Gente con ancora qualcosa da dire parte 4: Amenra

Ancora una volta chiunque predichi la fine della musica pesante ha sbagliato i conti. Il punto è che spesso si guarda nel posto sbagliato. Si rincorrono nomi storici che però trascinano stancamente le loro carriere, mollemente adagiati sugli allori che furono, si corre dietro all’ultima tendenza fatta di suoni compressi e senz’anima, si seguono progetti che si dissolvono nel giro di un paio di dischi senza lasciare nulla.

Amenra “De Doorn” Fonte: Bandcamp

Fortunatamente non tutti i gruppi seguono queste strade, il punto sta nel mettersi di impegno per scovare quei rari esempi di ispirazione ed integrità che ancora ci sono se uno guarda bene. E a volte occorre guardare fuori da quei tre-quattro paesi cui si è soliti rivolgere lo sguardo. Gli Amenra arrivano dal Belgio, dalle fiandre più precisamente, un’insolita patria per chi faccia un certo genere di musica, eppure la loro proposta non cessa, a distanza di anni, di affascinare. “De Doorn”, cantato interamente nella loro lingua di origine è una pietra miliare nella loro discografia: giunge dopo una lunga saga di lavori intitolati semplicemente “Mass” seguito da un numero, giunge come un’ulteriore evoluzione del percorso musicale e spirituale del gruppo. Oltre a questo, è il primo loro lavoro ad uscire per la mai troppo lodata Relapse Records, che arricchisce ulteriormente il proprio elenco di gruppi, con l’ennesima proposta meritevole.

Il disco, intitolato semplicemente “La spina”, come intuibile dalla copertina, evoca immediatamente scenari lividi, plumbei, inesplorati. Un’ immagine di debolezza e forza allo stesso tempo, un viaggio spirituale dal buio alla luce, passando attraverso spettrali evocazioni, lampi incendiari, ombre tangibili. Gli Amenra sono tra i pochi gruppi in grado di mettere in musica tutto questo: ovviamente nulla di facile e di leggero tra questi solchi, ma proprio in questo sta il suo fascino, nell’affrontare qualcosa di lontano dalla maggior parte dei panorami sonori oggi a disposizione dell’ascoltatore di musica. Ascendere e non perdersi nelle nebbie delle pianure senza picchi né profondità; ascendere prevedendo la fatica, accettando scoscesi pendii e sentieri disconnessi, guardando, come premio finale, al contempo il baratro e il cielo senza null’altro a contrastare la vista.  Questo è ciò che sono in grado di offrire a chi si sente di arrischiarsi lungo le loro spire. Oggi come oggi non è poco. Il lirismo e l’intensità di queste composizioni difficilmente avranno eguali in questo 2021, con buona pace di chi ancora insegue gruppi bolliti, gente che non ne azzecca una da anni, capaci solo di riproporre il passato non essendo in grado di rompere gli schemi e proporne di nuovi. Se lo stato generale della musica pesante non è buono, essa è comunque in grado di dare dei sussulti potenti, sta all’ascoltatore saperli cogliere.

Sudditanza psicologica: vale la pena curarla

Quando leggevo ancora le riviste su carta stampata riguardanti la musica metal e tutte quelle cose lì, soprattutto nel primo periodo, si parlava spesso del fatto che, in un mondo ideale, il seguace della musica metal era tale per la vita. Si parlava di fedeltà ai gruppi, allo stile di vita, alla scena. Tutto molto nobile e bello, anche abbastanza naïf, al punto che si arrivava anche ad ipotizzare di una cosa chiamata fratellanza all’interno del movimento, cosa che si concretizzava in molti casi. Fin qui tutti lati direi positivi della questione, in media l’ascoltatore medio di metal pre-Nirvana e Guns’n’roses (che poi sono quelli che più di tutti hanno sdoganato un certo tipo di sonorità pur non essendo metal in senso stretto) era una sorta di personaggio strano, da una parte un ribelle, ma dall’altra nemmeno troppo, non così tanto come avrebbero potuto esserlo gli autonomi o certe frangie estreme di punk-hardcore. Le due correnti di pensiero, all’inizio, erano ben lungi dal mischiarsi e, anzi, i punk vedevano i metallari quasi come dei reazionari a dirla tutta.

C’era dunque bisogno di unità, c’era bisogno di figure carismatiche intorno alle quali stringersi, fare gruppo e, in qualche modo, resistere dinnanzi agli sguardi quantomeno interdetti della “gente normale”. Adesso sembra fantascienza. Tutte queste cose hanno completamente perso il loro senso. La normalizzazione avanza.

Sbranano, sputtanano ogni cosa e la riducono ad un cliché.

Ce ne siamo accorti tutti: oggi chili di borchie, giubbotti di pelle, sguardo torvo e capelli lunghi (ad averceli ancora!) non spaventano più nessuno. Eppure a distanza di 35 anni c’è chi non vuole mollare i propri idoli. Credo che tutti i metallari, chi più chi meno, soffrano di questo atteggiamento e, a ben vedere, ogni fan di qualsiasi gruppo rimane deve rimanere decisamente deluso dai suoi beniamini per non volerne più sapere. Infatti c’è ancora gente capace di spendere fior di bigliettoni per vedere i merdallica (mai visto gruppo meno rispettoso dei propri fan), che nonostante tutto continua a ritenere fighi gli Iron Maiden, anche se non rilasciano più un disco significativo dai tempi di “Fear of the dark” (anche se l’ultimo veramente bello è “7th son”), che non ammette che gli Slayer sono finiti da tempo, che non può fare a meno dell’ultimo isostenibile lavoro degli Opeth, che ancora sopporta Manowar e Judas Priest che io, per altro, non ho mai potuto reggere.

Io stesso sono vittima di questo processo: cerco i Black Sabbath costantemente nei gruppi che ascolto, a volte provando anche un piacere sottile ma  intenso (tipo ascoltando l’ultimo dei Monolord: ragazzi vi voglio bene!). Anni fa (2010), in Norvegia, capitai a Bergen il giorno stesso di un concerto degli Iron Maiden e come potevo non fare di tutto per andarci? Poi ok, mi sono sorbito tutte quelle canzoni nuove che mi hanno tritato i maroni da morire (a parte “Blood brothers” perché sentirla cantare da 35000 vichinghi è una gran cosa) ma le mie lacrime si sono confuse con la pioggia durante “Hallowed be thy name”…nessuno è immune.

Solo che a un certo punto basta. Adesso si paventa addirittura una cosa ignobile tipo Iron Maiden 2.0. Putroppo le cose finiscono e per diventare leggende si muore giovani, facciamocene una ragione. Poi, anche chi dice che ormai certa musica è finita sbaglia. Si tratta solo di evolvere, di guardare altrove senza aver paura di ammettere che certe cose hanno inesorabilmente fatto il loro tempo.

Tra parentesi, Iggy Pop ha fatto un disco clamoroso superati i 70 anni. L’eccezione è possibile. Bisogna continuare a crederci.

 

 

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