2021

10. Melvins: working with god. Questo disco è un classico disco dei Melvins vecchia maniera. Per chi li conosce nulla di nuovo: ci sono i loro classici scherzi da prete (la proto-versione del classico dei Beach Boys e quella in cui mandano tutti affanculo), bei riffoni portanti a supporto delle composizioni. In questo disco è tutto apposto, i Melvins che, finalmente, tornano a fare i Melvins. Non finirà in nessuna lista di fine anno ma finisce nella mia perché, da loro ammiratore, avevo bisogno di un disco come questo. Salvo che poi si siano subito smentiti: certo che se c’è una cosa da dire sul gruppo del Washingston state è che non sono fatti per accontentare tutti.

9. Nick Cave, Warren Ellis: Carnage. Spero di non prendermi del nostalgico a tutti i costi ma pur trovando spunti interessanti nel nuovo corso di Nick Cave con il timoniere Warren Ellis, io continuo a preferire la vecchia produzione con i vecchi Bad Seeds. Per me non c’è partita. Eppure questo nuovo capitolo convince, è bello nel suo essere scarno come al solito. Però forse con l’età è venuto a mancare l’impeto emozionale dei vecchi tempi. Senza contare che restare senza due geni musicali come Herr Bargeld e Mr. Harvey, per un pur meritevole Ellis, sicuramente è un’operazione al ribasso. A me questi dischi piacciono ma mi risultano freddi, in molti li apprezzano, io faccio molta fatica pur riconoscendone il valore.

8. Carcass: Torn arteries. Sempre un piacere parlare di Jeff Walker e soci. Questa volta non fa eccezione, sono in forma e all’altezza del nome che portano. Se poi volete fare dei paragoni ingombranti col loro passato, continuare a lagnarvi che Ken Owen non è più della partita e via discorrendo, siete liberi di farlo. Io ho scelto di alzare il volume e godere della loro ultima fatica, non è un’impresa impossibile nemmeno nel 2022.

7. Mondaze: Late Bloom. Mentre molti indugiano in cosucce tipo la synth wave et similia, per il secondo anno di fila ospito nel listone di fine anno un gruppo che fa un genere con dentro la parolina gaze. Stavolta, dopo i Nothing l’anno scorso, tocca a i Mondaze da Faenza con furore. La cosa bella di questo genere è che potenzialmente a tutti gazer piace alzare il volume a dismisura facendo rimbombare tutto. Sembrerà una bestemmia ma la cosa funzione bene con i Carcass e anche con i Mondaze, ovviamente sono diverse le sensazioni ma questo disco ha comunque molto da offrire anche ad un appassionato di cose molto più brutali e trucide. Un bellissimo esordio.

6. Coverge: Bloomoon I. Di questo disco ho già parlato, mi sembra un lavoro meritevole ma un po’ discontinuo e che, alla lunga, non mi ha fatto venire troppo spesso voglia di essere riascoltato. Ancora un giudizio un po’ sospeso: magari poi a distanza di tempo potrebbe venire assimilato meglio almeno dal sottoscritto, le perplessità tuttavia non smorzano l’interesse per un possibile vol. 2.

5. Amenra: De Doorn. Poco da aggiungere anche qui, il solo limite degli Amenra è che fanno musica che è di difficile ascolto. Bisogna essere nella giusta predisposizione spirituale e allora se ne fruisce nel modo migliore e se ne traggono belle soddisfazioni. Il cantato in lingua fiamminga, a mio modo di vedere, aumenta di molto il fascino della loro proposta, anche se non ne capisco praticamente una parola.

4. Godspeed you! Black Emperor: G_d’s Pee AT STATE’S END! Bellissimo lavoro della band canadese, che questa volta, più che in passato, riesce ad essere quasi più fruibile, con passaggi di una bellezza assoluta che rimangono molto più in testa anche a distanza di tempo. Non vedo l’ora di sentire questi brani dal vivo, con il supporto della parte visiva: in tale caso sarebbero già da adesso da mettere al primo posto.

3. Jointhugger: Surrounded By Vultures. Buonissima seconda prova della band norvegese, che incorpora maggiore psichedelia nel proprio suono rinunciando a qualcosa in pesantezza: il risultato è comunque da applausi, un gruppo come ormai se ne sentono pochi. A partire da qui, le loro possibilità evolutive per il futuro hanno mille direzioni, tutte da esplorare.

