Singalong

Cantare migliora le cose. Sempre e comunque. Se ti metti a cantare mentre raccogli cotone, mentre sei da solo in un magazzino pieno di scatoloni dopo l’ennesimo litigio col tuo capo, se aspetti in una stazione fredda dopo l’ennesima cancellazione di un treno. Tu canta, se non vuoi farti sentire canta dentro di te ad un volume altissimo. Personalmente io canto sempre quando posso, quando l’autoradio non mi soddisfa o sono in moto. Non sempre si ha uno strumento sotto mano ma la voce è decisamente più disponibile.

Qualche sera, complici vino e birra, amavo cantare accompagnato da un amico. Amavo ed amo cantare, da soli chiusi in una stanza o con qualche altro amico accanto. Era un  bel modo per stare bene, e lasciarsi alle spalle un’altra settimana, tra un amarone ed una guinness. Con una luce calda e un’atmosfera umida eppure accogliente.

Abbiamo gusti totalmente diversi, ovviamente e metterci d’accordo sui brani da eseguire è sempre un bel problema. Soprattutto se si parla di cantanti italiani… siamo scesi a compromessi su Conte, De André e Battiato, ci può stare. Sul resto ci siamo messi più o meno d’accordo… queste sono cinque fra le nostre preferite, cantate anche voi!

Va che è finita Attilio eh! Attilio!!!

Mi raccomando l’enfasi su “Lady Madonna… I can try!”

La voce finisce sempre in “I lost my se-e-e-e-lf!”

Un gran cavallo di battaglia, al ripetersi della seconda strofa mi commuovo sempre…

Idem come sopra per la strofa finale. Dopo scatta regolarmente “Genova Per noi”…

 

 

Libri nati tra la schiuma

Non leggo mai l’introduzione di un libro, non ne leggo mai nemmeno la postfazione, le recensioni e raramente ascolto le altrui opinioni, a volte posso raccogliere delle influenze esterne ed a volte no. Quando raccolgo delle influenze esterne capita che lo faccia traendo spunto dalla musica. Lessi, e diventò uno dei miei libri preferiti, “E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo per via di “One ” dei Metallica (ah, che tristezza i Metallica), oppure “La peste” di Camus grazie a  “Killing An Arab” dei Cure, “La Campana di vetro” di Sylvia Plath grazie agli High On Fire e così via.

Quando seppi che “Paranoid Android” dei Radiohead (che apprezzo solo a tratti) era ispirato a “Guida galattica per autostoppisti” mi avvicinai a questo libro di Douglas Adams e, cosa strana, ne lessi anche l’introduzione. Lì viene narrata anche la genesi del libro che è qualcosa di singolare…

L’autore si trova a girovagare, a forza di passaggi ricevuti a caso, per l’Europa all’inizio degli anni ’70. L’inglese non credo fosse diffuso ai livelli odierni e, dopo aver cercato inutilmente di ottenere informazioni dai passanti viennesi, decide che fosse il caso di ingurgitare un paio di birre. Due gösser a stomaco vuoto penso che possano fare un certo effetto.

E l’effetto fu che il nostro Douglas si assopì in un prato cittadino e, svegliandosi a notte fonda, aprì gli occhi e osservò le stelle. Pensò che se ci fosse stata una “Guida galattica per autostoppisti” sarebbe partito subito. E ne tirò fuori addirittura una serie radiofonica, un ciclo completo di libri  e credo un film. Potere della birra. Potere alla birra!

Goesser Bier
Goesser Bier

Un ricordo presente ed una serie di piagnistei

Ogni anno in estate riesco a farmi nuovi nemici, essendo uno di quelli che questa stagione proprio non la soffre, non l’ha mai sofferta e non la soffrirà mai. Il che, in realtà, significa che la soffro da morire. Non sopporto il caldo, l’invasione di insetti, l’essere appiccicaticcio e l’aria condizionata in macchina, le orde di tamarri che evadono dallo zoo. Buttiamoci sopra la scarsa tolleranza per il sole, causa di ustioni, eritemi ed epistassi varie, l’allergia alle punture di api e derivate, che potrebbe causarmi anche una non richiesta dose di adrenalina in più, l’umidità e l’assenza di un filo di brezza che potrebbe dare anche un minimo di sollievo. La camera da letto che diventa un forno. Le piogge torrenziali che si arrestano brutalmente spalancando la via a pollini in quantità che mi tartassano gli occhi, solcati da mille rami rossi e gonfi.

 Dio quanto ti amo, non è possibile

Lamentarsi, sempre e comunque, non riesco a fare altro. Ed anche questo contribuisce ad aumentare il mio fascino e la mia inclinazione naturale alla vita sociale. E la lira si impenna. Ah no, nemmeno quello.

Sembra quand’ero all’oratorio con tanto sole, tanti anni fa

Purtroppo però il prete non era lì per chiacchierare ma per proibirci di vedere una delle partite di calcio più coinvolgenti di sempre con ben tre capovolgimenti di fronte ed un accesso alla semifinale mondiale. Sembravamo Fantozzi e colleghi durante l’ennesima proiezione forzata de “La Corazzata Potëmkin”: voci impazzite ed incontrollate. Adesso il calcio non lo sopporto. E questo mi fa venire in mente che, crescendo, si inizia una spietata selezione delle cose alle quali portare attenzione e, se generalmente giudico questo processo un bene, bisogna anche dire che, a lungo andare, si innesca un processo di “spegnimento automatico del cervello” che qualche volta finisce per falcidiare anche cose che generalmente meriterebbero un’attenzione maggiore. Ci mancava anche questa. Devo essermi perso qualcosa.

For a minute there, I lost myself.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=IBH97ma9YiI]

Karma Police è una canzone che so a memoria grazie a mille cantate tra amici, chitarra e voce, l’ho imparata in ritardo sul resto del mondo e mi ricordo ogni strofa, ogni pausa ed ogni variazione di tono ed anche molti dei momenti legati alla sua esecuzione. Pur non essendo un estimatore particolare dei suoi esecutori rappresenta una sfida ad essere cantata, una sfida che vinco e perdo, un ricordo presente.

Agguati

A volte le cose semplicemente ti piovono addosso.

Mi è piovuto addosso il libro di Chuck Klosterman “Il giorno in cui il rock è morto” e mi è piovuto addosso anche il modo in cui l’autore della redazione di SPIN magazine mette in relazione i fatti dell’undicisettembreduemilauno con “Kid A” dei Radiohead, descrivendo dei parallelismi assolutamente incredibili tra gli avvenimenti e le canzoni contenute in quel disco. E mi affascina… mi affascina parecchio. I Radiohead hanno stazionato tra i miei ascolti in modo quasi accidentale, per quanto mi piacciano, in qualche modo c’era sempre qualcosa che mi impediva di entrare direttamente nella loro musica e all’interno delle loro parole e, in qualche modo, Klosterman ha rimosso quell’ostacolo, almeno per “Kid A”. Quindi corro in camera a cercare freneticamente a cercare il CD, per riscoltarlo per capire se effettivamente l’autore avesse ragione.

Caso vuole che mi piova prima tra le mani “I might be wrong” che io decida di ascoltarlo mentre cerco di trovare l’altro disco ma, quando il primo disco sta per finire, l’aria si congela bruscamente su di me, mi paralizzo come se mi avesse raggiunto una coltellata di improvvisa consapevolezza e realizzo che quel muro che gravava sull’ ascolto dei Radiohead era già stato abbattuto tempo prima, da un’altra persona e per una singola canzone.

Pietrificato, tento di raccogliere le forze, richiamo a me tutte le residue e tristi volontà di piegare un ricordo lacerante, i sentimenti mai sopiti, che sono sempre stati presenti ma che fin’ora non si erano mai palesati con questa veemenza, e continuo a ripetermi, mentendo senza sosta, che “True love waits” è solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una canzone, solo una…

a band a day.

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