L’Europa gira a 33 e 1/3

Dopo Biella, Torino e Milano, adesso siamo alla volta dell’ Europa, alla scoperta dei negozi di dischi che mi sono rimasti maggiormente nel cuore. Si tratta di Europa del nord, ovvero di quella parte di continente che sento maggiormente affine a me. Scandinavia e isole britanniche soprattutto, posti che, in qualche modo, mi porto nel cuore. Ma bando ai sentimentalismi e partiamo subito.

Cardiff- Spillers.

Vi siete mai chiesti quale sia il più vecchio negozio di dischi del mondo? Potrei essere smentito ma sono abbastanza sicuro che sia Spillers. Più che un negozio, una leggenda che ha rischiato di sparire ma che tutt’ora resiste nel cuore della capitale Gallese. E dire che ci sono capitato per caso, durante un tirocinio in terra d’Albione, mai più mi sarei aspettato di imbattermi nella storia dei negozi di dischi. Invece in Regno Unito c’è una grandissima passione per la musica, del resto, ragionandoci tutte (o quasi) le più grandi band della storia arrivano da lì e ci sarà pure un motivo. Tutti hanno una vasta cultura musicale molto meno settaria e chiusa che da noi ed è bellissimo, sia che trovi l’appassionato di musica classica che il sessantenne che conosce i Neurosis.

Cardiff è una città molto sveglia culturalmente parlando, ha un centro che la sera diventa quasi un centro svaghi per ubriachi e se ci capiti nel momento giusto non è raro che si trasformi in una festa gigante (io ci sono finito per halloween!). Al contrario di altre città decisamente molto meno rassicuranti (su tutte Liverpool: al sabato sera c’era quasi guerriglia per le strade!) è accogliente e a misura d’uomo. Spillers era un negozio quasi dimesso, se ne stava nel suo angolo ad aspettare quasi che io passassi di lì, da fuori sembra un negozio comune, dentro respiri la storia. Specializzato quasi solo in musica alternativa (e meno male) ti fa respirare l’aria dei veri negozi di dischi. Scaffali di legno, riviste, musica di sottofondo, qualcosa di un po’ polveroso qua e là, c’è tutto.

Non ebbi la possibilità di fare la radiografia al posto, però sono lieto di sapere che, con qualche traversia e boicottaggio a Morrisey perle sue ultime derive estremiste, il posto resiste. Anche solo averci agguantato “Abbattoir blues/ The lyre of orpheus” di Nick Cave and the Bad Seeds è sufficiente a tenere vivo il ricordo (tra l’altro è un disco bellissimo).

Borderline – Dublino

Uno almeno un sabato sera nella vita dovrebbe passarlo a Temple Bar, tanto per capire perché gli irlandesi hanno la fama che hanno. Anni fa (oggi purtroppo il negozio è chiuso) durante una scorribanda in quel posto magico dove i fiumi sono fatti di Guinness, la pioggia sa di luppolo e la terra raccoglie bicchieri rotti, mi imbattei nel negozio di cui sopra, meglio: nella saracinesca del negozio decorata con un murale. Alzando lo sguardo vidi l’insegna che prometteva decisamente bene e feci il possibile di ricordarmi dove fosse il matt… ehm il pomeriggio dopo. Tra la statua di Phil Lynott, la strato di Rory Gallagher, il vago sentore di U2 che aleggiano sulla città alla fine lo ritrovai e fui ripagato dello sforzo mnemonico post serata ululante.

Un piccolo negozio di dischi ma strapieno di roba… alcuna anche mai vista prima. Una vera delizia. Peccato che dopo giornate di gozzoviglie i fondi da investire scarseggiassero e dovetti fare una cernita dolorosissima portando a casa, tra l’altro, una edizione in vinile verde di Sons of Kyuss… niente meno!

Tiger – Oslo

Dalle mie parti Norvegia fa rima con Black Metal. Ed è vero, se fate un giro ad Oslo è d’obbligo che vi mettiate a cercare il posto dove sorgeva l’Helvete e vi facciate accompagnare nei sotterranei alla ricerca della famosa scritta “Black Metal”, ma resta poco più di questo. Avrebbe molto più senso aspettare Fenriz fuori dalle poste per stringergli la mano. Detto questo quel mondo si è abbastanza disgregato ma questo non significa che non ci siano altri negozi di dischi meritevoli in città. Tiger è uno di questi, forse il migliore. E non c’è da confondersi con l’omonimo negozio di cianfrusaglie danesi, questo è un signor negozio vecchio stile con scaffali e tutto in regola.

Specializzato soprattutto in musica indipendente è piccolo e accogliente, con un’atmosfera che ti fa sentire a casa e dei prezzi ragionevoli, soprattutto se considerate che siete nella terra dove tutto costa quasi il triplo rispetto all’Italia. Scovai una copia in vinile di “Steady diet of nothing” dei Fugazi, potevo abbandonarla lì?

