool e Converge. Mi fa piacere che oggi quei gruppi siano ancora in relativa buona salute. Solo che, nel frattempo, Tool e Neurosis sono diventati gruppi dalle tempistiche mastodontiche, un po’ per narcisismo e un po’ per necessità e non si intravvedono in esse i margini di evoluzione del suono che sembravano esserci un tempo. Circa i Converge, godono di buona salute devo dire, “The dusk in us” è un disco che tiene altissimo lo standard qualitativo dei loro lavori. Con qualche momento di stanchezza relativa nella loro discografia (chi ha detto “No heroes”?) e qualche distrazione di troppo di Kurt Ballou, impegnatissimo sul fronte produzione, sono forse quelli che hanno retto meglio il passare degli anni.

Ma oggi, sinceramente, cosa tiene viva la musica? Si fa prima a dire cosa la ammazza: i maledetti talent show, la maledetta mania del tutto e subito di porcherie come spotify, i concerti faraonici dal prezzo impopolare ed ingiusto: cose come queste. Io mi sento braccato da queste cose, ma non mi hanno ancora preso. E resisterò fino alla morte.

Poi in un mese escono tre dischi come l’ultimo dei Tool, “Free” di Iggy Pop e “Birth of violence” di Chelsea Wolfe. Non può che essere un segno che non sono solo nella mia battaglia. Sul primo posso accettare obiezioni, e qualcuna è venuta in mente anche a me, sugli altri due no.

Lo sapevo che ascoltare un brano in anteprima su you tube sarebbe stata una mossa sbagliata, infatti con le altre anteprime ho resistito. Ma era talmente tale tanta l’attesa di lasciare entrare nelle orecchie qualcosa di nuovo firmato da CW che per liberarmi della tentazione ho dovuto cedere. Ero già consapevole dell’errore: “The mother road” non mi fece una bella impressione, invece ascoltata su disco mi ha ammaliato, per un attimo ho quasi pensato che Siouxsie si fosse appropriata del microfono, e da lì in poi è stata solo adorazione per questa fantastica artista californiana che ben difficilmente si fa cogliere in fallo con lavori che siano anche solo meno che coinvolgenti.

Un disco intimo ed intimistico. L’ho ascoltato per la prima volta nell’isolazione di un abitacolo, col sole che giocava a fare l’ effetto serra per farlo sbocciare meglio. In autostrada e stanco dopo una giornata di lavoro. Mi ha tenuto sveglio ed attento pur cullandomi. Perché, in questo lavoro, è questo che fa Chelsea: da una parte ti avvolge e ti riscalda con poche note acustiche e con la sua voce meravigliosa e, quando hai abbassato la guardia, inietta il ghiaccio nelle tue vene, l’inquetudine nell’anima, il buio nei pensieri.

Nonostante questo, ti fa sentire maledettamente vivo: allontana la solitudine con un soffio di grazia inaudita. Senza nascondere la realtà, getta un ponte in direzione dell’ascoltatore, offre una possibilità di salvezza nella condivisione. Almeno questa è la sensazione che ne ho ricavato fin’ora perchè mancano ancora svariati ascolti per cogliere quest’ opera in modo maggiormente compiuto. Mi manca di addentrarmi meglio nei testi, di scorgere i dettagli sonori sfuggiti e mi manca di far germogliare le canzoni con attenzione amorevole negli organi sensoriali.

Comunque appare assolutamente chiaro che chi riesce ad evocare tale sensazioni, chi riesce a dipingere scenari musicali di una tale intensità ha in mano il futuro della musica. E non si può fare a meno di volerle bene.

Il futuro della musica I

Si può dire quello che si vuole della iconica figura dell’ Iguana di Detrot, James Osterberg, tranne che a 72 anni rappresenti il passato della musica. L’ ultimo disco uscito a suo nome è di pochi giorni fa e si intitola “Free”. Libero. Non esiste un altro artista dal percorso uguale al suo. Non esiste nessun altro cantante che possa dire di aver esporato così tanti aspetti del suo io. Dalla veemenza incontrollata ed incontrollabile degli esordi alla fuga creativa berlinese, dal rock’n’roll fisico e possente di dischi come “Instict” alla ricercatezza di “Avenue B”.

