Stanley Kubrick
V come Von Trier, V come vuoto

Stai andando a vedere una mostra di Kandinskij e ad un tratto ti ritrovi lì, spiattellato bellamente davanti agli occhi il cartellone di un film che, a un certo punto, non pensavi nemmeno di poter vedere. Dov’è la fregatura? Dal non trovare lo straccio di un distributore a finire in cartelloni alle fermate della metro, non me la date a bere.
E in fine la spiegazione arriva in una frase, bianco su nero all’inizio del film, che avverte che il film è stato rimaneggiato e che lo stesso Von Trier non ha avuto voce in capitolo. Che tristezza. Cose del genere rendono tristi, rendono amara la visione di un film. Almeno una volta li vietavano ai 18 anni e finiva lì. Adesso li tagliano come gli pare. Nynphomaniac, come buona parte dei film di Von Trier, non sono comunque adatti ai minori. Devi avere almeno un po’ di dimestichezza con l’angoscia che non si addice a chi dovrebbe sprizzare di vita e non sentirsi schiacciare dal vuoto opprimente che si nasconde tra le sue pieghe. Invece Nymphomanic non mi risulta sia stato vietato anche se, per una volta, avrebbe senso farlo a prescindere dal tema trattato. Non ci vedrei nulla di male. Invece ci vedo molto di male in quella maledetta scritta iniziale. Ma del resto noi siamo quelli delle mutande a Michelangelo perché illudersi che possano cambiare le cose, dopotutto?
Con quella sensazione più amara della fiele in bocca inizia il film. Fortunatamente riesco a dimenticarmela col proposito di acquistare il DVD appena esce, sperando che non abbiano tagliato anche quello. Magari tra qualche anno (almeno una ventina, direi) la versione originale verrà proposta con grande enfasi. Evviva.
Lo schermo nero attrae l’attenzione verso i suoni “ambientali” della pioggia che cade, dei rumori di fondo, solo pochi, interminabili secondi: il nero è tornato, l’assenza è qui, il vuoto avvolge ogni cosa, subito dopo l’esplosione della terra di Melancholia. E poi arrivano i muri rossi di mattoni, i movimenti claustrofobici, il cielo che fa capolino scuro come la pece, presente in pochi frammenti. La telecamera cerca, la telecamera scruta, la telecamera si sposta tra i muri. La telecamera penetra un pertugio oscuro nel muro, il presagio è fin troppo evidente. Poi, solo dopo, scova Joe. Tumefatta e ferita a terra.
Quello che segue sono solo mie riflessioni. Il vero protagonista di molti film di Von Trier è il vuoto, l’assenza di una ragione plausibile, di una spiegazione, di un qualsivoglia senso. Scordatevi l’amore, scordatevi il senso. Scordatevi una delle poche cose che potrebbero far acquisire un senso alla vita. Perchè la madre di Antichrist impazzisce e lascia morire il figlio? Come mai Melancholia brama la terra e la sposa sembra impazzire? Cosa fa di Joe una ninfomane? Sono domande senza risposta. Non solo: la matematica più astratta porta all’oblio, la musica più sublime converge verso il nulla, ogni cosa tende al caos. Il caos regna come diceva la volpe.
E non è un caos calmo. E un caos che conduce al niente, un caos che arriva ad implodere e a lasciare il nulla come una tetra coltre su ogni cosa. Ineludibile. Angosciosa come un abisso che continua a fissare il tuo abisso.
Per questo Von Trier è un regista sadico e chissà se ha mantenuto il sorriso sardonico che aveva alla fine dei suoi commenti finali in “The kingdom”. Fa male, ma fa anche riflettere. Dopo ogni suo film la mente diventa un focolaio che si agita e propaga infezioni dell’anima. Del resto seguendo pazienti sani non si impara nulla. Anzi ci sono dottori che si fanno trapiantare un fegato malato pur di poterlo studiare. I suoi fan lo sanno. E non sono necessariamente masochisti, forse vogliono solo scoprire cose che nemmeno riescono a confessare a loro stessi.