Music Hunter – Helsinki

Ecco uno dei negozi più forniti che io abbia mai visto, l’unico, tra l’altro che mi abbia permesso di vedere una copia in vinile del White Album autografato dai fantastici quattro di Liverpool (ed era pure in vendita a trattativa privata). Music Hunter rappresenta la Mecca di ogni collezionista, praticamente un paese dei balocchi per chi ami la musica. Dischi stipati ovunque, un posto dove veramente se ti metti a scartabellare puoi passarci le ore senza accorgerti che il tempo ti sfugge di mano. Ne esci quasi stordito con la testa ciondolante e qualcosa tra le mani. All’epoca della mia visita ero in fissa con i Reverend Bizarre, quindi nella loro terra mi aspettavo di trovare delle chicche mai viste in patria, visti anche i loro trascorsi in classifica. Non ci trovai nulla e il gestore mi guardò anche con un grosso punto interrogativo stampato in faccia quando glielo chiesi. Dovetti ripiegare su “Quietus” degli Evoken, Doom Over The World!

Postilla: Helsinki è veramente un posto magico per musica e dischi, spero che sia ancora così ma all’epoca c’erano veramente negozi ovunque. Music Hunter rappresenta un po’ la punta di diamante ma anche altri erano veramente interessanti (se non mi ricordo male ce ne era uno molto bello chiamato Combat Rock incentrato soprattutto sul punk). E poi sentire le auto che sfrecciano con i Black Sabbath appalla non ha prezzo.

Sex Beat Records – Copenhagen

Nella città che contiene un luogo fuori dalla legge e dall’ Europa (Cristiania), la musica di un certo livello viene veicolata da questo negozio che si trova giusto sopra un parrucchiere alternativo. All’inizio non capivo dove si trovasse di preciso, l’insegna c’è ma l’entrata non mi era chiarissima. Poi una volta dentro ci trovo Michael Poulsen dei Volbeat con consorte e cane: mi è subito chiaro che è il posto giusto. Sembra all’improvviso che siamo tornati nei fantastici anni ’60, pavimenti di legno, vinili e devozione per Elvis (il cantante ha tatuato fieramente “Elvis Aaron Presley” sull’avanbraccio con caratteri vagamente in odore di film western. Della Danimarca io mi ricordo soprattutto i DAD (“No fuel left for the pilgrims” e “Riskin’ it all” per me erano più fondamentali dei Guns ‘n’ roses o dei Motley Crue, per dire), Von Trier (e per le imprecazioni dal tetto del Regno del medico svedese!) e la Carlsberg (la birra è molto nella media ma lo stabilimento è un posto da vedere!), però anche quest’esperienza mi lasciò il segno. Ne esco con un disco (vecchio) dei Volbeat e il commesso che mi dice di correre dietro a Michael per farmelo autografare, ha una voce che ammiro sinceramente ma stavolta passo…

I tetti di Copenhagen

Sound pollution – Stoccolma

Stoccolma è un luogo del cuore, Gamla Stan è il cuore del luogo del cuore. In questo scenario fantastico di stradine, vicoli, medioevo e turismo si incastra Sound Pollution, altro storico negozio che ha visto nascere la scena svedese, partendo dal Death metal per arrivare allo Scan rock, il luogo di riferimento per acquistare dischi nella capitale. Due stanze, una tonnellata di dischi, libri e tutto il necessario a farsi una cultura musicale sulla musica pesante. Entro la prima volta con indosso una maglietta degli Unearthly Trance e la prima cosa che mi dicono sono dei complimenti, non puoi sbagliare: quando si parte in questo modo, sei nel posto giusto. Esco un’ora e mezza dopo con in mano una copia di “Swedish death metal” di Daniel Ekeroth che mi servirà da guida turistica nei successivi 15 giorni di magia.

Appena fuori scovo il ristorante vegetariano Hermitage, gestito da due signore hippy con i rispettivi figlioli e ho anche trovato di che sfamarmi il corpo oltre che la mente. Direi che sono a posto. Da lì in poi i pellegrinaggi sono continui e ripetuti, impossibile ricordare tutti i dischi acquistati, a parte uno dei Thergothon che cercavo da tempo immemore: divertente pensare che hanno pure inciso per una etichetta italiana.

Finisco il viaggio in allegria con un bel brano di Funeral Doom Metal… non male eh?

A.D. 2019

Ho volutamente aspettato fino alla fine nella speranza di qualche nuovo spunto, mi sono giunti all’orecchio solo i Naga da Metal skunk che però, per quanto mi concerne, pur concordando sui loro meriti, risultano troppo derivativi  per entrare nel novero dei migliori dieci dischi usciti quest’ anno.  Dunque andiamo con ordine.

