10. Melvins: working with god. Questo disco è un classico disco dei Melvins vecchia maniera. Per chi li conosce nulla di nuovo: ci sono i loro classici scherzi da prete (la proto-versione del classico dei Beach Boys e quella in cui mandano tutti affanculo), bei riffoni portanti a supporto delle composizioni. In questo disco è tutto apposto, i Melvins che, finalmente, tornano a fare i Melvins. Non finirà in nessuna lista di fine anno ma finisce nella mia perché, da loro ammiratore, avevo bisogno di un disco come questo. Salvo che poi si siano subito smentiti: certo che se c’è una cosa da dire sul gruppo del Washingston state è che non sono fatti per accontentare tutti.
9. Nick Cave, Warren Ellis: Carnage. Spero di non prendermi del nostalgico a tutti i costi ma pur trovando spunti interessanti nel nuovo corso di Nick Cave con il timoniere Warren Ellis, io continuo a preferire la vecchia produzione con i vecchi Bad Seeds. Per me non c’è partita. Eppure questo nuovo capitolo convince, è bello nel suo essere scarno come al solito. Però forse con l’età è venuto a mancare l’impeto emozionale dei vecchi tempi. Senza contare che restare senza due geni musicali come Herr Bargeld e Mr. Harvey, per un pur meritevole Ellis, sicuramente è un’operazione al ribasso. A me questi dischi piacciono ma mi risultano freddi, in molti li apprezzano, io faccio molta fatica pur riconoscendone il valore.
8. Carcass: Torn arteries. Sempre un piacere parlare di Jeff Walker e soci. Questa volta non fa eccezione, sono in forma e all’altezza del nome che portano. Se poi volete fare dei paragoni ingombranti col loro passato, continuare a lagnarvi che Ken Owen non è più della partita e via discorrendo, siete liberi di farlo. Io ho scelto di alzare il volume e godere della loro ultima fatica, non è un’impresa impossibile nemmeno nel 2022.
7. Mondaze: Late Bloom. Mentre molti indugiano in cosucce tipo la synth wave et similia, per il secondo anno di fila ospito nel listone di fine anno un gruppo che fa un genere con dentro la parolina gaze. Stavolta, dopo i Nothing l’anno scorso, tocca a i Mondaze da Faenza con furore. La cosa bella di questo genere è che potenzialmente a tutti gazer piace alzare il volume a dismisura facendo rimbombare tutto. Sembrerà una bestemmia ma la cosa funzione bene con i Carcass e anche con i Mondaze, ovviamente sono diverse le sensazioni ma questo disco ha comunque molto da offrire anche ad un appassionato di cose molto più brutali e trucide. Un bellissimo esordio.
6. Coverge: Bloomoon I. Di questo disco ho già parlato, mi sembra un lavoro meritevole ma un po’ discontinuo e che, alla lunga, non mi ha fatto venire troppo spesso voglia di essere riascoltato. Ancora un giudizio un po’ sospeso: magari poi a distanza di tempo potrebbe venire assimilato meglio almeno dal sottoscritto, le perplessità tuttavia non smorzano l’interesse per un possibile vol. 2.
5. Amenra: De Doorn. Poco da aggiungere anche qui, il solo limite degli Amenra è che fanno musica che è di difficile ascolto. Bisogna essere nella giusta predisposizione spirituale e allora se ne fruisce nel modo migliore e se ne traggono belle soddisfazioni. Il cantato in lingua fiamminga, a mio modo di vedere, aumenta di molto il fascino della loro proposta, anche se non ne capisco praticamente una parola.
4. Godspeed you! Black Emperor: G_d’s Pee AT STATE’S END! Bellissimo lavoro della band canadese, che questa volta, più che in passato, riesce ad essere quasi più fruibile, con passaggi di una bellezza assoluta che rimangono molto più in testa anche a distanza di tempo. Non vedo l’ora di sentire questi brani dal vivo, con il supporto della parte visiva: in tale caso sarebbero già da adesso da mettere al primo posto.
3. Jointhugger: Surrounded By Vultures. Buonissima seconda prova della band norvegese, che incorpora maggiore psichedelia nel proprio suono rinunciando a qualcosa in pesantezza: il risultato è comunque da applausi, un gruppo come ormai se ne sentono pochi. A partire da qui, le loro possibilità evolutive per il futuro hanno mille direzioni, tutte da esplorare.
2. Monolord: Your Time To Shine. Gli svedesi sono ormai un’istituzione e si confermano ancora alla grande con questo disco, molto più oscuro e dolente del precedente. Inizialmente mi aveva quasi respinto, poi mi ha definitivamente conquistato: è un vero e proprio gioiello.
1. Green Lung: Black Harvest. Vincono a mani basse. Hanno i riff, hanno il groove, soprattutto l’immediatezza ed il coinvolgimento che creano con le loro canzoni non hanno praticamente eguali nel panorama odierno. Per riassumere: hanno un gusto per la canzone invidiabile. Ogni brano è un inno da cantare a squarciagola, una marcia trionfale, un coro da stadio dell’occult rock. Forse poco impegnativi e un po’ facili ma in questi tempi difficili avevo proprio bisogno di un disco del genere.