Gli anni novanta marcarono un territorio, forgiarono diversi generi di musica pesante, furono insomma l’ultimo periodo realmente florido per il proliferare di un certo tipo di musica. Le cose si sono via via diluite dopo l’anno 1999, fino ad essere pesantemente annaquate e quasi sterili ai giorni nostri. Non che tutto sia perduto, ma tanto, forse troppo, è stato già detto e fatto, manca il gusto per la scoperta e l’esplorazione. Manca l’estro. Attenzione non manca del tutto, ma è diventato sempre più difficile sapere dove cercare.
Molti gruppi rinascono dalle proprie ceneri, e non sempre è un male, non sempre si tratta di minestra riscaldata, spesso può trattarsi di ribollita che, a chi piace, è in grado di dare notevoli soddisfazioni: basta saperla gustare e non pretendere che sia qualcosa di diverso da quello che è.
Il fatto che i Celestial Season tornassero tra noi con un disco doom mi ha messo l’ansia. Chi non li conosce colmi immediatamente questa gravissima lacuna:
Gli Olandesi non sono mai stati un gruppo dalla solida identità definita, partirono da un doom malinconico e sognante con archi e aperture melodiche a contorno di un’atmosfera quantomai greve e plumbea, per evolvere verso direzioni stoner anche piuttosto prevedibili vista la loro patria. Scherzi a parte però furono in grado di far uscire un disco rimasto ineguagliato per aver saputo essere un meraviglioso punto di incontro tra le loro due anime. “Solar lovers” è semplicemente sublime in questo, penso che nessuno, all’epoca ed anche adesso, sia in grado di ipotizzare una sorta di “stoner con gli archi” in grado di funzionare così bene come in questo caso. Rimane un disco unico nel suo genere, una vetta rimasta solitaria ed ineguagliata, con buona pace di chi un’impresa del genere nemmeno l’ha mai concepita.
Dopo quel disco c’è stata una progressiva svolta stoner, dapprima lieve (l’E.P. “Sonic Orb”) e poi definitiva con “Orange” ed i dischi successivi, che pur non sfigurando, non si distinguevano certo per originalità. In seguito il silenzio, fino ad essere riemersi nel 2012 al glorioso Roadburn festival in madrepatria.
Oggi si ripropongono al pubblico con un nuovo disco ed io, che ho venerato per decenni il loro nome in relazione al loro capolavoro, sono rimasto spiazzato ed ho atteso parecchio prima di mettermi all’ascolto. Da questi ritorni non sai mai bene cosa aspettarti, potrebbero rovinare tutto, fare uscire un bel lavoro che sposta ancora in alto i loro standard oppure semplicemente uno dignitoso che comunque finisci per volere nella tua collezione e al quale sei comunque affezionato.
Terrore puro fu per “13” dei Black Sabbath: lì veramente si è rischiato grosso ma, alla fine fu un lavoro, al netto dell’assenza di Bill Ward, che non aggiungeva nulla al loro gloriosissimo passato, ma rappresentò comunque qualcosa in più di una mera operazione nostalgica, avendo delle buone canzoni al suo interno; io lo ricordo e lo riascolto con piacere.
Nel loro caso però un ritorno alle radici doom dava adito a qualche perplessità, un po’ per il tempo trascorso, un po’ perché non suonano quel genere da moltissimo tempo, se consideriamo che hanno finito per diventare un gruppo stoner eliminando gli archi. L’ultimo forte legame col doom forse fu proprio “Solar lovers” che però aveva già mutato forma ed è di ben 25 anni fa.
Ebbene “The secret teachings” scarta in toto (o quasi) la componente stoner. Questo è un disco di death/doom duro e puro come si faceva negli anni ’90. Se non amate la strada intrapresa dai My Dying Bride dalla dipartita di Martin Powell in poi (detto per inciso molta critica continua a osannarli ma a me non dicono più nulla e il loro ultimo dico ha dei suoni che sanno veramente di plastica rancida), se amate i Saturnus ma, ecco, con “Martyre” sono mutati anche troppo, se patite per la fine ignomignosa fatta dagli Anathema e i Paradise lost vi aggradano solo da quando sono tornati sui loro passi, questo è il disco che fa per voi.
Nessuno (o quasi) suona più in questo modo negli anni 20. Il nuovo dei Celestial season parla soprattutto a chi sentiva la mancanza di dischi che necessitino di uno sforzo per essere ascoltati ma che poi ripaghino con delle belle soddisfazioni. Lascia spiazzati il fatto che sembra uscito 30 anni fa eppure non risulta superato e nemmeno nostalgico: quando le note partono ci si ritrova immediatamente catapultati indietro nel tempo e l’atmosfera eterea e sognante del primo brano, peraltro ombreggiata a tratti con un’oscurità familiare, funziona alla perfezione per introdurre l’intero lavoro.
È un lavoro, non è un capolavoro, questo sia chiaro. Forse in alcuni brani si sente della prolissità eccessiva, in altri frangenti le orchestrazioni non sono così necessarie o ben focalizzate ma questi, a ben pensarci, erano tutti difetti propri del genere già all’epoca e che sono stati risolti brillantemente solo da loro e dai My Dying Bride di “The angel and the dark river”.
Sul fatto che sia fuori dal tempo non ci sono dubbi tuttavia che sia fuori tempo massimo io non credo. Il Doom è, per definizione, un genere in grado di dilatare la percezione temporale e mi piace pensare che questo disco sia una bolla a sé nello spazio e nel tempo. Questo è il suo limite e il suo pregio al tempo stesso. Sembra che ci siamo dimenticati troppe cose su come certa musica debba suonare e questo disco è qui per farcele ricordare tutte. A trent’anni quasi di distanza può lasciare attoniti, soprattutto perchè fa male accorgersi, tutto in un colpo, di quanti passi indietro abbiamo fatto.