2. Monolord: Your Time To Shine. Gli svedesi sono ormai un’istituzione e si confermano ancora alla grande con questo disco, molto più oscuro e dolente del precedente. Inizialmente mi aveva quasi respinto, poi mi ha definitivamente conquistato: è un vero e proprio gioiello.

1. Green Lung: Black Harvest. Vincono a mani basse. Hanno i riff, hanno il groove, soprattutto l’immediatezza ed il coinvolgimento che creano con le loro canzoni non hanno praticamente eguali nel panorama odierno. Per riassumere: hanno un gusto per la canzone invidiabile. Ogni brano è un inno da cantare a squarciagola, una marcia trionfale, un coro da stadio dell’occult rock. Forse poco impegnativi e un po’ facili ma in questi tempi difficili avevo proprio bisogno di un disco del genere.

Sole alle spalle

Un riflesso accecante sullo schermo del PC, C’è il sole tra le nuvole ma io sono recluso in casa con una voce che potrebbe sembrare quasi quella di Mark Lanegan, senza averne la grazia e con un retrogusto di i***san in gola. Son messo bene, non c’è che dire amici. Serve una colonna sonora e arriva l’amico Cash, libero dalle catene. Mi serve del supporto musicale, mi serve di ritrovare la salute quanto prima che  passare le vacanze malato mi sa tanto di nuvoletta Fantozzi e non mi sembra il caso. I‘m gonna break my rusty cage and run… appena il simpatico mal di gola/ raffreddore/ tracheite/ peste bubbonica mi molla un attimo.

E intanto l’anno finisce e mi sembra un eterno ritorno. A tragico listone di fine anno. Quest’anno c’è un escluso di lusso: i Black Sabbath. Loro non li posso mettere, sono al di sopra di ogni critica, listone, solito giochino dei cultori musicali. Loro non mi piacciono, gli voglio proprio bene, un po’ come ai Melvins, ai Vista chino, ai Tool, ai Neurosis ed ai Converge, anche se a loro dippiù. ubi maior minor cessat e cessat sul serio. In un anno nel quale tutti sono tornati come dei nodi al pettine che si sciolgono. Loro hanno sciolto il più grosso: potevano rovinare tutto e, se escludiamo l’ esclusione di Bill Ward (che è spiaciuta a tutti, dai…), non l’hanno fatto. Grazie, davvero, non ci ho mai creduto sul serio che avreste buttato tutto nel cesso.

Detto questo, devo dire che l’ovazione massima vai ai Clutch quest’anno e alla barba di Neil Fallon. Mannaggia, era dannatamente semplice ma nessuno faceva più un bel disco di rock’n’roll da secoli.Veramente un disco con gli attributi. Muscolare, compatto, senza fronzoli. Quello che vedi è quello che avrai, che poi è quello che hai sempre amato “What’s this about limits? Sorry I don’t know one!”

E poi, l’eterno ritorno: un disco che non ho ascoltato quanto avrei voluto, ma che rimane molto ispirato è quello di Nick Cave, prometto di rimediare quanto prima. You know who we are. Con Vista Chino e Carcass c’è stata una bellissima rimpatriata con gente che non si vedeva in giro da secoli ma che ti è sempre, ma sempre, rimasta nel cuore: si è fatto festa assieme, e si continuerà a farne, ne sono quasi sicuro. E poi ci sono i Sub Rosa, una piacevolissima scoperta, e i Melvins che, tra una presa in giro ed un’altra hanno piazzato nel loro ultimo lavoro una delle mie canzoni preferite di sempre. Difficile da spiegare, coincidenze. Tempo fa ho scovato una fotografia di Buzz che assomigliava, crederci o no, a Robert Smith dei Cure, poi sento questa canzone, il cui incipit mi fa pensare subito a “Just like heaven”, e penso “ne stanno combinando un’altra. In effetti han combinato questa:

ed io l’adoro…

Ah la novità per il 2014 è che mi sto mettendo ad ascoltare seriamente dopo millenni i Led Zeppelin, il che è tutto dire. Salvo ripensamenti inquetanti, per quest’anno è tutto, con buona pace del dannato riflesso…

Agosto, il punto della situazione

Tutti sanno che questo non è esattamente il mio mese preferito, quest’anno, per ovviare al problema, ho deciso di fare un po’ il punto della situazione discograficamente parlando, per mettere, per quanto possibile, un po’ d’ordine tra le uscite discografiche che si sono susseguite in questi primi 7 mesi dell’ anno. Rispetto all’anno passato che, con i dischi di Neurosis, Converge e High On Fire aveva fatto segnare un picco di qualità, quest’anno era inevitabile il riflusso, teniamone conto.