Due brani della colonna sonora sembrano suggerire uno stretto collegamento tra Von Trier, Lynch e Kubrick. Rammstein e Shostakovich. La connessione è forte. Kubrick è il pieno, il controllo, la necessità di avere ogni singolo particolare studiato a livello maniacale per costruire una visone immortale, qualcosa di megalitico, di ineluttabile, di magnificamente imponente. Von Trier è il vuoto, è l’agente dell’assenza e del caos, in lui il controllo si abbatte sul film ma solo per condurre verso il silenzio concettuale più cupo. E Lynch è la dimensione onirica, anche in lui si avverte pesante l’assenza di senso, ma è la stessa assenza di senso che avrebbe un sogno, che potrebbe (ma non è detto che lo faccia) svanire in un senso di inquietudine al mattino, ovvero alla fine del film. Lasciandoti lì a vita a fare congetture, per altro inutili.
Shostakovich è lì che ti fissa beffardo da dietro al suo Waltz no.2, che sia la colonna sonora di un ballo vorticoso o quella del ballo solitario di una giovane donna impegnata a farsi beffe dell’amore e della sacralità di cui è falsamente (il più delle volte) investita la sua componente fisica. E i Rammstein che, accidenti a loro, ho sempre considerato dei beceri tamarri teutonici invece, visti i personaggi che li hanno chiamati in causa, avranno pure qualcosa da dire, oltre ad essermisi piazzati in testa per i due giorni successivi. Argh.
Quasi una citazione da spaghetti western*
A nord le occhiaie sono un po’ meno fonde, ma gli occhi bruciano da morire, ad ovest nulla da segnalare, ad est due abrasioni profonde sulla mano e a sud tre vesciche in via di guarigione.

I Black Sabbath stanno per fare uscire il primo disco dopo anni con Ozzy Osbourne ma senza l’amicone Bill Ward (sigh) e la notizia, anche se è di ieri, è che hanno annunciato l’annullamento della data italiana dovuto a non meglio precisati motivi logistici che facilmente saranno da ascrivere alla ben nota organizzazione di cui l’Italia tutta si fa onore e vanto. Aiuto. Comunque non avevo nemmeno preso il biglietto: un po’ perché, fortuna mia, li vidi già nel 1998, un po’ perché giudico abbastanza immorale spendere 60 e passa euro per un concerto, sia pure di leggende viventi, e soprattutto perché, nonostante abbia acquistato ben due copie del disco in questione (“13”, in vinile ed in CD de luxe), sono pienamente consapevole del fatto che in cabina di regia ci sia la contabile che il povero John Osbourne si ritrova come moglie.
Già una cosa come “The Osbournes” dovrebbe bastare a farla condannare all’unanimità, ma ovviamente la giustizia non è di questo mondo.
Nonostante questo, quello che ho sentito mi piace: Iommi, seppur fisicamente provato, ha ancora un database di riff nel cervello ineguagliabile, Geezer sostiene la sua inventiva alla grande, Wilk fa il suo mestiere e Rubin ha il merito di rendere il biascichio di Ozzy ascoltabile. Tuttavia il grosso demerito del suddetto produttore è di dare un suono decisamente trooooooppo pulito al tutto, soprattutto la chitarra di Iommi che avrei voluto bella spessa, terrosa e, soprattutto, fieramente analogica e valvolare invece sembra uscita dal peggiore dei pro tools digitali. Amen.

Domenica, dopo averne sentito parlare e riparlare, ho visto “L’albero della vita” di Terence Malick, nuovo idolo della critica cinematografica. Bah… noioso, consolatorio, autocelebrativo ed autoindulgente, un po’ una palla per essere concreti.Tutte queste immagini pulitine ed educate, tutto questo sfoggio musicale, tutti questi scontri fra macro e micro cosmo e tutto questo tedio domenicale, per citare i CCCP. Ho sentito parlare di paragoni ingombranti con “2001 odissea nello spazio” ma il povero Terence non si avvicina nemmeno ad un fotogramma di cotanto film. Innanzitutto la perfetta simbiosi tra musica ed immagini ottenuta dall’ immortale Kubrick, in Malick risulta scialba e poco organica, le immagini risultano tutte molto rifinite e raffinate nella qualità ma per questo risultano fin troppo algide e asettiche, il regista non sembra volersi sporcare le mani con le tematiche che affronta mentre Kubrick ne ha il controllo assoluto, senti quasi il suo respiro dietro alle immagini. E soprattutto, pur dirigendo un film pesante per scenografia e temi affrontati, Kubrick riesce a non annoiarmi nemmeno un secondo e lo stesso non si può proprio dire per il regista de “L’albero della vita”. Inoltre, visto che è una cosa che non sopporto devo proprio dirla, tutta quella falsa consolazione che il film cerca spasmodicamente per tutta la sua durata mi fa vomitare.