10. Liquido di morte IIII: Nuova prova per i Milanesi, ancora una volta un disco strumentale carico di pathos e trasporto emozionale. Stavolta si muovono ancora su lidi onirici, spesso dilatati, a volte sottilmente inquietanti. Si confermano come una bella realtà che purtroppo non sono ancora riuscito a vedere dal vivo. Valore aggiunto (senza dubbio) lo stellare artwork di Luca SoloMacello che produce addirittura 200 copertine diverse. Da avere,

9. Crushed curcuma Tinval: Un doveroso omaggio alla Biella che mi piace. Un disco ancora una volta strumentale da parte di un gruppo che va via via aumentando il suo bacino di ascolto, finendo per suonare anche in posti lontani da casa (ultimamente Roma e Milano) e raccogliendo consensi da parte della critica specializzata. La loro proposta promette un tappeto sonoro elettronico sul quale svetta un sassofono in grado di apportare un’ulteriore apertura al suono. A momenti suonano quasi etnici, molto più spesso psichedelici e a tratti dilatati. Difficile descriverli oltre, provate ad addentrarvi e lasciatevi catturare.

8. Saint Vitus Saint Vitus: dentro nuovamente Scott Reagers, fuori Mark Adams, Dave Chandler rimane sempre di più al comando della sua creatura, facendo uscire il secondo disco omonimo della storia del gruppo e centrando l’obbiettivo maggiormente rispetto a quanto fatto anni prima con la formazione con Mr. Wino dietro al microfono. I brani appaiono maggiormente focalizzati, benché la durata del lavoro risulti sempre piuttosto risicata, c’è un impeto maggiore, una maggiore convinzione. Il lavoro appare più organico e coeso ed anche l’ ennesimo reinserimento del cantante originale sembra riuscire più del ritorno con Wino dietro al microfono che, comunque, nel frattempo ha pure trovato il sistema di rientrare egregiamente con gli Obsessed. Non siamo ai livelli del pre-reunion, ma comunque un lavoro per il quale vale la pena di scucire qualche pizza di fango.

7. Edda Fru Fru: Dopo ancora altri ascolti, l’opinione in merito non è cambiata. Si tratta di un’opera frivola e leggera dietro la quale si agita uno degli ultimi artisti sinceri e veri della musica italiana. Graziosa utopia era di un altro pianeta, ciò non significa che questo nuovo non sia piacevole e regali dei momenti di godimento sonoro (e anche lirico) notevoli, pur non raggiungendo certe vette, rimane una spanna sopra ciò che l’ Italia in media ha da offrire.

6. The Haunting Green Natural Extintions: Una gran bella scoperta fatta grazie a Blogthrower. Un duo dedito ad una musica quasi strumentale i cui numi di riferimento sembrano arrivare in parte da certo black metal evoluto ed in parte da una forma di post metal (Neurosis e compagnia), il tutto rivisto in un’ottica molto personale e intensa. assolutamente degni di attenzione e supporto.

5. Monolord No comfort: Un gruppo derivativo, ne convengo. Ma posso fare eccezioni e per loro le eccezioni le faccio più che volentieri. La prima volta che ho ascoltato questo disco mi sono detto che era tutta roba che avevo già sentito da qualche altra parte. Ma poi l’ho ascoltato una seconda, una terza, una quarta volta e così via, finché non sono più riuscito a scrollarmelo di dosso. Non importa se poi i rimandi a Black Sabbath ed Electric Wizard si sprecano, alla fine i Monolord vivono di vita propria. E che vita! Io avrò sempre bisogno di dischi come questo. Grandissimi Monolord!

4. STORM{O} Finis terrae: Non c’erano dubbi che finissero anche i feltrini in questa lista. Un disco vibrante e veemente, nel quale esce probabilmente quello che è il loro lato più nervoso e violento. Un disco teso, instabile eppure solido e con le idee incredibilmente chiare con momenti più riflessivi e, a tratti, quasi evocativi ma che fa dell’impeto il suo credo. Superlativa la prova del batterista Stefano. Tremate. Tutti.

3. Iggy Pop Free: Ho già parlato anche troppo di questo lavoro, se ancora non l’avete ascoltato, fatelo.

2. Chelsea Wolfe Birth of violence: Posso solo aggiungere a quanto riferito  a suo tempo che più uno si inoltra negli ascolti, più le sfumature si insinuano nell’ascoltatore ed il disco aumenta di spessore. Una ulteriore sfumatura di se stessa messa in musica da parte di quella grandissima artista che è Chelsea Wolfe, che con un altro disco superlativo, si conferma ad altissimi livelli.

1. Tool Fear Inoculum: Sono già pienamente al corrente di tutte (e dico tutte) le critiche sono state mosse al gruppo e a questo disco. Alcune le condivido, altre meno, alcune per niente. Però ad un certo punto bisogna anche guardare in faccia alla realtà: questo è stato il disco che ho ascoltato, gradito e ammirato di più durante tutto il 2019. Il resto sono chiacchiere.

Gente che è rimasta fuori:

Sunn 0))): Ben due uscite per il gruppo di O’Malley e Anderson. Nessuna delle due è in lista, eppure sono uno dei miei gruppi preferiti. Pur riconoscendone il valore ed adorando la proposta non li ho messi perché non vedo l’ora di vederli dal vivo e la trasposizione su vinile di quello che sviluppano in sede di concerto non è che un pallido tentativo di descriverlo. Vale la pena averli ed ascoltarli. Comunque.