Ho scoperto in ritardo, ma con mio immenso gaudio, che il disco di Mark Lanegan  “Blues Funeral” avrebbe dovuto assolutamente entrare di diritto nei dischi dell’anno del 2012, magari proprio dietro al terzetto citato in precedenza. Che abbia una delle voci più belle mai sentite credo che sia piuttosto indubbio, almeno per me, però questo disco restituisce l’ex cantante di Screaming Trees e QOTSA in una forma smagliante. E non tragga in inganno l’inserimento di una strumentazione elettronica prima piuttosto assente nella sua produzione, incredibile a dirsi, è integrata alla perfezione e, a mio parere, finisce per mostrare un lato di Lanegan finora rimasto abbastanza nell’ombra… complimenti, veramente un gran disco.

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Un altro artista in grado di rimettersi in gioco, dopo un periodo non proprio felice compositivamente parlando (“Dig Lazarus Dig” non era nemmeno brutto, semplicemente non ha lasciato il segno come un disco del re inchiostro dovrebbe fare), è Nick Cave. Nonostante il vecchio impianto dei Bad Seeds abbia perso pezzi che potevano a tutti gli effetti essere considerati importanti, il nuovo disco (“Push The Sky Away”) è una boccata d’aria fresca e ce n’era bisogno, nonostante i Grinderman. Come suggerisce la copertina, la musica possiede ora un corpo molto più etereo che fisico, dopo tutto (fate le corna se credete!) è una direzione nella quale ci evolviamo tutti.

Di “13” dei Black Sabbath credo di aver detto tutto, e non solo io… è stato il disco che ho ascoltato di più quest’anno e non solo per questioni affettive: a me continua a piacere e continuo ad ascoltarlo, piano piano tutte le vocine contrarie si sono zittite. Non che non abbia i suoi limiti, ma per una volta posso anche soprassedere e godermi la vita (ed il mio gruppo preferito). Anzi, mi sono rilassato al punto che ho anche già ordinato “Surgical Steel” dei Carcass in edizione limitata con tanto di kit per la sutura (altri bla bla bla) mi ha convinto il nuovo singolo (e, vabbeh, anche la nostalgia). Ho deciso che circa le possibili (?) reunion, d’ora in poi, il mio atteggiamento sarà: ascoltare e decidere in piena autonomia se mi piacciono o meno, escludendo qualunque vociare non inerente alla musica… se ti piace, ascoltalo! Altrimenti intristisciti con le recensioni… io sono abbastanza saturo di parole, ma continuo a scriverne 😛 .

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Avendo saltato il disco del ritorno, ho deciso di dare una possibilità anche agli Autopsy, storici pionieri del death metal meno tecnico, ma decisamente molto più oscuro e maligno. Beh è un lavoro dignitoso, ma sai abbastanza in anticipo cosa aspettarti, che, nel loro caso, va anche bene. Mi ha stupito solo la produzione decisamente più pulita che in passato. Per il resto testa bassa e smembrare!

Chi invece convince pienamente sono i Clutch. Il loro “Earth Rocker” rappresenta senza dubbio una delle cose più belle ascoltate quest’anno. Compatti, senza fronzoli e dannatamente concreti, assemblano un disco che avrebbe tantissimo da insegnare a molti in termini di “etica del rock’n’roll”, non un calo di tono, non una caduta di stile. I Clutch da anni si muovono nel loro territorio musicale, rischiando di essere inglobati in questa o quella categoria, finendo per schivarle tutte. Forse anche per questo sono rimasti sempre un po’ nell’ombra. Al diavolo, se avessero il successo che meritano potremmo quasi credere nella giustizia terrena. Viva la barba di Neil Fallon!