Che bello sparare sentenze*.

Mattina
Una ennesima mattinata limpida, con gli scuri e la porta imprecisi nel loro adattarsi alle cavità di porte e finestre. Lasciano passare lamine sottilissime di luce grazie alle quale posso indovinare che ora è. Spesso ci prendo, soprattutto con le ore, meno con i minuti, ma è un’abilità che voglio migliorare con l’allenamento. La mattina è problematica, impone delle scelte, distrugge i pensieri della sera prima e li disperde come polvere dai davanzali. La mattina sa di torpore e di occhi che si aprono piano, ma anche di corde vocali inspessite e gola secca, a volte. La mattina non sopporta più lo spot, alla radio, della nutella con Pavarotti, c’è da chiedersi poi a che serva fare uno spot alla nutella, essendo la famosa crema al cioccolato e nocciola il classico prodotto che si vende da solo.
La mattina rifiuta di concentrarsi e di pensare, la mattina porta con se’ pensieri per le persone lontane e poi occhi e fusa feline che presidiano la porta del frigorifero dandoti il buon giorno a modo loro. Di mattina si osserva la brina sulle ragnatele, si stirano i muscoli e si scostano le coperte. L’aria viziata dal respiro che sovrasta il letto viene spazzata via da una finestra aperta sul panorama contratto dal freddo, acqua gelata sul viso ed acqua bollente nella caffettiera. Mostrare i denti al mondo in un sorriso sforzato.
Wendy nel frattempo non ha più dubbi sull’insania di Jack, quando scopre che i dattiloscritti del romanzo non sono altro che pagine e pagine di una frase ripetuta all’infinito: “Il mattino ha l’oro in bocca”.
Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.Il mattino ha l’oro in bocca.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=seDAcGXSP5I]Il prologo di Melancholia
L’impossibilità del desiderio è qualcosa che occorre accettare, il premio è la serenità. Eppure Tristano arde per Isotta la Terra arde per Melancholia. La razionalità non può vincere sul sentimento. E tali unioni sono impossibili a meno che si ammetta che la loro unica conseguenza è l’annichilimento, la distruzione, il nulla. Poiché il loro amore non è di questa Terra, non appartiene a questo mondo e non può realizzarsi qui, ma solo in un altrove assoluto (a cui allude anche la buca n°19) e distinto dalla realtà materiale e terrestre. Allegoria di questo altrove è la notte, regno di visioni ed illusioni e nemica del giorno dove tutto è esplicito, assoluto, palese per azione della forza rivelatrice della luce del Sole che però, insieme all’incertezza, fa svanire anche ogni altra possibilità.
Ed in tutti quei movimenti lenti, in tutta quella resistenza al moto, in quell’affondare nel terreno fino alle ginocchia della madre che cerca di salvare il figlio, nella sposa trattenuta da mille trame oscure, c’è il marciare dell’ Agrimensore K. verso il Castello di Franz Kafka. Nel suo avanzare, c’è la perdita di senso, il disintegrarsi della ragione, il meticoloso scomporsi dell’essere umano, che, paradossalmente, può ritrovare se stesso solo in una realtà avulsa dall’esistenza terrena e legata a doppio filo con le distanze siderali tra le stelle, con il vuoto gelido del cosmo. Il Castello che si staglia inquietante su tutti i personaggi di Melancholia è la fine definitiva dell’umanità a causa della collisione della Terra con Melancholia, ma a questo evento tragico non viene data una valenza necessariamente negativa, poiché attraverso la collisione si realizza un amore supremo che nessun umano, che ragioni con una mente condizionata dal suo appartenere alla razza umana, potrà mai capire, un Amore del quale, tuttavia, l’intero universo è pregno, ne sono testimoni le stelle e ne sono pervase le galassie. Ad un simile sentimento tutto, l’arte compresa (la dissoluzione del capolavoro di Brueghel), può essere sacrificato.
Una tale maestosità filmica, una tale riuscita unione tra immagini e suoni, ha il suo padre riconosciuto in Stanley Kubrick (“2001 Odissea Nello Spazio”) e ne accetta ed espande il lascito. Questo post è rispettosamente dedicato a tutti i sentimenti che non hanno potuto concretizzarsi sotto il limitato orizzonte terrestre, perché possano trovare la loro dimensione.