Baroness e Nick Cave and the Bad Seeds: La verità è che non sono riuscito ad ascoltarli a dovere: i Baroness mi suscitavano emozioni troppo contrastanti e mi mettevano in un pessimo stato d’animo senza una spiegazione oggettiva del perché lo facessero. Di “Ghosteen” ho ascoltato solo un brano che mi è parso più pesante di un macigno. Non ho ancora avuto la presenza di spirito e la forza d’animo per approfondire.

Colle der Fomento e Carmona Retusa: Fuori tempo massimo. Non ho inserito i Colle solo perché l’anno scorso non ho fatto in tempo ad ascoltare debitamente “Adversus” e quest’anno non posso inserirlo perché è temporalmente sbagliato. Comunque il loro lavoro, a mio parere, confermando la mia ignoranza relativa sul genere, rappresenta il più bel disco di rap mai scritto in Italia per testi e musiche.

I Carmona Retusa li ho scoperti in concomitanza con l’intervista rilasciata con Blogthrower ma il loro disco, dal titolo ispirato ad Andrea Pazienza è addirittura uscito a marzo del 2018, quindi nulla. Ciò non tolga nulla al loro valore, sono bravissimi e meritano molto più successo.

Count down to 2017

 

Odio capodanno. Amo l’inverno. E’ il periodo per tirare le somme. Ma è una mera convenzione presa in prestito da anni di calendario gregoriano. Potrei tirare le somme anche a marzo o a novembre, ma oramai ho cominciato a farlo a dicembre e mantengo le tradizioni. Odio le tradizioni, le occasioni, le feste comandate. Non mi servono per ricordarmi le cose. Non le festeggio. Sdegno le convenzioni eppure ne accetto una minima parte per inerzia e per pigrizia. E perché alla fine di ogni anno devo tirarne le somme musicalmente parlando, almeno per ricordarmi di dov’ero e cosa facevo. Capirete cosa state per affrontare. 10 dischi per il 2016. E via.

10. Deftones “Gore”

Tutti hanno fatto a gara a parlare male di questo disco. Spero si divertano. A me è piaciuto. E’ da due tornate discografiche che i Deftones mi emozionano, certo, non come negli anni ’90 ma, a mio parere, hanno riguadagnato smalto e ispirazione. Felice di essere l’unico a pensarla in questo modo. In particolare “Phantom bride”, bellissimo testo e chitarra di Jerry Cantrell.

09. Melvins: “Basses unloaded”

Non potevano mancare. Un gruppo degno di venerazione, anche se ultimamente Dale e Buzz finiscano per timbrare dignitosamente il cartellino ogni anno, in compagnia di questo o quell’amico a me non importa. Penso che i due abbiano abbiano ampiamente dimostrato tutto quello che dovevano e adesso finiscano per mantenersi senza dover cercarsi un lavoro comune. Rimane il fatto che Mr. King, per quanto mi concerne, è secondo solo a Mr. Iommi per la capacità di mettere in fila delle semplici note. Up the Melvins no matther who plays bass!

08. Iggy Pop “Post Pop Depression”

Bowie è morto. E non troverete il suo disco in questa lista, così come non troverete quello di Leonard Cohen. Non li ho ascoltati, non volevo gettarmi nel calderone delle condoglianze, della tristezza, dei riconoscimenti dovuti per due artisti che non ho approfondito come avrei dovuto. Al cordoglio ci ha pensato Iggy e lascio a lui la parola per piangere Bowie. Pensatela come volete, questo disco, per me, è un enorme tributo al Duca Bianco, ripesca l’atmosfera di “The Idiot”, il primo disco della nuova carriera dell’iguana solista, in tutto e per tutto patrocinata dall’amico. E mi faccio beffe di tutti quelli che sono stati delusi aspettandosi che Josh Homme prendesse il posto di Ron Asheton per dare vita ad una nuova incarnazione degli Stooges. Le sue parti di chitarra avrebbe potuto suonarle chiunque, però fortunatamente il disco funziona.

07.In the woods… “Pure”

Un ritorno che non ti aspetti per una band norvegese che ha prodotto uno dei dischi più toccanti degli anni ’90 (“Omnio”) e come al solito non sai cosa aspettarti. Avrebbero potuto rovinare ogni bel ricordo… e fortunatamente non lo fanno, la paura era tanta. Certo a volte il disco suona stanco e fatica a prendere il volo, ma nella seconda parte sembra veramente ritornato agli antichi fasti, lontane le radici black metal, la fiamma del prog è ancora splendente e tutt’altro che autoindulgente. Bentornati.

06. Liquido di Morte “II”

Un disco strumentale? Certo. E’ una rarità che non può mancare, soprattutto se si tratta di uno dei migliori gruppi italiani al momento. Coinvolgenti. Ipnotici. Ispirati. Occorre essere dello stato d’animo adatto ma poi ti trascinano via. Lontano.