Veniamo ai progetti alternativi: CT dei Rwake ha dato vita agli interessanti Iron Tongue, nei quali dimostra di poter cantare anche in canzoni meno estenuanti (nella loro bellezza) di quelle del gruppo madre. Un buon esordio: nulla che faccia impazzire ma una rinfrescante e alleggerita miscela di sludge e sentimenti sudisti, questo sì. Buoni per una scampagnata in palude! Dati gli addendi dei Palms, tre Isis e un Chino Moreno (deftones), la somma che ne risulta non è male: se all’inizio rimane in sordina, dopo un po’ diventa buona, alla fine volge al tedio, non sono in grado di essere più esaustivo. Come non so molto del nuovo All Pigs Must Die, del batterista dei Converge Ben Koller, ho avuto poco tempo per dedicarmici, ma ad un ascolto sommario mi ha scartavetrato la faccia a dovere. Ottimo.

Senza infamia e senza lode (che è già un passo avanti) il nuovo dei Queens Of The Stone Age e mi dispiace, sono legato al lavoro di Josh Homme e non solo coi Kyuss, ma questo disco non mi prende proprio. Se poi mi sbaglio a far suonare il loro esordio è la fine. Sembravano i salvatori della patria del rock: per carità, ci hanno provato. I Kvelertak sembravano parimenti una ventata d’aria fresca nella musica pesante, in realtà la ventata si è trasformata un refolo di aria tiepidina già alla seconda uscita. “Meir” non è un brutto disco, solo che non convince come aveva fatto il loro esordio, ecco tutto, il classico fuoco di paglia? Chi è un po’ in caduta libera sono i Volbeat, dalla Danimarca senza furore, il nuovo disco a me sembra un po’ la pallidissima copia edulcorata del gruppo incendiario che furono!!! Il nuovo chitarrista non so onestamente quanto c’entri e la loro formula (tipo Elvis appesantito e distorto) mi pareva azzeccata, però adesso passano i loro singoli in tele ed alla radio di mezzo mondo (mi risulta che in patria ormai siano al limite del tormentone) e quindi hanno pensato bene di smussare gli angoli, nonostante in una canzone ci sia addirittura ospite King Diamond, gloria locale. Davvero una pessima mossa. Sa di passo falso anche l’ultimo dei bostoniani Morne, il cui “Asylum”  del 2011, mi aveva molto colpito col suo giocare a palla con My Dying Bride (assolutamente dispersi) e sludge. Ebbene il nuovo “Shadows” mi ha tediato a morte e non so se gli concederò un secondo passaggio nello stereo, eccellente suicidio. Il resto, probabilmente, non l’ho ascoltato.

Poi, qualche giorno fa, mi è apparso tra le mani “Into The Pandemonium” dei Celtic Frost, con tanto di copertina di Bosch, e da allora non hanno smesso di perseguitarmi…

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Il lascito

Johnny Cash Stamp
Johnny Cash Stamp

Mi trovavo al parco della Pellerina di Torino ad aspettare che il concerto gratuito di Iggy Pop and The Stooges iniziasse, la prima volta che sentii Johnny Cash cantare “Hurt” dei Nine Inch Nails. Mi girai verso il mio amico chiedendo “ma questa è… “Hurt””? -annuì- e chi la canta? “Johnny Cash”. Oddio, Johnny Cash? Quelli della mia generazione e nazionalità erano già abbastanza fortunati se l’avevano sentito cantare  “The Wanderer” degli U2, altrimenti ne sapevano ben poco del Man In Black. Mi ci metto anche io: sapevo che era un cantautore americano, di pseudo- country, ma, a parte questo, a parte aver sentito qualche volta “Ring Of Fire”, finita poi anche nella pubblicità di certi Jeans cui avevano tolto un rivetto, non è che mi fosse arrivato un granché del suo personaggio.

Invece andava approfondito. Eccome se ne valeva la pena. Non mi sembra il caso di riprendere ulteriormente la statura umana ed artistica del personaggio, anche solo la profondità estrema della sua voce, la rocambolesca quanto incredibile storia con June Carter o la sua voglia di cantare per gli ultimi, gli estromessi ed i reietti. Un po’ l’ho comunque fatto: per tutte queste e per altre cose ancora oggi quell’uomo è una leggenda, com’è giusto che sia. Ma cos’abbia spinto quella persona, quasi al termine della sua vita, a riprendere un testo colmo di afflizione come “Hurt” era difficile intuirlo. Lui che, nonostante i suoi problemi con le droghe, in fondo, eroinomane non lo è mai stato. Cosa c’entra lui con una musica come quella dei Nine Inch Nails? O con quella dei Depeche Mode? Con Nick Cave ci si poteva anche arrivare…

