Mark Lanegan, 57 anni

L’annuncio è laconico. Salta fuori in mezzo a mille altre insostenibili notizie sciatte da social, è morto Mark Lanegan. Devo rileggerlo, una, due, tre, dieci volte. Non è mai stato un salutista l’amico di Ellensburg, ma nulla lasciava presagire una sua dipartita a 57 anni appena, sembra incredibile pensando alle cose che avrebbe ancora potuto dire e che adesso non verranno dette mai più.

La sua autobiografia racconta di una vita difficile, di un carattere scontroso e respingente, di amici morti come mosche tutto intorno e adesso anche lui. Sembrava un sopravvissuto in mezzo a tutto quel silenzio che era rimasto dopo la fine degli anni novanta, uno dei pochi che speri non abbandoni mai le scene, che vada avanti, perché comunque ha qualcosa da dire: un’anima profonda come un abisso che ancora non è stato sondato fino in fondo, un’anima profonda come la sua voce.

Sono riuscito a vederlo all’ Alcatraz di Milano nel 2015, aggrappato all’asta del microfono e quasi immobile, ogni tanto inforcava gli occhiali, avvolto nelle scarse luci colorate. Forse non era più in forma come un tempo, ma il fascino non l’aveva comunque perso e fu un onore assistere a un suo concerto e vederlo sorridente abbracciare i fan alla fine.

Una mia amica mi ha scritto che resteranno solo pessimi musicisti, la mia risposta è stata che non è vero ma ieri sera abbiamo fatto un enorme passo in quella direzione. Oggi il mondo è un posto più vuoto e non c’è nulla da fare.

Odio gli epitaffi on line ma due parole dovevo dirle.

Cult of Luna: The raging river

Non è sempre necessario avere un’opinione su tutto, in periodi come questo, non avere un’opinione può essere una forma di difesa. Non è necessariamente indifferenza, quanto piuttosto un bisogno intrinseco di silenzio dal bombardamento mediatico, superficiale, monotematico e spesso inconcludente. Per avere un’opinione bisogna innanzitutto conoscere, documentarsi, partecipare. Sempre più spesso diventa impossibile seguire il filo conduttore di un discorso, le idee si confondono in un mare di discordia mediatica densa come fumo negli occhi. Per questo quando si alza il velo di Maya bisogna accogliere quel barlume di luce che ci permette di esprimere un’opinione su qualcosa. Diventa sempre più raro che succeda.

Cult Of Luna (fonte: Bandcamp)

Dopo anni sono riuscito a farmi un’opinione sui Cult of luna, ed è un’opinione positiva. All’epoca dell’uscita di “The Beyond”, oramai millenni or sono sembravano promettere bene anche se ancora troppo legati ai progenitori Neurosis, stesso discorso con “Somewhere along the highway” nel quale invece sembravano tendere maggiormente dalla parte degli Isis. Due ottimi punti di partenza certo, ma il loro, fino a quel punto rimaneva comunque un discorso ancora troppo acerbo e derivativo. Fortunatamente sono riusciti a non mollare la presa, a venire fuori alla distanza ad evolvere uscita dopo uscita fino a diventare un gruppo solido e veramente in grado di dire la loro in un panorama sempre più arido di idee e personalità. Oggi come oggi non è una cosa da poco, se consideriamo che ormai il mondo della musica sta evolvendo verso una preoccupante attitudine usa-e-getta che inquina l’etere segna inderogabilmente la via al declino.

Con “Vertikal” hanno cominciato a fare sul serio, a nuotare contro corrente, a raddrizzare la spina dorsale, a guardare i loro maestri dritti negli occhi con sguardo fermo e sicuro. E disco dopo disco non si sono più fermati, fino a raggiungere uno stato di grazia invidiabile a molti, nell’anno di disgrazia 2021.

Ed ancora una volta la loro è una proposta che richiede impegno e dedizione per poter essere assimilata. Non siamo davanti ad un lavoro facile, immediato e superficiale. Occorre dedicargli tempo e lasciarsi andare ad un ascolto inteso come esperienza e non come mera fruizione, merce rara al giorno d’oggi. Al punto di convincere i nostri a autoprodursi usufruendo di una propria etichetta di registrazione per questa uscita, scommettendo su loro stessi e sul pubblico che deciderà di seguirli in questa avventura.

Personalmente la scommessa è vinta con quest’ album, che conferma quanto di buono già si sapeva sul gruppo, ampliando ulteriormente il discorso già intrapreso con il suo predecessore ed includendo ancora elementi di novità come la collaborazione di Mark Lanegan che fornisce il suo baritonale contributo alla canzone più rilassata e malinconica del disco. Un lavoro intenso e solido, che non abbandona le radici post-HC (Umeå ha solide tradizioni in campo HC) dei maestri ma che è in grado di dare alle medesime una nuova linfa vitale.

Le composizioni sono tutte egualmente valide e di spessore, se devo sceglierne una scelgo “Wave after wave” una canzone che sembra essere l’invito perfetto a lasciarsi alle spalle le proprie miserie e ad alzare lo guardo verso un immenso cielo notturno.

3 vs 1

L’ estate è trascorsa veloce, nascosti in una città abbandonata eppure viva. Come la brace sotto la cenere. Il senso di vuoto degli alberghi abbandonati e di un luogo che, un tempo, era in grado di ospitare le persone bisognose di cure. La decadenza degli edifici e la tenacia di chi ancora abita quei luoghi. Come sempre le vacanze estive sono quel non-luogo dove vorresti fare tutto quello che, nel trascorrere dell’anno, non ti è riuscito. Leggere un libro o ascoltare musica con calma. Ovviamente non ti riesce. Ti togli qualche fugace soddisfazione, fai appena in tempo ad accorgerti di avere del tempo libero che subito ti viene negato. A pensarci tutte le volte sembra l’ora d’aria dei carcerati. In quest’ ora ho ascoltato quattro nuovi dischi e me ne è piaciuto veramente solo uno, che terrò per ultimo.

Mrs. Piss “Self surgery”: Mi imbatto in questo disco solo perchè vede coinvolta la signora Wolfe. Tutto mi direbbe di non farlo: il nome e l’artwork sono già di per sé squalificanti, per non dire pessimi. Fortunatamente il disco non è peggio (bisognava effettivamente impegnarsi) ma decisamente non brilla. La registrazione è molto piatta, quasi malfatta e questo non giova: non stiamo parlando di musica che trae giovamento da una registrazione ai limiti del low-fi, soprattutto non con la voce di Chelsea di mezzo. Poi poche idee e sviluppate male, a tratti la classe della cantante emerge, ma più spesso appare ficcata a forza in un contesto davvero povero in termini di idee e soluzioni. Non mi è venuta voglia di andare oltre il primo ascolto. Se proprio volete godervi qualcosa di nuovo che coinvolga l’autrice di “Birth of violence”, allora ascoltate questa: è una cover, ma almeno non è niente male.

King Buzzo (with Trevor Dunn) “Gift of sacrifice”: Seconda puntata acustica e (quasi solistica) per il leader dei Melvins. In questo caso sono arrivato almeno al secondo ascolto. Se il primo episodio aveva convinto, il secondo non centra l’obbiettivo. Magari mi ricrederò quando mi verrà voglia di riascoltarlo, per ora purtroppo è triste constatare che anche con il coinvolgimento di un musicista sopraffino come Mr. Dunn, la situazione non migliora e c’è poco da fare. Poco più di mezz’ora di brani acustici per archi e chitarra che non coinvolgono pur non essendo oggettivamente brutti, il problema è che lasciano indifferenti. Che i Melvins siano uno dei gruppi che lavorano più duramente nel panorama della musica pesante penso sia indubitabile, solo che sono diventati… logorroici, adattando il termine alla produzione musicale: buttano fuori roba a ripetizione, senza tregua e quasi senza riflettere. Un album almeno all’anno, più gli album solisti del buon Buzzo e di Dale Crover usciti di recente; obbiettivamente è quasi impossibile mantenere gli standard qualitativi elevati del in passato a questi ritmi e con anni di carriera alle spalle. Danno l’idea di non scartare mai nulla, nessuna idea, nessuna collaborazione, nessun progetto collaterale: è chiaro che il talento si diluice e si finisce per annoiarsi all’ascolto. Qui King sembra riciclare riff (e lui è una vera riff-machine forse la più prolifica dopo Tony Iommi) e avere idee confuse. Spiace dirlo anche perchè l’ EP “Six Pack” uscito in anteprima a questo su Amphetamine reptile records, era decisamente molto più coinvolgente e ben fatto anche al netto della divertente cover dei Black Flag. Se i Melvins si decidessero a far uscire meno dischi (che siano al verde?) e a licenziare quell’inutile buffone dei Redd Kross al basso, forse riavremmo il nostro grande gruppo indietro, per ora sono abbastanza vittime della loro stessa iperproduttività.

Mark Lanegan “Straight songs of sorrow”: Accanto all’uscita del discusso memoir “Sing backwards and weep” arriva questo nuovo lavoro del (un tempo?) fulvocrinito cantante americano. Fermo restando che “Blues funeral” era un capolavoro di stile e “Gargoyle” gli andava appena sotto, con un 1-2 micidiale (“Goodbye to beauty”/”Drunk on destruction”), da lì in poi l’ispirazione è andata scemando anche per lui. Lasciando perdere “Imitations” che è un disco di cover e lo zoppicante “Phantom radio”, l’ondata elettronica che ha invaso i suoi lavori si è fatta quasi opprimente e sbilanciata nell’economia dei brani che via via stanno perdendo quell’opacità fumosa e distruttiva che li rendeva tanto affscinanti. Probabilmente sono anche io il problema, essendo legato alla sua produzione più datata e acustica, per cui soprattutto “Somebody’s knocking” ma anche questo “Straight songs of sorrow” mi risultano un tantino indigesti. Non sono brutti, ma hanno perso il magnetismo e almeno una fetta di magia dei precendenti e anche qui non mi hanno catturato al punto di entrare in un ciclo ripetuto e piacevole di ascolti. Dev’essere una costante del periodo, ma già la canzone di apertura mi sfianca dopo pochi minuti… Fate voi.

Steve Von Till “No wilderness deep enough”: Dopo tre ascolti colpevoli di avermi tolto parte della fiducia nei rispettivi autori, arriva la certezza, solida come una roccia. Il cantante/ chitarrista dei Neurosis rilascia un altro disco solista e nemmeno questa volta è possibile muovergli una critica. L’unico limite di questo disco, se vogliamo chiamarlo così, è che risulta difficile essere dello stato d’animo adatto per ascoltarlo, perché è un disco che letteralmente ti scava dentro, ti svuota e ti lascia nudo di fronte a te stesso. Una visione che non tutti (io per primo) riescono a sopportare per tempi troppo lunghi. Steve è un autore autentico, profondo e sensibile, nonstante il suo gruppo madre abbia messo a dura prova l’udito di più di un fan con sperimentazioni pesantissime e a volte indigeste (confesso candidamente di non riuscire ad arrivare in forndo a “The world as law”, per esempio), quando si tratta dei sui dischi solisti il discorso cambia.

Partito da splendide suggestioni acustiche (il meraviglioso “As the crow flies”), album dopo album, il suono votato al minimalismo si è via via arricchito di sfumature sicuramente apprezzabili in termini di inserti elettronici e archi che completano lo spettro sonoro rendendo il suono ricco ed avvolgente, tutto corredato dai testi sempre ispirati che recentemente hanno anche trovato una dimensione grafica affascinante in un libro corredato da suggestive immagini. Il cerchio si chiude intorno alla sua magistrale interpretazione vocale sempre intensa ed emozionante. Finalmente, ne avevo bisogno.

Sing Backwards and weep

Mark Lanegan: Sing backwards and weep [Fonte: Amazon]

Iniziare a leggere un libro senza sapere bene cosa aspettarsi.

Si sono sentite voci su voci riguardo a questa autobiografia di Mark Lanegan e visto che, a mio parere, ha une delle voce più belle ed intense del pianeta ho dovuto recuperarla e leggerla in lingua originale. Operazione forse un po’ faticosa ma ogni tanto utile e, nel caso, anche coinvolgente. Elimino subito il dubbio: il cantante di Ellensburg qui ha buttato fuori l’immondizia. Questo è un libro che nonostante il celestino della copertina è nero come la pece.

I pochi spiragli di luce che emergono sembrano quasi buchi fatti con un ago ipodermico su un foglio scuro, la luce filtra ma è rada e puntiforme. Se pensate di scoprire qui il fervore che induce un giovane a cantare, se ritenete che si tratti dell’arte come forza catartica, se credete che parli dell’adrenalina che ti sale in gola in quei 5 minuti che precedono l’ascesa sul palco o della gioia che ti scoppia in petto quando senti il pubblico che applaude o canta un tuo brano, qui troverete ben poco. I pochi spiragli sono dati dalla prima serata passata dal nostro con Lee Conner quando nacquero gli Screaming Trees, l’amicizia con Dylan Carlson, Kurt Cobain, Layne Staley e Josh Homme, lo scazzo duro con Noel Gallagher e le poche pagine finali dedicate alla timida risalita dopo aver toccato il fondo. Poco altro.

Il resto è il fondo del pozzo, il resto è l’ondulare del pendolo. Il pessimo rapporto con la madre, gli amici che ti muoiono attorno come fili d’erba recisi dalla vita, un gruppo musicale che prima di tutto è un modo per scappare di casa, l’impossibilità di un rapporto solido con una ragazza e poi, ovviamente, l’eroina. La vita assurda del tossico in tour, i salti mortali per continuare a farsi, i rapporti con la malavita, la discesa negli inferi e l’annichilimento di qualsiasi legame, vendersi tutto per mantenere la propria abitudine alla droga pesante. Questi sono i reali protagonisti di questo libro, anche se ha un lieto fine e Mark (fortunatamente) è ancora qui, ringraziando la signora Love ed il suo programma di riabilitazione per artisti.

Per chiunque dubiti del reale interesse di questi argomenti risponderei, per citare lo stesso cantante, It’s time to grew the fuck up. Non si può amare l’arte del cantante e ignorarne la vita ed il percorso. Certo ogni cosa si può fare ma, visto che ha scelto di condividere con il pubblico le sue vicende, ignorarle sarebbe quantomeno superficiale.

Non ne esce un bel quadro per Mark. Scontroso, cinico, ombroso e scostante, per fagli dei complimenti, sicuramente instabile e a tratti impazzito. Il libro è schietto e crudo, una rasoiata di scabra realtà tumefatta e a tratti svuotata di calore. Un’immersione negli inferi senza abbellimenti o concessioni. Non so perché spesso mi ha fatto pensare a Pasolini, al fatto che la sua scuola fosse quella di coloro che dovevano provare ad ogni costo lo squallore sulla loro pelle per poter esprimere la propria arte. Magari solo io posso venirmene fuori con un’ associazione del genere. Eppure spesso leggere questo libro equivale a conficcarsi a forza la realtà negli occhi, una realtà dolorosa e degradante.

Non fatevi illusioni dunque, leggete a vostro rischio e pericolo, consapevoli però del fatto che, se amate la voce e le canzoni dell’autore di Blues Funeral, questo libro vi prenderà e vi costringerà ad essere letto, anche con una certa avidità.

I hit the city

Il foglio con i biglietti stampati è stagionato quattro mesi sotto al giradischi.

Un giovedì sera scendo in città con l’oscurità come mantello e la luna come faro: un disco d’oro pallido che gira a 33 e 1/3 sulle nostre teste. Sul lavoro che surriscalda le meningi di una febbre vibrante d’ansia e tremante di stress, sulla vita che si contorce in una canzone, in un alito di musica.

Un giovedì sera mi agito tra nastri d’asfalto e trapasso le abitazioni della Ghisolfa con raggi luminescenti a mezz’aria. Nella stessa città freme anche una voce che arde di magia e sentimento. La voce appartiene a Mark Lanegan.

Certo prima ci sono stati gli elettronici Faye Dunaways, che invero mi hanno tediato un po’. Poi Duke Garwood con la chitarra rombante e le metriche impossibili. Ma è quella voce il richiamo più alto, la ferita che mi procura è il dolore più dolce, lo struggimento più intenso che non posso condividere.

Mark è sempre più statico nel suo afferrare il microfono quasi fosse un sostegno alla sua postura malferma. Mark è la sua voce. Le luci bassissime lo proteggono dalle fotografie e forse dagli sguardi. Non è quello l’importante. L’importante è sentire le corde vibrare nel torace, l’importante è offrire il proprio corpo come una cassa di risonanza umana, l’importante è far librare il proprio spirito al di sopra della città. Le sue mani tatuate stringono gonfie l’asta del microfono e quando parla sembra che stia raschiando il carbone. Oscuro e profondo, non interrompe quasi mai il flusso delle canzoni come se avesse paura che non possano trovare il loro percorso nel tempo.

Invece sono in simbiosi.Scorrono fluide ed inarrestabili: un retrogusto di torba e i rivoli di fumo di tabacco che si svolgono sinuosi. Scendono in città.

Duke Garwood
Duke Garwood

Lanegan
Mark Lanegan

Going Through Changes

E’ l’alba appena fuori Milano, anzi è prima dell’alba. Le figure si muovono come spettri senza volto e senza umanità nella bruma del primo mattino. E io sbaglio tragicamente strada: una volta in più, la città non fa per me, nemmeno quando c’è poco traffico. Non reggo quel gomitolo impersonale di strade, quel continuo e caotico ingarbugliarsi di vite e di linee. Linee come strade, rotaie, navigli, fili elettrici, tubature. La tensione sale dall’ asfalto, diretta. Arriva come un clacson a ciel sereno. E mi scatena la tempesta. Mi tende i nervi.

Mi infilo a forza per le strade, tirandomi dietro gli strali. Mi incuneo alla fine di un semaforo giallo, magari un occhio elettrico mi sta spiando a scopo estorsivo. Non puoi mai saperlo. Ma continuo ad essere teso, non posso ascoltare nulla che sia teso come me.

Mi sono portato Mark Lanegan apposta, la sua nuova raccolta è uscita da poco. “Mocking birds” mi avvolge come una morbida ventata di malto, appena irruvidita da un sentore di torba. Quando alzo gli occhi mi accorgo che la luce sta cambiando. Quando mi guardo dentro mi accorgo che io sto cambiando.

Un po’ di tempo c’era su internet un giochino secondo il quale la prima parola che scorgevi in un’insieme di lettere avrebbe rappresentato il tuo nuovo anno. Magari a volte ci prendono, la mia era “experience”. Certo, se il mondo fosse un posto perfetto, subito dopo avrei vinto un viaggio all’indietro nel tempo a vedere l’unica, vera e leggendaria “Experience” quella con la “E” maiuscola, quella ai cui concerti le chitarre suonavano come treni e poi prendevano fuoco.

Ovviamente l’esperienza in questione è molto più terra terra ma, per riprendere le fila, è una cosa che ho voglia di fare, una cosa per me abbastanza nuova, che, ovviamente, per gli altri è normale. Tutto ciò non significa che abbandonerò le cose in cui credo, tenterò di farle coesistere, a modo mio. Finora l’esperimento è sempre più o meno fallito, ma stavolta le premesse sono molto migliori.

Certe cose dentro di me non sono fatte per essere cambiate: ci ho messo una vita a capire chi sono e cosa voglio, non sarà quest’esperienza a farmi buttare le altre alle ortiche, non sarà questa a farmi dimenticare chi sono. Ho amato gli ideali, ho sacrificato tanto per essi ma mi sono accorto che alla fine soffocano. Ti fanno mancare l’aria. Hanno spire da boa constrictor e stringono. Loro resteranno lì a ricordarmi a quale asintoto io debba tendere, ma mi lasceranno respirare stavolta.

Watch out ya rock’n’rollers

Degli effetti benefici del fumo

Ecco, non prendetemi in parola: ogni anno il tabagismo fa più vittime degli incidenti stradali, il fumo nuoce gravemente alla salute e causa malattie cardiovascolari ed ictus, sì lo so. Negli USA dove il vizio del fumo è stato incoraggiato e caldeggiato per anni, oggi non si vede quasi più nessuno affumicare la gente, in Norvegia, l’ultima volta che ci sono stato, un pacchetto costava intorno agli 11 € ed era addirittura vietato fumare facendo la coda all’esterno di un museo, adesso sono perfino arrivati dei surrogati elettrici per tentare di contenere il fatidico vizio. Io però sono riuscito a trovargli un lato positivo, almeno uno. Da buon amante delle voci cavernose e grevi è inutile ritenere che le sigarette non abbiano avuto una parte rilevante nel modificare il timbro di alcuni cantanti le cui ugole puzzano assolutamente come un posacenere.

Cosa sarebbe di Tom Waits, se non se ne fosse mai accesa una? E’ assolutamente innegabile che le bionde abbiano giocato un ruolo determinante nel conferirgli il suo caratteristico timbro vissuto e pieno di fascino, sicuramente ci saranno di mezzo anche whiskey, caffè ed altre innominabili sostanze eppure il catrame c’è e si sente tutto:

Che dire di Ian Fraser Kilmister, in arte Lemmy, senza il fido pacchetto di nazionali senza filtro nella tasca del giubbotto di jeans? La voce più impastata e catarrosa del mondo sarebbe potuta esistere senza il prodotto di qualche piantagione del South Virgina? la risposta è clamorosamente no.

Infine metterei Mark Lanegan: l’ex cantante degli Screaming Trees è un altro che deve molto alla fatidica pianta al centro di mille discussioni e di ancora più pesanti interessi sul campo internazionale. Eppure gli effetti sul suo timbro sono assolutamente tangibili, e quegli stessi effetti la rendono anche così piena di magnetismo e calore, come si fa a vietargli di fumare?

Nonostante tutto questo, non è il caso di far arricchire squallide multinazionali a scapito della salute. Anche perché sono solo tre casi su tutto il pianeta!

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