05. Kvelertak: Nattesferd

I gufi non sono quel che sembrano. I Kvelertak escono dal pantano (per quanto intrigante) del loro secondo lavoro e ritornano con un disco fresco dal deciso piglio rock’n’roll con pochi fronzoli e molta decisione. In pochi ci avrebbero scommesso eppure il disco vince in freschezza compositiva e trascinante foga. Mischiare black metal e rock può sembrare azzardato e loro ci sono riusciti, riprendere le redini di una proposta che aveva mostrato un po’ la corda solo alla seconda uscita forse era ancora più difficile. Ora non c’è due senza tre. Norway, here we come!

04. Darkthrone: Arctic Thunder

Io e l’altro unimog consideriamo i Darkthrone come i nostri padri spirituali, specialmente dopo l’abbandono della fase blackmetal. A loro non importa nulla e nemmeno a noi. Impegnati nella loro sempiterna crociata per il metal, quello esente da ogni suono plastificato, che ha il suo habitat naturale in qualche bunker svizzero impenetrabile nella prima metà degli anni ottanta, come fai a non stimarli? Quando poi abbiamo visto un fuoco rupestre in copertina, la vicinanza si è accorciata ancora. Rustici e veri, nel senso più genuino del termine, incidono un altro disco alla faccia di chi gli vuol male. E tanto basta.

03. Nick Cave and the Bad Seeds: “Skeleton tree”

Credo di aver scritto già a sufficienza di questo disco quando uscì. E visto che fa della sottrazione la sua forza non mi sento di aggiungere nulla se non che, a ben vedere, dovrebbe essere fuori “classifica” in quanto troppo intimo e sofferto per poter figurare in una cosa così frivola e vacua. Ci finisce solo perché non posso non ricordare un dico come questo. Curioso come la separazione tra lui e Blixa alla fine ce li restituisca entrambi in splendida forma (così ricordo anche “Nerissimo” e il bellissimo concerto a Milano con Teho Teardo).

02. Klimt 1918: “Sentimentale jugend”

Otto lunghissimi anni di silenzio. A me i Klimt 1918 sono mancati e parecchio. Il mio incontro con loro avvenne in una situazione che mi rende impossibile non considerarli vicini al cuore. Durante un viaggio a Vienna, in pieno trip Klimtiano da tre musei al giorno senza tregua, entro in un negozio di dischi (c’erano dubbi?) e scartabellando tra i CD mi viene tra le mani il loro, bellissimo, “Dopoguerra”. L’ho preso come un segno del destino e da allora occupano un posto speciale tra i miei ascolti.

Un doppio CD potrebbe essere una mossa decisamente pretenziosa e forse azzardata. Ebbene non lo è. Il lavoro è inteso, pregno di lirismo e ispirazione, magari non semplice da ascoltare di seguito eppure assolutamente affascinante nel concept (Germania anni ’80 e Roma), soavemente etereo e atmosferico. Non fateci mai più attendere tanto!

01. Neurosis: “Fires within fires”

Mi spiace, nessuna sorpresa. Dopo 10 minuti della loro esibizione bresciana dello scorso 11 agosto avevano agilmente spazzato via qualsiasi cosa avessi visto dal vivo nell’ultimo periodo. Semplicemente questo. Possiedono un’intensità ineguagliabile. Un suono personale e mutevole, senza che per questo si snaturi. Evolvono disco dopo disco, concerto dopo concerto. La loro ultima incarnazione è scarna, essenziale diretta.

Dritta al cuore, dritta all’anima all’origine stessa della musica. Il viaggio continua.

Cancelleria inutilizzata

Parole mai scritte
Parole mai scritte

In questo periodo di magra, nel quale non riesco a spiccicare una parola su questo blog, mi è tornata in mente tutta la cancelleria che ho inutilizzata. E non per mancanza di idee stavolta. Ma perché alcuni quaderni sono semplicemente troppo belli per scriverci sopra: hai sempre paura che le tue parole non siano all’altezza di quelle pagine dall’indiscutibile fascino. Amo i quaderni ma su alcuni non riesco proprio a scrivere. L’esempio è principe è quello di un quaderno nero a righe che mi regalò all’epoca mia mamma: giace ancora intonso. Un’altra volta mi regalò una bellissima carta da lettere coi delfini, credete sia riuscito a scriverci? Probabilmente  è stata preda della muffa, io non ce la facevo, nemmeno a mandarla a qualcun’altro.

I miei quaderni preferiti sono quelli tutti neri, vecchi, con le pagine tinte lateralmente di rosso e le tabelline in fondo, i quadretti delimitati da due righe rosse laterali. Tuttora imbattibili, nonostante le varie moleskine e paperbacks. Poi adoravo un temperino a forma di topo (per aprire il serbatoio gli tiravi la coda) ed un pennarello a forma di gatto. il primo l’ho provato una volta faceva una punta affilatissima, peggio di un rasoio, il secondo aveva un tratto grasso e simpatico… ma non ci feci mai nulla di concreto dopo averli provati. Facevano una coppia perfetta e chi ero io per dividerli quando il gatto si fosse esaurito? Era un’eventualità che non sapevo affrontare e non affrontai.

Amo le penne stilografiche, trovo che siano un’ entità perfetta che non ha nulla a che fare con le volgari penne a sfera. Queste entità si ostinano a mostrarmi la loro superiorità intrinseca macchiando le mie dita meschine ogni volta che le impugno. Ma sbaglio io: hanno troppo fascino per essere usate. Ho addirittura una mont blanc che viene tenuta come una regina, una tozza pelikan, che si fa beffe di me col suo inserto madreperlato, anche se non ho ancora avvicinato una parker 51, storica stilografica, nonostante un paio di volte io abbia anche ardito a cercarla su e-bay, ma, finora, non ho osato nemmeno acquistarla.

Ho molta cancelleria intonsa. Un quaderno con la copertina rigida a quadretti azzurri su sfondo bianco, il raccoglitore con la cartina di Londra l’ho usato solo l’anno scorso. Ognuno ha le sue turbe.

“Love letter, Love let her. Go Getter, Go get her. Love letter, Love let her. Go teller, Go tell her.”

Agosto, il punto della situazione

Tutti sanno che questo non è esattamente il mio mese preferito, quest’anno, per ovviare al problema, ho deciso di fare un po’ il punto della situazione discograficamente parlando, per mettere, per quanto possibile, un po’ d’ordine tra le uscite discografiche che si sono susseguite in questi primi 7 mesi dell’ anno. Rispetto all’anno passato che, con i dischi di Neurosis, Converge e High On Fire aveva fatto segnare un picco di qualità, quest’anno era inevitabile il riflusso, teniamone conto.

Ho scoperto in ritardo, ma con mio immenso gaudio, che il disco di Mark Lanegan  “Blues Funeral” avrebbe dovuto assolutamente entrare di diritto nei dischi dell’anno del 2012, magari proprio dietro al terzetto citato in precedenza. Che abbia una delle voci più belle mai sentite credo che sia piuttosto indubbio, almeno per me, però questo disco restituisce l’ex cantante di Screaming Trees e QOTSA in una forma smagliante. E non tragga in inganno l’inserimento di una strumentazione elettronica prima piuttosto assente nella sua produzione, incredibile a dirsi, è integrata alla perfezione e, a mio parere, finisce per mostrare un lato di Lanegan finora rimasto abbastanza nell’ombra… complimenti, veramente un gran disco.

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Un altro artista in grado di rimettersi in gioco, dopo un periodo non proprio felice compositivamente parlando (“Dig Lazarus Dig” non era nemmeno brutto, semplicemente non ha lasciato il segno come un disco del re inchiostro dovrebbe fare), è Nick Cave. Nonostante il vecchio impianto dei Bad Seeds abbia perso pezzi che potevano a tutti gli effetti essere considerati importanti, il nuovo disco (“Push The Sky Away”) è una boccata d’aria fresca e ce n’era bisogno, nonostante i Grinderman. Come suggerisce la copertina, la musica possiede ora un corpo molto più etereo che fisico, dopo tutto (fate le corna se credete!) è una direzione nella quale ci evolviamo tutti.

Di “13” dei Black Sabbath credo di aver detto tutto, e non solo io… è stato il disco che ho ascoltato di più quest’anno e non solo per questioni affettive: a me continua a piacere e continuo ad ascoltarlo, piano piano tutte le vocine contrarie si sono zittite. Non che non abbia i suoi limiti, ma per una volta posso anche soprassedere e godermi la vita (ed il mio gruppo preferito). Anzi, mi sono rilassato al punto che ho anche già ordinato “Surgical Steel” dei Carcass in edizione limitata con tanto di kit per la sutura (altri bla bla bla) mi ha convinto il nuovo singolo (e, vabbeh, anche la nostalgia). Ho deciso che circa le possibili (?) reunion, d’ora in poi, il mio atteggiamento sarà: ascoltare e decidere in piena autonomia se mi piacciono o meno, escludendo qualunque vociare non inerente alla musica… se ti piace, ascoltalo! Altrimenti intristisciti con le recensioni… io sono abbastanza saturo di parole, ma continuo a scriverne 😛 .

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Avendo saltato il disco del ritorno, ho deciso di dare una possibilità anche agli Autopsy, storici pionieri del death metal meno tecnico, ma decisamente molto più oscuro e maligno. Beh è un lavoro dignitoso, ma sai abbastanza in anticipo cosa aspettarti, che, nel loro caso, va anche bene. Mi ha stupito solo la produzione decisamente più pulita che in passato. Per il resto testa bassa e smembrare!

Chi invece convince pienamente sono i Clutch. Il loro “Earth Rocker” rappresenta senza dubbio una delle cose più belle ascoltate quest’anno. Compatti, senza fronzoli e dannatamente concreti, assemblano un disco che avrebbe tantissimo da insegnare a molti in termini di “etica del rock’n’roll”, non un calo di tono, non una caduta di stile. I Clutch da anni si muovono nel loro territorio musicale, rischiando di essere inglobati in questa o quella categoria, finendo per schivarle tutte. Forse anche per questo sono rimasti sempre un po’ nell’ombra. Al diavolo, se avessero il successo che meritano potremmo quasi credere nella giustizia terrena. Viva la barba di Neil Fallon!

Veniamo ai progetti alternativi: CT dei Rwake ha dato vita agli interessanti Iron Tongue, nei quali dimostra di poter cantare anche in canzoni meno estenuanti (nella loro bellezza) di quelle del gruppo madre. Un buon esordio: nulla che faccia impazzire ma una rinfrescante e alleggerita miscela di sludge e sentimenti sudisti, questo sì. Buoni per una scampagnata in palude! Dati gli addendi dei Palms, tre Isis e un Chino Moreno (deftones), la somma che ne risulta non è male: se all’inizio rimane in sordina, dopo un po’ diventa buona, alla fine volge al tedio, non sono in grado di essere più esaustivo. Come non so molto del nuovo All Pigs Must Die, del batterista dei Converge Ben Koller, ho avuto poco tempo per dedicarmici, ma ad un ascolto sommario mi ha scartavetrato la faccia a dovere. Ottimo.

Senza infamia e senza lode (che è già un passo avanti) il nuovo dei Queens Of The Stone Age e mi dispiace, sono legato al lavoro di Josh Homme e non solo coi Kyuss, ma questo disco non mi prende proprio. Se poi mi sbaglio a far suonare il loro esordio è la fine. Sembravano i salvatori della patria del rock: per carità, ci hanno provato. I Kvelertak sembravano parimenti una ventata d’aria fresca nella musica pesante, in realtà la ventata si è trasformata un refolo di aria tiepidina già alla seconda uscita. “Meir” non è un brutto disco, solo che non convince come aveva fatto il loro esordio, ecco tutto, il classico fuoco di paglia? Chi è un po’ in caduta libera sono i Volbeat, dalla Danimarca senza furore, il nuovo disco a me sembra un po’ la pallidissima copia edulcorata del gruppo incendiario che furono!!! Il nuovo chitarrista non so onestamente quanto c’entri e la loro formula (tipo Elvis appesantito e distorto) mi pareva azzeccata, però adesso passano i loro singoli in tele ed alla radio di mezzo mondo (mi risulta che in patria ormai siano al limite del tormentone) e quindi hanno pensato bene di smussare gli angoli, nonostante in una canzone ci sia addirittura ospite King Diamond, gloria locale. Davvero una pessima mossa. Sa di passo falso anche l’ultimo dei bostoniani Morne, il cui “Asylum”  del 2011, mi aveva molto colpito col suo giocare a palla con My Dying Bride (assolutamente dispersi) e sludge. Ebbene il nuovo “Shadows” mi ha tediato a morte e non so se gli concederò un secondo passaggio nello stereo, eccellente suicidio. Il resto, probabilmente, non l’ho ascoltato.

Poi, qualche giorno fa, mi è apparso tra le mani “Into The Pandemonium” dei Celtic Frost, con tanto di copertina di Bosch, e da allora non hanno smesso di perseguitarmi…

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Push the sky away

Nick Cave and the Bad Seeds: Push The Sky Away
Nick Cave and the Bad Seeds 2013

Era da qualche post che non si parlava di musica su queste pagine fatte di pixel. Una specie di turbine avvolge, scuote e stritola l’ambiente attorno: un vortice fatto di inquietudine e di incertezza. Ogni volta che sinistre ombre appaiono sull’uscio di casa, ogni volta che minacciose promesse di malessere si affacciano oppure si ha l’ennesima conferma della fragilità della ingestibilità della nostra condizione, l’istinto spinge a guardarsi attorno e una delle poche cose che sembra sempre salvare tutto: è quella forza che ci spinge ad esprimerci, quella forza che rappresenterà sempre la salvezza del genere umano, stiamo parlando dell’Arte. Di cos’altro?

Ci speravo in questo disco di Nick Cave e dei suoi compagni, ci speravo nonostante l’ultimo lavoro sapesse troppo di scarti dei Grinderman, nonostante i passaggi a vuoto e la perdita di un altro tassello fondamentale (Blixa Bargeld è ormai lontanissimo all’orizzonte) nell’ ensamble dei semi cattivi: il polistrumentista Mick Harvey. Ci speravo ed il Re Inchiostro non ha voluto lasciare me (e nemmeno i molti fan che lo seguono fedelmente) con l’amaro in bocca.