Senza menzionare aspetti non propriamente legati alla musica come le collaborazioni con Jim Jarmusch (esilarante il ruolo in “Dead man”, quasi surreale il dialogo con Tom Waits in “Coffee and cigarettes”: una cosa che avresti pagato parecchio per poter vedere dal vivo oppure nel recente “I morti non muoiono”), senza tralasciare “Restare vivi” una sorta di toccante esperimento cinematografico con lo scrittore Michel Houllenbecq circa il male di vivere.

L’Iguana è vivo, lunga vita all’Iguana, L’Iguana è libero, libertà per l’Iguana.

Il ricordo personale che ho legato a Iggy è senz’altro il concerto gratuito al parco della pellerina a Torino nel 2004. Un parco pieno a dismisura. Prima degli apriprista Dirty Americans, dei quali non credo qualcuno si ricordi ancora, parte la versione di Hurt di Johnny Cash e nonostante il marasma, rimango pietrificato ad ascoltarla in un misto di stupore e reverenza, visto che probabilmente ero l’unico a non sapere che l’avesse rifatta (credo che lo stesso Trent Reznor espresse sentimenti simili circa il rifacimento). Poi, giustamente introdotti da “Kick out the jams” (calciate fuori le inibizioni!), entrano Mike Watt (che ancora sembrava frastornato nel sostituire lo sfortunato Dave Alexander al basso), i due fratelli Asheton e Iggy. Un’ora circa di delirio ed estasi. Moltissimi estratti dall’omonimo primo album, da “Fun house”, nessuno da “Raw Power”(!!!) e qualcosa da “Skull ring”… ma al centro della scena un 57enne (allora) che salta, corre e finisce inesorabilmente per “scoparsi” una montagna di amplificatori, nonstante la convalescenza per un’operazione all’anca che lo rendeva ancora un po’ claudicante. Animale da palco, artista allo sbando, rocker per antonomasia. Molte altre cose che è difficile esprimere a parole. Iggy ha suonato e collaborato con chiunque e, tutto sommato, è rimasto sempre un artista vicino al suo pubblico e autentico.

“Post pop depression” doveva forse essere il suo ultimo disco, un lavoro misinterpretato dai più che si aspettavano fuoco e fiamme dalla collaborazione con Josh Homme: decisamente un artista, quest’ultimo, che sta vivendo una stagione poco felice dal punto di vista artistico, nonostante sia osannato da un certo pubblico alternativo ma massificato che probabilmente lo avrebbe fatto inorridire una ventina di anni fa. Eppure ne uscì un bell’album che invece di pescare nella furia grezza degli Stooges (cosa che i più si aspettavano), si rifaceva esplicitamente (un titolo come “German days” dovrebbe essere sufficientemente eloquente per tutti) al periodo della felice unione artistca con David Bowie riuscendo nel difficile compito di rianimarne lo spirito. “Free” è diverso: non pesca dal passato ma getta uno sguardo sereno e fresco sul presente, sul fatto che, dopo una vita dedita al rock, il nostro si è sgravato dai fantasmi e si libera nell’etere come un fiato di tromba, come un urlo o come un vibrare di corda… come qualcosa che spicca il volo. Per sua stessa ammissione è un disco non cercato: l’artista l’ha “lasciato succedere” grazie alla collaborazione con nuovi musicisti (Leron Thomas e Noveller) che hanno offerto un ulteriore cambio di prospettiva. Tutto in questo disco sembra molto disinibito e  leggero, anche quando il discorso si fa elevato declamando Dylan Thomas. Un’opera risucita e scevra da ancoraggi gravitazionali. Ancora un’ altra sfumatura iridescente della lucida pelle di rettile dell’Iguana.

Count down to 2017

 

Odio capodanno. Amo l’inverno. E’ il periodo per tirare le somme. Ma è una mera convenzione presa in prestito da anni di calendario gregoriano. Potrei tirare le somme anche a marzo o a novembre, ma oramai ho cominciato a farlo a dicembre e mantengo le tradizioni. Odio le tradizioni, le occasioni, le feste comandate. Non mi servono per ricordarmi le cose. Non le festeggio. Sdegno le convenzioni eppure ne accetto una minima parte per inerzia e per pigrizia. E perché alla fine di ogni anno devo tirarne le somme musicalmente parlando, almeno per ricordarmi di dov’ero e cosa facevo. Capirete cosa state per affrontare. 10 dischi per il 2016. E via.

10. Deftones “Gore”

Tutti hanno fatto a gara a parlare male di questo disco. Spero si divertano. A me è piaciuto. E’ da due tornate discografiche che i Deftones mi emozionano, certo, non come negli anni ’90 ma, a mio parere, hanno riguadagnato smalto e ispirazione. Felice di essere l’unico a pensarla in questo modo. In particolare “Phantom bride”, bellissimo testo e chitarra di Jerry Cantrell.

09. Melvins: “Basses unloaded”

Non potevano mancare. Un gruppo degno di venerazione, anche se ultimamente Dale e Buzz finiscano per timbrare dignitosamente il cartellino ogni anno, in compagnia di questo o quell’amico a me non importa. Penso che i due abbiano abbiano ampiamente dimostrato tutto quello che dovevano e adesso finiscano per mantenersi senza dover cercarsi un lavoro comune. Rimane il fatto che Mr. King, per quanto mi concerne, è secondo solo a Mr. Iommi per la capacità di mettere in fila delle semplici note. Up the Melvins no matther who plays bass!

08. Iggy Pop “Post Pop Depression”

Bowie è morto. E non troverete il suo disco in questa lista, così come non troverete quello di Leonard Cohen. Non li ho ascoltati, non volevo gettarmi nel calderone delle condoglianze, della tristezza, dei riconoscimenti dovuti per due artisti che non ho approfondito come avrei dovuto. Al cordoglio ci ha pensato Iggy e lascio a lui la parola per piangere Bowie. Pensatela come volete, questo disco, per me, è un enorme tributo al Duca Bianco, ripesca l’atmosfera di “The Idiot”, il primo disco della nuova carriera dell’iguana solista, in tutto e per tutto patrocinata dall’amico. E mi faccio beffe di tutti quelli che sono stati delusi aspettandosi che Josh Homme prendesse il posto di Ron Asheton per dare vita ad una nuova incarnazione degli Stooges. Le sue parti di chitarra avrebbe potuto suonarle chiunque, però fortunatamente il disco funziona.

07.In the woods… “Pure”

Un ritorno che non ti aspetti per una band norvegese che ha prodotto uno dei dischi più toccanti degli anni ’90 (“Omnio”) e come al solito non sai cosa aspettarti. Avrebbero potuto rovinare ogni bel ricordo… e fortunatamente non lo fanno, la paura era tanta. Certo a volte il disco suona stanco e fatica a prendere il volo, ma nella seconda parte sembra veramente ritornato agli antichi fasti, lontane le radici black metal, la fiamma del prog è ancora splendente e tutt’altro che autoindulgente. Bentornati.

06. Liquido di Morte “II”

Un disco strumentale? Certo. E’ una rarità che non può mancare, soprattutto se si tratta di uno dei migliori gruppi italiani al momento. Coinvolgenti. Ipnotici. Ispirati. Occorre essere dello stato d’animo adatto ma poi ti trascinano via. Lontano.

05. Kvelertak: Nattesferd

I gufi non sono quel che sembrano. I Kvelertak escono dal pantano (per quanto intrigante) del loro secondo lavoro e ritornano con un disco fresco dal deciso piglio rock’n’roll con pochi fronzoli e molta decisione. In pochi ci avrebbero scommesso eppure il disco vince in freschezza compositiva e trascinante foga. Mischiare black metal e rock può sembrare azzardato e loro ci sono riusciti, riprendere le redini di una proposta che aveva mostrato un po’ la corda solo alla seconda uscita forse era ancora più difficile. Ora non c’è due senza tre. Norway, here we come!

04. Darkthrone: Arctic Thunder

Io e l’altro unimog consideriamo i Darkthrone come i nostri padri spirituali, specialmente dopo l’abbandono della fase blackmetal. A loro non importa nulla e nemmeno a noi. Impegnati nella loro sempiterna crociata per il metal, quello esente da ogni suono plastificato, che ha il suo habitat naturale in qualche bunker svizzero impenetrabile nella prima metà degli anni ottanta, come fai a non stimarli? Quando poi abbiamo visto un fuoco rupestre in copertina, la vicinanza si è accorciata ancora. Rustici e veri, nel senso più genuino del termine, incidono un altro disco alla faccia di chi gli vuol male. E tanto basta.

03. Nick Cave and the Bad Seeds: “Skeleton tree”

Credo di aver scritto già a sufficienza di questo disco quando uscì. E visto che fa della sottrazione la sua forza non mi sento di aggiungere nulla se non che, a ben vedere, dovrebbe essere fuori “classifica” in quanto troppo intimo e sofferto per poter figurare in una cosa così frivola e vacua. Ci finisce solo perché non posso non ricordare un dico come questo. Curioso come la separazione tra lui e Blixa alla fine ce li restituisca entrambi in splendida forma (così ricordo anche “Nerissimo” e il bellissimo concerto a Milano con Teho Teardo).

02. Klimt 1918: “Sentimentale jugend”

Otto lunghissimi anni di silenzio. A me i Klimt 1918 sono mancati e parecchio. Il mio incontro con loro avvenne in una situazione che mi rende impossibile non considerarli vicini al cuore. Durante un viaggio a Vienna, in pieno trip Klimtiano da tre musei al giorno senza tregua, entro in un negozio di dischi (c’erano dubbi?) e scartabellando tra i CD mi viene tra le mani il loro, bellissimo, “Dopoguerra”. L’ho preso come un segno del destino e da allora occupano un posto speciale tra i miei ascolti.

Un doppio CD potrebbe essere una mossa decisamente pretenziosa e forse azzardata. Ebbene non lo è. Il lavoro è inteso, pregno di lirismo e ispirazione, magari non semplice da ascoltare di seguito eppure assolutamente affascinante nel concept (Germania anni ’80 e Roma), soavemente etereo e atmosferico. Non fateci mai più attendere tanto!

01. Neurosis: “Fires within fires”

Mi spiace, nessuna sorpresa. Dopo 10 minuti della loro esibizione bresciana dello scorso 11 agosto avevano agilmente spazzato via qualsiasi cosa avessi visto dal vivo nell’ultimo periodo. Semplicemente questo. Possiedono un’intensità ineguagliabile. Un suono personale e mutevole, senza che per questo si snaturi. Evolvono disco dopo disco, concerto dopo concerto. La loro ultima incarnazione è scarna, essenziale diretta.

Dritta al cuore, dritta all’anima all’origine stessa della musica. Il viaggio continua.

Criticism is a dead scene

Accolgo di buon grado la critica del buon pippo, nel commento che potete leggere nel post precedente. Sai che tu dico? Che alla fine hai ragione.

Erano delle cose che mi andava di esprimere e l’ho fatto, tutto qua, non è che io ci stia tanto a pensare all’opportunità di pubblicare le cose che scrivo qui. Ma voglio precisare una cosa, tanto perché ci tengo che sia chiara. Non ho velleità artistiche alcune. Mi esprimo, sono semplicemente cose che mi viene di buttare in pasto a chi legge, senza sovrastrutture. Se a qualcuno non dicono più di tanto, amen.

Mi piacerebbe poter mantenere il ritmo di un tempo con i post di questo blog, ma sta diventando impossibile, ciò non significa che io non continui ad ascoltare ed ultimamente anche a fare musica, solo non essendo costante mi sembra di essere sempre in ritardo sulle cose, quindi passa il tempo e la pigrizia vince.

