In questi giorni una delle poche riviste di musica sopravvissute celebra i propri trent’anni. Trent’anni: una di quelle cose che ti fanno riflettere per forza sul tempo trascorso. Non voglio scrivere uno di quei post vittimisti sul fatto che mi fa sentire vecchio, perché vecchio io non mi ci sento, però vale la pena ricordare. Ricordare che sentii per la prima volta nominare il giornale vicino alla stazione di Porta Nuova a Torino, da un ragazzo dal nome francese di Torre Pellice che faceva il politecnico come me. Io l’avevo notato perché aveva un’ amica bellissima della quale sapevo solo il nome ed il fatto che avesse i capelli rossi, di quelli in grado di brillare in mezzo ad un’aula di trecento persone. Ovviamente non ci scambiai mai nemmeno una parola e anche di quel ragazzo persi presto le tracce. Il giornale però lo presi, in più e più occasioni.
Mi ricordo anche che quel ragazzo, accennando a Rumore, mi nominò per la prima volta PJ Harvey, mi disse che suonava una “specie di Nirvana più indie e con la voce femminile”, fa sorridere a pensarci adesso, anche perché lo stesso Cobain disse in più di un’occasione di apprezzare molto “Dry”. In particolare una volta pubblicarono un’ illustrazione della sua canzone “Fountain” che mi perseguitò per tantissimo tempo, dando quasi forma ai miei pensieri più autodistruttivi, in un periodo veramente buio che non accennava a passare mai.
Spesso mi ci trovavo in disaccordo, non riuscivo a leggerlo nemmeno tutto (va detto che c’è sempre una gran quantità di contenuti), sapeva un po’ di critica a tutto tondo, era un po’ troppo generalista e saputello per i miei gusti. Però sicuramente era sempre fonte di riflessione, mi fece scoprire cose che non avrei mai sospettato di essere in grado di ascoltare (i Nine inch nails, per dirne una…) e la copertina dedicata a Kurt Cobain nel mese in cui morì la tagliai via e me la appesi in camera. Ci restò per degli anni. Leggere Rumore era un po’ come ampliare gli orizzonti, spesso troppo limitati da una sedicente fedeltà al proprio genere musicale preferito. Mi facevano anche arrabbiare parecchio, tipo quando glorificavano musica pessima tipo i fratelli chimici o quelli con punk nel nome ma che di punk non avevano proprio nulla, oppure quando si permettevano di criticare Electric Ladyland. Recensivano sempre dischi del mio genere musicale preferito, ma sono spesso gruppi che nessun altro tratta. Non ho mai capito perché ma era, a suo modo, affascinante come pure il fatto che ci scrivesse il bravissimo Claudio Sorge (e ancora lo fa…), che seguivo anche in radio nel suo spazio “Rumore 3: essi vivono” all’interno di Planet Rock, nientemeno che sulla rete nazionale.
Nella fase iniziale era coinvolto anche il mai troppo ricordato Marco Mathieu, che viene giustamente citato nel numero del trentennale, insieme con molte altre storie che sicuramente si possono accumulare seguendo il mondo della musica e le sue evoluzioni dal punto di vista editoriale. Interviste saltate, concerti in condizioni impossibili, litigi con i promoter, errori di ogni tipo, copertine uguali ad altre riviste, recensioni negative di dischi diventati poi epocali (mi ricordo una recensione di “Grace” di Jeff Buckley decisamente tiepidina per il gran disco che è o la stroncatura di “Ok Computer”), gruppi esaltati e poi rivelatisi fuochi di paglia… in trent’ anni ci sta tutto ed è giusto celebrarlo. Soprattutto è bello che ancora esista e resista.
Ultimamente acquisto una copia ogni tanto, quando vedo cose interessanti, ma stavo valutando l’idea di abbonarmi, tanto per andare controcorrente e per ricordare a me stesso che, oltre al formato fisico della musica, anche quello della rivista continua proprio ad avere tutt’un altro fascino.