2021

10. Melvins: working with god. Questo disco è un classico disco dei Melvins vecchia maniera. Per chi li conosce nulla di nuovo: ci sono i loro classici scherzi da prete (la proto-versione del classico dei Beach Boys e quella in cui mandano tutti affanculo), bei riffoni portanti a supporto delle composizioni. In questo disco è tutto apposto, i Melvins che, finalmente, tornano a fare i Melvins. Non finirà in nessuna lista di fine anno ma finisce nella mia perché, da loro ammiratore, avevo bisogno di un disco come questo. Salvo che poi si siano subito smentiti: certo che se c’è una cosa da dire sul gruppo del Washingston state è che non sono fatti per accontentare tutti.

9. Nick Cave, Warren Ellis: Carnage. Spero di non prendermi del nostalgico a tutti i costi ma pur trovando spunti interessanti nel nuovo corso di Nick Cave con il timoniere Warren Ellis, io continuo a preferire la vecchia produzione con i vecchi Bad Seeds. Per me non c’è partita. Eppure questo nuovo capitolo convince, è bello nel suo essere scarno come al solito. Però forse con l’età è venuto a mancare l’impeto emozionale dei vecchi tempi. Senza contare che restare senza due geni musicali come Herr Bargeld e Mr. Harvey, per un pur meritevole Ellis, sicuramente è un’operazione al ribasso. A me questi dischi piacciono ma mi risultano freddi, in molti li apprezzano, io faccio molta fatica pur riconoscendone il valore.

8. Carcass: Torn arteries. Sempre un piacere parlare di Jeff Walker e soci. Questa volta non fa eccezione, sono in forma e all’altezza del nome che portano. Se poi volete fare dei paragoni ingombranti col loro passato, continuare a lagnarvi che Ken Owen non è più della partita e via discorrendo, siete liberi di farlo. Io ho scelto di alzare il volume e godere della loro ultima fatica, non è un’impresa impossibile nemmeno nel 2022.

7. Mondaze: Late Bloom. Mentre molti indugiano in cosucce tipo la synth wave et similia, per il secondo anno di fila ospito nel listone di fine anno un gruppo che fa un genere con dentro la parolina gaze. Stavolta, dopo i Nothing l’anno scorso, tocca a i Mondaze da Faenza con furore. La cosa bella di questo genere è che potenzialmente a tutti gazer piace alzare il volume a dismisura facendo rimbombare tutto. Sembrerà una bestemmia ma la cosa funzione bene con i Carcass e anche con i Mondaze, ovviamente sono diverse le sensazioni ma questo disco ha comunque molto da offrire anche ad un appassionato di cose molto più brutali e trucide. Un bellissimo esordio.

6. Coverge: Bloomoon I. Di questo disco ho già parlato, mi sembra un lavoro meritevole ma un po’ discontinuo e che, alla lunga, non mi ha fatto venire troppo spesso voglia di essere riascoltato. Ancora un giudizio un po’ sospeso: magari poi a distanza di tempo potrebbe venire assimilato meglio almeno dal sottoscritto, le perplessità tuttavia non smorzano l’interesse per un possibile vol. 2.

5. