Death metal tecnico da Venezia: un disco che dona gloria a un genere poco frequentato, un impeto notevole di orgoglio, proprio dal nostro paese. Avendo ben presente la lezione magistrale impartita da gruppi come Death, Pestilence ed anche, in misura minore, Atheist, i Miscreance tirano fuori un lavoro che coinvolge dall’inizio alla fine. Merito dell’abilità in fase compositiva e della freschezza che riescono a esprimere, mantenendo alta l’attenzione, alle volte anche con passaggi e soluzioni inaspettati. Normalmente direi che non è proprio il mio genere ma il gruppo veneziano mi ha proprio conquistato. Bravi bravi, da supportare assolutamente…
Russian Circles: Gnosis
Altro gruppo con uno scoglio da superare per il sottoscritto: l’assenza del cantato. Faccio sempre molta fatica con i gruppi strumentali, i Russian Circles non fanno eccezione. Però il disco nuovo mi ha conquistato, sarà per le atmosfere che riportano alla mente quasi subito il substrato dal quale sono nati (il post-tutto di fine anni ’90 inizio duemila che ha avuto in Neurosis e Isis i massimi esponenti), sarà che effettivamente mi sono trovato davanti un buon disco, particolarmente adatto a passeggiare sotto la fine pioggia di ottobre con la nebbia bassa e le foglie che cadono. In mezzo ai suoni attutiti un po’ di fragore ci sta.
Dark Throne: Astral Fortress
Qui provo la stessa di difficoltà che avrei parlando di un gruppo di amici. Non vorrei mai e poi mai vorrei avere nulla da ridire su Fenriz e Nocturno Culto. Hanno fatto della guerra ai suoni plastificati e finti una bandiera, hanno saputo costruire su un passato leggendario e distaccarsene, sono un esempio fulgido di coerenza e attitudine. Il nuovo disco però dice poco di nuovo, dopo diverse evoluzioni, si sono definitivamente standardizzati su musica che sembra uscire direttamente da un bunker svizzero della prima metà degli anni ’80. Veri e genuini fino al midollo, però riscrivere per l’ennesima volta “Morbid Tales”, con tutto il bene che gli voglio, comincia a mettere a dura prova l’ascoltatore.
Mountains: Tides End
Un ottimo disco questo, ce ne era bisogno. I Mountains, trio da Londra, propongono la loro formula: semplice ma non scontata. Immaginate un doom dinamico e melodico, per quanto possibile loro lo incarnano perfettamente… Un piccolo prodigio: la batteria è l’elemento che lascia maggiormente incuriositi: estremamente presente, crea uno scenario inaspettato e perfettamente contestualizzato (mi vengono in mente i Mastodon meno arzigogolati), i passaggi acustici e voce riportano la barra al centro della melodia e le chitarre ruggiscono dal profondo. Un risultato niente affatto facile da ottenere. Per me sono da applausi, oltretutto con una copertina spettacolare.
Duocane: Teppisti in azione nella notte
Da Bari con furore. Già il nome potrebbe dare adito a fraintendimenti di sorta (nessuno si azzardi a cambiare una vocale), poi la proposta si muove tra il serio, la musica, con delle soluzioni molto interessanti con un’ amalgama di stili ed influenze molto personale e il faceto, i testi, con una vena ironica delicatissima. A me sono venuti in mente i mai troppo lodati Zu, soprattutto in “Old man yells at clouds”, ma lo spettro sonoro è veramente ampio, considerate anche le ospitate di altri musicisti che completano l’opera.
Noise, sludge, math, hardcore… Basso e batteria: che spettacolo!
Dopo Biella, Torino e Milano, adesso siamo alla volta dell’ Europa, alla scoperta dei negozi di dischi che mi sono rimasti maggiormente nel cuore. Si tratta di Europa del nord, ovvero di quella parte di continente che sento maggiormente affine a me. Scandinavia e isole britanniche soprattutto, posti che, in qualche modo, mi porto nel cuore. Ma bando ai sentimentalismi e partiamo subito.
Vi siete mai chiesti quale sia il più vecchio negozio di dischi del mondo? Potrei essere smentito ma sono abbastanza sicuro che sia Spillers. Più che un negozio, una leggenda che ha rischiato di sparire ma che tutt’ora resiste nel cuore della capitale Gallese. E dire che ci sono capitato per caso, durante un tirocinio in terra d’Albione, mai più mi sarei aspettato di imbattermi nella storia dei negozi di dischi. Invece in Regno Unito c’è una grandissima passione per la musica, del resto, ragionandoci tutte (o quasi) le più grandi band della storia arrivano da lì e ci sarà pure un motivo. Tutti hanno una vasta cultura musicale molto meno settaria e chiusa che da noi ed è bellissimo, sia che trovi l’appassionato di musica classica che il sessantenne che conosce i Neurosis.
Cardiff è una città molto sveglia culturalmente parlando, ha un centro che la sera diventa quasi un centro svaghi per ubriachi e se ci capiti nel momento giusto non è raro che si trasformi in una festa gigante (io ci sono finito per halloween!). Al contrario di altre città decisamente molto meno rassicuranti (su tutte Liverpool: al sabato sera c’era quasi guerriglia per le strade!) è accogliente e a misura d’uomo. Spillers era un negozio quasi dimesso, se ne stava nel suo angolo ad aspettare quasi che io passassi di lì, da fuori sembra un negozio comune, dentro respiri la storia. Specializzato quasi solo in musica alternativa (e meno male) ti fa respirare l’aria dei veri negozi di dischi. Scaffali di legno, riviste, musica di sottofondo, qualcosa di un po’ polveroso qua e là, c’è tutto.
Non ebbi la possibilità di fare la radiografia al posto, però sono lieto di sapere che, con qualche traversia e boicottaggio a Morrisey perle sue ultime derive estremiste, il posto resiste. Anche solo averci agguantato “Abbattoir blues/ The lyre of orpheus” di Nick Cave and the Bad Seeds è sufficiente a tenere vivo il ricordo (tra l’altro è un disco bellissimo).
Borderline – Dublino
Uno almeno un sabato sera nella vita dovrebbe passarlo a Temple Bar, tanto per capire perché gli irlandesi hanno la fama che hanno. Anni fa (oggi purtroppo il negozio è chiuso) durante una scorribanda in quel posto magico dove i fiumi sono fatti di Guinness, la pioggia sa di luppolo e la terra raccoglie bicchieri rotti, mi imbattei nel negozio di cui sopra, meglio: nella saracinesca del negozio decorata con un murale. Alzando lo sguardo vidi l’insegna che prometteva decisamente bene e feci il possibile di ricordarmi dove fosse il matt… ehm il pomeriggio dopo. Tra la statua di Phil Lynott, la strato di Rory Gallagher, il vago sentore di U2 che aleggiano sulla città alla fine lo ritrovai e fui ripagato dello sforzo mnemonico post serata ululante.
Un piccolo negozio di dischi ma strapieno di roba… alcuna anche mai vista prima. Una vera delizia. Peccato che dopo giornate di gozzoviglie i fondi da investire scarseggiassero e dovetti fare una cernita dolorosissima portando a casa, tra l’altro, una edizione in vinile verde di Sons of Kyuss… niente meno!
Dalle mie parti Norvegia fa rima con Black Metal. Ed è vero, se fate un giro ad Oslo è d’obbligo che vi mettiate a cercare il posto dove sorgeva l’Helvete e vi facciate accompagnare nei sotterranei alla ricerca della famosa scritta “Black Metal”, ma resta poco più di questo. Avrebbe molto più senso aspettare Fenriz fuori dalle poste per stringergli la mano. Detto questo quel mondo si è abbastanza disgregato ma questo non significa che non ci siano altri negozi di dischi meritevoli in città. Tiger è uno di questi, forse il migliore. E non c’è da confondersi con l’omonimo negozio di cianfrusaglie danesi, questo è un signor negozio vecchio stile con scaffali e tutto in regola.
Specializzato soprattutto in musica indipendente è piccolo e accogliente, con un’atmosfera che ti fa sentire a casa e dei prezzi ragionevoli, soprattutto se considerate che siete nella terra dove tutto costa quasi il triplo rispetto all’Italia. Scovai una copia in vinile di “Steady diet of nothing” dei Fugazi, potevo abbandonarla lì?
Ecco uno dei negozi più forniti che io abbia mai visto, l’unico, tra l’altro che mi abbia permesso di vedere una copia in vinile del White Album autografato dai fantastici quattro di Liverpool (ed era pure in vendita a trattativa privata). Music Hunter rappresenta la Mecca di ogni collezionista, praticamente un paese dei balocchi per chi ami la musica. Dischi stipati ovunque, un posto dove veramente se ti metti a scartabellare puoi passarci le ore senza accorgerti che il tempo ti sfugge di mano. Ne esci quasi stordito con la testa ciondolante e qualcosa tra le mani. All’epoca della mia visita ero in fissa con i Reverend Bizarre, quindi nella loro terra mi aspettavo di trovare delle chicche mai viste in patria, visti anche i loro trascorsi in classifica. Non ci trovai nulla e il gestore mi guardò anche con un grosso punto interrogativo stampato in faccia quando glielo chiesi. Dovetti ripiegare su “Quietus” degli Evoken, Doom Over The World!
Postilla: Helsinki è veramente un posto magico per musica e dischi, spero che sia ancora così ma all’epoca c’erano veramente negozi ovunque. Music Hunter rappresenta un po’ la punta di diamante ma anche altri erano veramente interessanti (se non mi ricordo male ce ne era uno molto bello chiamato Combat Rock incentrato soprattutto sul punk). E poi sentire le auto che sfrecciano con i Black Sabbath appalla non ha prezzo.
Nella città che contiene un luogo fuori dalla legge e dall’ Europa (Cristiania), la musica di un certo livello viene veicolata da questo negozio che si trova giusto sopra un parrucchiere alternativo. All’inizio non capivo dove si trovasse di preciso, l’insegna c’è ma l’entrata non mi era chiarissima. Poi una volta dentro ci trovo Michael Poulsen dei Volbeat con consorte e cane: mi è subito chiaro che è il posto giusto. Sembra all’improvviso che siamo tornati nei fantastici anni ’60, pavimenti di legno, vinili e devozione per Elvis (il cantante ha tatuato fieramente “Elvis Aaron Presley” sull’avanbraccio con caratteri vagamente in odore di film western. Della Danimarca io mi ricordo soprattutto i DAD (“No fuel left for the pilgrims” e “Riskin’ it all” per me erano più fondamentali dei Guns ‘n’ roses o dei Motley Crue, per dire), Von Trier (e per le imprecazioni dal tetto del Regno del medico svedese!) e la Carlsberg (la birra è molto nella media ma lo stabilimento è un posto da vedere!), però anche quest’esperienza mi lasciò il segno. Ne esco con un disco (vecchio) dei Volbeat e il commesso che mi dice di correre dietro a Michael per farmelo autografare, ha una voce che ammiro sinceramente ma stavolta passo…
Stoccolma è un luogo del cuore, Gamla Stan è il cuore del luogo del cuore. In questo scenario fantastico di stradine, vicoli, medioevo e turismo si incastra Sound Pollution, altro storico negozio che ha visto nascere la scena svedese, partendo dal Death metal per arrivare allo Scan rock, il luogo di riferimento per acquistare dischi nella capitale. Due stanze, una tonnellata di dischi, libri e tutto il necessario a farsi una cultura musicale sulla musica pesante. Entro la prima volta con indosso una maglietta degli Unearthly Trance e la prima cosa che mi dicono sono dei complimenti, non puoi sbagliare: quando si parte in questo modo, sei nel posto giusto. Esco un’ora e mezza dopo con in mano una copia di “Swedish death metal” di Daniel Ekeroth che mi servirà da guida turistica nei successivi 15 giorni di magia.
Appena fuori scovo il ristorante vegetariano Hermitage, gestito da due signore hippy con i rispettivi figlioli e ho anche trovato di che sfamarmi il corpo oltre che la mente. Direi che sono a posto. Da lì in poi i pellegrinaggi sono continui e ripetuti, impossibile ricordare tutti i dischi acquistati, a parte uno dei Thergothon che cercavo da tempo immemore: divertente pensare che hanno pure inciso per una etichetta italiana.
Finisco il viaggio in allegria con un bel brano di Funeral Doom Metal… non male eh?