Ma ora basta, quindi beccatevi la fredda cronaca dei dischi più meritevoli di questo inizio 2016 secondo il sottoscritto:

Iggy Pop “Post pop Depression”

In ritardo coi tempi dico la mia su questo lavoro dell’iguana di Detroit. Primo: l’iguana è in forma, Secondo: Josh Homme molto meno. Chi si aspetta un disco esplosivo che ti prende alla gola e non ti molla dall’inizio alla fine, lurido e strafottente in pieno stile Stooges rimarrà deluso. La mia chiave di lettura di questo lavoro è che sia il personale tributo di Jimmy a Bowie. Per apprezzarlo dovete avere in mente il paesaggio notturno,  rarefatto ed elettrico di “The Idiot” e nient’altro, altrimenti non ce la farete. Il fatto che ci sia una canzone intitolata “German days” sembra supportare le mie ipotesi. Se ad un primo ascolto restate indifferenti non preoccupatevi: è un passaggio natuarale, poi dovrebbe schiudersi con l’oscurità come un fiore delle tenebre. Dovrebbe.

La presenza di Homme è la vera cosa preoccupante, la sua chitarra è meramente funzionale qui, nessuno spunto personale, niente. Le canzoni funzionano ma avrebbe potuto suonarle chiunque. Lui latita come un fantasma da troppo tempo ormai…

 

Teho Teardo & Blixa Bargeld “Nerissimo”

Devi essere gentile con gli spiriti… sussurra Blixa in “Animelle”. Del duo scrissi già in sede di concerto, oramai sono una realtà ben consolidata, un progetto affascinante pregno del carsima germanico del leader degli Einstürzende e della sensibiltà sonora di Teardo, di un’ eleganza venata di misticismo che permea ogni nota del seguito di “Still smiling”.

Aldilà del fatto che sentire Blixa cantare in tedesco mi fa pensare che chi non apprezza questa lingua sicuramente non l’ha mai sentito proferir parola, personalmente ho anche apprezzato tantissimo anche la citazione artistica della copertina che completa degnamente l’opera. Chi meglio di loro può fare da ambasciatore alla musica?

La voce non ha colore, infatti è nera, nerissima.

Deftones “Gore”

Di questo disco tutti hanno fatto a gara a dire peste e corna e a me piace. Mi piace! devo dirlo più forte? E strorco il naso di fronte ai detrattori, scusate, sicuramente non è il loro capolavoro, ma, per la miseria, funziona. A me “Saturday night wrist” e “Diamond eyes” avevano annoiato a morte e invece gli ultimi due mi hanno restituito un gruppo che pensavo perso.

A chi invece vede in essi il loro declino non so cosa rispondere. Secondo me hanno recuperato una freschezza compositiva che mi sembrava ripiegata pericolosamente su se stessa. E non sono diventati pop, popolari lo erano già. Non sto dicendo di farveli piacere, ma non cedete ai pregiudizi e dategli un ascolto a sensi aperti. Comunque sappiatelo: gruppi di questa statura non ne nascono più.

Mike and the Melvins “Three man and a baby”

In attesa che tutti i bassisisti si concretizzino nella loro prossima uscita, questo brano sia da solo un motivo sufficiente per ascoltare la loro gemma perduta negli archivi della gloriosa sub pop!

Adoro essere preso per il culo da Buzz e Dale!

L’incarnazione del rock’n’ roll

Avete presente quei giochetti tipo quali sono le chitarre che vorresti possedere…

[Nello specifico: la polka dot di Randy Rhoads, una SG d’annata di Tony Iommi, la Les Paul Black Beauty di King Buzzo, la Telecaster nera di Chris Spencer e ancora una SG, quella di Liz Buckingham]

Oppure tipo: ma secondo te chi è la vera incarnazione del rock’n’roll? E, come tutte le domande senza senso, mi ha dato un bel po’ da pensare. E non è semplice. Fin quando qualcuno si prende la briga di spiegartelo in una ventina di minuti… è un personaggio di Detroit, di origini danesi. Uno che fa l’amore con gli amplificatori, si taglia rotola, salta e non sta fermo un attimo. Non credo si sia fatto mancare nulla eppure resiste.