La risposta è che Johnny Cash non ha mai smesso di essere curioso, di mettersi in discussione e di amare la musica profondamente e per tutta la vita. Non ha avuto paura di confrontarsi con voci diverse dalla sua, lontane anche dal punto di vista generazionale, senza preoccuparsi della sua età avanzata o del fatto che la sua voce avesse in se’ tutti i segni della vita trascorsa. Più tardi avrei pensato ad un parallelo con Galileo Galilei che, giunto ai suoi ultimi anni, non si fece distrarre dal tempo trascorso sulla terra, continuò invece la produzione scientifica, con un lavoro serrato e caparbio: senza paura come, forse, non aveva mai fatto prima. Johnny, invece,  prese in mano la chitarra e registrò le “American Sessions”: una sorta di testamento musicale, sotto forma di racconto corale, nel quale prende spunto dagli autori più disparati riuscendo a dare alle loro canzoni un’ interpretazione assolutamente affascinante: una straordinaria dimostrazione di sensibilità e passione mai sopita.

Quello che posso augurare a me stesso è di riuscire a mantenere a mia volta la stessa lucidità intellettuale, la stessa volontà di ricercare e di mettersi in gioco, ma, soprattutto,  di non scordare che l’età che avanza, a ben vedere, è una possibilità che si rinnova, anno dopo anno, senza dimenticare di avere cura ed affetto per tutte le persone che ci accompagnano e ci aiutano a fruirne.

Qualcuno riporta che lo stesso Trent Reznor, dopo aver visto questo video, fosse visibilmente commosso e sul punto di piangere.

PJ Harvey: “Fountain”

PJ Harvey

Vi parlerò della ragazza… (Nick Cave, From Her To Eternity)

Non basterà una fontana di lacrime a lavarti via da me. Non basterà una cascata di sangue ad annegare il tuo ricordo. Sappilo. Su una collina di alberi brulli e nodosi fumo una sigaretta avvelenata dietro l’altra per bruciarmi la gola, perché non c’è un’altra ragazza con cui io voglia parlare. E non c’è un altra ragazza che abbia lasciato tanto silenzio dietro di se, dentro di me. Se potessi fisicamente avvolgermi su me stesso aspetterei davvero che foglie e neve mi ricoprano nel silenzio, nell’indifferenza. Ma so che mi verranno a cercare i venti e scoperchieranno tutto. Spazzeranno via gli alberi e la terra che ci hanno fatto da testimoni. Urleranno tra i tronchi sradicati. Ed io mi guarderò dall’alto indifeso e solo come non pensavo di poter essere mai.

In seguito giunge l’alba.

La ragazza non è mai stata là, è sempre lo stesso… e correre in direzione del nulla ancora ed ancora ed ancora ed ancora… (The Cure, A Forest)

E’ la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde che io abbia mai conosciuto (Nick Cave)

Stand under
Fountain
Cool skin,
Washed clean
Wash him from me

Along comes the wind
A big bone shaker
Blows off my clothes
Completely naked
What to do
When everything’s
Left you

Out of the blue
It is he
Vision to me
Bearing leaves
Petals green
Covers me
In all my shame

Hand in hand
He’s my big man
Stays with me
Some forty days
No words
Then goes away
I cry again

On my hill I wait for wind
And on my hill I wait for wind

Downfall

E mentre parlo i corvi si sono giocati i miei occhi. Come un paio di brutte monete rotolano ed aspettano, mentre il fumo ondeggiante si arriccia e muore sopra di me. Ora io lo vedo oscurarsi e son sprofondato solo per un quarto, giù, o quasi. Sempre più giù, io vado.

(“E l’asina vide l’angelo”, Nick Cave)

L’occhio che i corvi si sono giocati

A volte non bisognerebbe avere occhi per vedere, mani per salutare, sentimenti per soffrire, coltelli affilati per potersi ferire. In un lampo ogni cosa crolla dentro, la sicurezza vacilla e l’equilibrio si vanifica …da qualche parte nell’orecchio interno l’incantesimo si spezza e le ginocchia cedono fragorosamente sul nero dell’asfalto e la tua immagine riflessa non può che resistere un attimo prima di fratturarsi e andare in pezzi. Fatalmente il sorriso si infrange e si spegne ogni cosa attorno. E si palesa la mancanza, il vuoto in tutta la sua magnificenza inversa.

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