Durante il mio viaggio ad Oslo e, specificatamente alla Nasjonalgalleriet, sono entrato in contatto con questo quadro, che il pittore norvegese Peter Nicolai Arbo (1831-1892) dipinse nel 1872, e che rappresenta la caccia selvaggia di Odino. La leggenda dice che il padre degli dei nordici infatti discende sulla terra sul suo destriero nero ad otto zampe Sleipnir con il suo corteo, composto di valchirie, morti in battaglia, segugi e battitori (più indietro, nel quadro, è possibile anche scorgere Thor con il fido martello Mijollnir), per 12 notti successive al 21 dicembre, altrimenti noto come solstizio di inverno. Chiunque venga raggiunto dalla battuta di caccia sarà condotto nel regno dei morti. Possibile che si sia messo d’accordo coi colleghi d’oltreoceano Maya?
(Per chi se lo stesse chiedendo: sì è lo stesso quadro posto in copertina di “Bood Fire Death” disco dei Bathory del 1988)
La notte è scesa finalmente vincendo l’inerzia viscosa dei paralleli nordici. Un’ intera giornata sorridendo tra i vicoli di Gamla Stan: ad ogni incrocio uno sguardo pieno di meraviglia e soddisfazione, finalmente sono qui, finalmente respiro l’aria frizzante di questa città meravigliosa. Sono miglia lontano da casa e totalmente solo, forse per la prima volta, tutto sembra ricoprirsi di un alone magico, di una voglia di assorbire tutto quello che vedi ed ascolti per potertene portare un pezzo con te dovunque tu possa tornare o dovunque tu possa andare in seguto: voglio che un pezzo di Stoccolma mi segua esattamente come mi seguono da anni Praga e Londra e come mi seguiranno in seguito Trondheim e Berlino (ed anche un po’ di Oslo e Bergen).
Il punto è che sono qui, che ho voluto fortemente esserci, che sto facendo una cosa per me stesso e nessun altro ha voluto seguirmi, doveva andare così, dovevo andarmene così. Per permettermi questo viaggio, un anno di lavoro, di persone sgradevoli ed arroganti a strillare nelle mie orecchie, ma ne è valsa la pena se penso che ogni attimo trascorso tra quelle mura mi ha portato due settimane sotto questo cielo. Ogni tanto succede che io sia dannatamente sicuro di qualcosa. Ebbene sono stato sicuro di poche cose come questa, il fatto che io dovessi venire quassù: la Scandinavia è una sorta di polo magnetico per me, da sempre… è il primo posto sul quale poso gli occhi quando guardo una cartina o un mappamondo.
Ed ora è giunto il momento del riposo, di chiudere le palpebre, sperrando nell’elaborazione notturna perchè mi porti in giro per la città ancora, durante il sonno, proprio come successe nella capitale boema. E’ il 2007, cinque anni fa, sapevo che doveva uscire il nuovo lavoro di Justin Broadrick, dei Jesu, la sua ultima incarnazione dopo i vari Head Of David, Napalm Death, Godflesh e compagnia. Il primo disco mi aveva stregato e, camminando per la St. Eriksgatan, mi imbatto nella Repulsive Records, un negozio specializzato in musica estrema, non potevo mancare l’entrata. All’interno un simpatico e fiero alfiere del metallo con tanto di fisico imponente e barba smisurata tiene un santino di Quorthon dei Bathory (deceduto qualche tempo prima in giovane età) vicino al registratore di cassa. Tra le altre cose mi scivola tra le mani “Conqueror” l’ultima fatica del musicista di Birmingham in una bella edizione digipack di un bianco scintillante e patinato. La sera stessa, ritirato che fui nella mia stanza a Norrtull, misi mano al mio fido lettore CD e vi infilai dentro il dischetto ottico e chiusi gli occhi, un sorriso mi apparse sul volto, nel buio per tutto il tempo ma mi sentii avvampare quando Justin mi sussurrò all’orecchio: “Cerca di non perderti!”, mentre io ero lì per ritrovarmi e ci stavo anche riuscendo, nonostante poi finii per perdermi e riperdermi ancora.
Try not to lose yourself
I’m way past trying
I’m way past caring
I’m way past hoping
Try not to lose yourself
You’re always needing
You’re always hoping
Wash away your fears
“Quando siamo calmi e pieni di saggezza, ci accorgiamo che solo le cose nobili e grandi hanno un’esistenza assoluta e duratura, mentre le piccole paure e i piccoli pensieri sono solo l’ombra della realtà.” (H. D. Thoreau)