Nick Cave and the Bad Seeds: "Push The Sky Away"
Nick Cave and the Bad Seeds: “Push The Sky Away”

Uno dei più letterari autori di musica che abbia mai calcato le scene ritorna con un disco etereo e finalmente ispirato. Lasciate al passato (e ai Grinderman) le distorte sfuriate figlie degli Stooges, si richiude su se stesso: in una camera piena di candida luce con la splendida compagna Susie Bick ed ascolta il silenzio fra le note più che le note stesse. Raramente le copertine interpretano così bene il contenuto musicale. Lampi elettrici sommessi scuotono le composizioni che respirano aria fresca  che filtra dalle finestre, con Warren Ellis che annuisce in un angolo distante. Una sorta di viaggio al termine della notte: il disco abita quei pochi minuti prima che il sole sorga. E non è un alba da maledire, è un alba da osservare in silenzio, come all’ assenza di suono sembra anelare la title track posta alla fine. Senza sapere cosa venga poi. Senza che questo abbia comunque una qualche importanza.

Perché il momento è adesso, perché la luce sta per svelare il mistero conficcato a forza nel buio, perché noi sappiamo chi sei, sappiamo dove vivi, sappiamo che non c’è modo di perdonare. Il morbido accenno sonoro colmo di intenzione permea “We no who U R”, gli spigoli nel buio di “Wide lovely eyes”, il mondo in caduta di “Waters edge”, l’anima compromessa di “Jubilee street” e della sua percussiva prosecuzione, il mare oscuro e redento di “Mermaids”, il cuore a quattro corde che pulsa in “We real cool”, l’accenno di maledizione in “Higgs boson blues”.

Vi ho detto tutto: ora scopritelo da voi. Mettetevi in gioco, come lo ha fatto lui, affrontate la luce armati solo della notte che è appena trascorsa, sceglietevi un cantuccio comodo e protettivo, perdete l’anima per voi stessi: vi accorgerete che vi ha seguito tutto il tempo senza farsi vedere come un cane che ha fame di ciò che siete.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=5Ts8k9aGMok]

Push away the sky, nuovo lavoro di Nick Cave and the Bad Seeds

Il 18 febbraio è la data prescelta per l’uscita del nuovo lavoro del cantante australiano e della band a lui, da sempre, collegata. C’è stato un periodo nel quale l’autore australiano era ospite fisso nel mio immaginario, prima che le nostre strade si allontanassero, almeno un po’… forse per via di dischi non sempre riusciti (seppur nella loro classe innegabile) come “Nocturama” o il precedente “Dig, Lazarus, dig!!!” o magari anche per il progetto Grinderman, che senz’altro ha i suoi pregi, ma sembra anche un po’ disperdere le energie. Non lo so, io ho continuato a seguirlo, ma la distanza tra di noi si è allungata ed ora, in attesa del nuovo lavoro non so bene cosa pensare… lo prenderò di sicuro ma la distanza ascoltatore-artista aumenterà ancora?

Ogni fan che si possa definire tale ha delle aspettative è fatale. Nutrire delle aspettative sul lavoro di un artista in teoria è sbagliato, perché bisognerebbe che la libertà di espressione venisse sempre rispettata, occorrerebbe che uno si sentisse libero di parlare di ciò che vuole e di rendere le tematiche che intende trattare nella maniera che ritiene più opportuna, però è fatale che si creino dei legami, dei sentimenti, delle sensazioni che possono spezzarsi. In realtà credo che, soprattutto nel caso di musicisti meno affermati del nostro, sopra un artista si chiuda una cappa plumbea dove le aspettative dei fan, siano, in effetti, l’ultimo dei loro problemi, In mezzo a discografici assuefatti al guadagno, critici musicali incompetenti e chissà quali altre forze maligne ed oscure che aleggiano nell’etere. Viene da domandarsi quanto tutti i fattori esterni influenzino il loro lavoro, è la classica domanda alla quale è improbo rispondere.

Dunque un nuovo lavoro è alle porte per il re inchiostro, come si era soliti riferirsi a lui un tempo. Con le paure e le scommesse questa volta, come sarà? Banalmente sarei contento che fosse un po’ meno elettrico ed un po’ più intimista, che recuperasse un po’ di intensità emotiva e qualche atmosfera da dischi come “Good Son” o “No More Shall We Part”, per dirne una. Non so bene cosa aspettarmi, il singolo apripista è piuttosto interlocutorio…

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=2kBl86cIV3g]

“Se dovessi usare quella vecchia metafora dei dischi come i propri figli, allora direi che questo è il bambino-fantasma nell’incubatrice e che i loop di Warren sono i suoi piccoli, tremanti battiti del cuore”

Oh no!

“I’m sorry that I’m always pissed, I’m sorry that I exist, when I look into your eyes I can see you’re sorry too…”

Questo post ha il solo scopo di celebrare il genio del Re Inchiostro e di chiedere umilmente scusa ai lettori di questo blog perché ogni tanto esagero nei miei quotidiani litigi con la tastiera e le riletture finendo per lasciare una miriade di errori di battitura nei post. Sono terribili, mi disturbano oltre ogni dire ma è più forte di me quindi prego chiunque provi profonda avversione nei confronti dei summenzionati errori di avere pazienza, di solito me ne accorgo e correggo! Comunque devo dire di avere dei lettori oltremodo pazienti, visto che nessuno/a mi ha ancora coperto di improperi. Non merito tanta clemenza, sappiatelo!

Il vostro umilissimo.

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