Se avete tempo (e pazienza di seguire il monologo in inglese) fatevi due risate…

ah e tanti auguri!

Here's the man!
Here’s the man!

Se non è buono che piacere è?

IL caffè!
IL caffè!

Cosa c’è di meglio di un caffè per risvegliare il suddetto zombie? Ah io sono abbastanza caffeinomane ma, in quanto tale, sono anche un purista di quelli rompiscatole. Non ammetto cialde, filtri e caffè solubili di sorta. Non esiste. L’idea del prezioso nettare filtrato caldo attraverso la plastica mi fa inorridire, l’idea di vederlo svilito da una eccessiva quantità di acqua, tanto per assomigliare a dei miscredenti qualsiasi di oltre oceano mi fa ribrezzo. Che poi ci si debba far dire dalla multinazionale di turno come gustare un caffè mi sembra una pura eresia.

Noi siamo italiani, il caffè ce l’abbiamo nel DNA, che diamine! Ci manca solo di produrlo, ma in questo il clima non ci aiuta. Per il resto il mondo ha solo da imparare. E sta cercando di farlo in un modo decisamente maldestro. Questa cosa delle cialde è tremenda. In una famiglia di tre persone occorre fare fuori tre cialde a volta?! E poi restare legati alla stessa marca di caffé… a vita? E se mi venisse voglia di berne uno da una miscela particolare, appena torrefatta e macinata in casa, come sarebbe canonico fare, che faccio? Rinuncio? Non scherziamo. Certe cose facciamole bere a mr. Clooney, per cortesia, e buon pro gli faccia.

Il caffè si fa con la macchina da bar! O al massimo con la moka. Tutt’al più con una bella napoletana che, tra l’altro, toglie anche il sapore di bruciato. E fine del discorso.

Meet me at the coffee shop, we can dance like Iggy Pop!!! (Rest in peace, Scott Asheton)

 

(I’m a) Dead Man

Alcune volte, è quasi come se mi sentissi gelare dall’interno, se la mia anima si paralizzasse: all’improvviso qualcosa dentro si ferma, si incrina, si spezza. Mi tremano le labbra, le mani si serrano in pugni che però farebbero male solo a me stesso e gli occhi bruciano da impazzire. La crisi arriva inaspettata, spietata e algida. Come un crampo ad un muscolo: un dolore dilaniante e fulmineo all’interno del quale ti muovi lucido nella tua miseria, che ti si para davanti come una visione nella quale appare chiaro quanto vana sia la tua speranza e quanto tristi si rivelino i tuoi sforzi.

Eppure, sapete, quello che vi hanno detto sul Far West è falso: gli eroi senza macchia, sono delinquenti e depravati, assassini e cannibali. L’indiano è acculturato a causa dell’uomo bianco.  E chi porta il nome di un poeta morto, si muove con una pallottola in petto ed è l’unico a non morire.

Quindi può ben darsi che io mi sbagli anche riguardo ad altro.

Choose another life!

But why would I want to do a thing like that???

I choose not to choose that life… and the reasons? There are a lot of reasons!!!

Principalmente perchè troppe di quelle cose non mi interessano o mi fanno direttamente schifo, se non pena.

Ho scelto di essere me stesso, ho scelto i miei principi, le mie idee, la mia musica, le mie compagnie, la mia curiosità, i miei tormenti e perfino, forse soprattutto, le mie paranoie. Ho scelto di vivere al di fuori del gregge, ho scelto di provare a combattere la paura ed i luoghi comuni, ho scelto di ragionare con la mia testa e di non vergognarmi di quello che sono (ehm… almeno quando non cado verso il basso), ho scelto di andare contro le idee preconcette ed in molti casi alla morale comune, ho scelto l’asintoto obliquo al quale tendere. Ho scelto di non seguire la massa, ho scelto di non spegnere il cervello, ho scelto di essere fedele a me stesso e di provare a scoprire cosa, in realtà, io sia. Ho scelto di giocarmi la vita in questo modo. E questo blog fa parte dell’esperimento…

Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, no… l’eroina invece non ne fa parte!

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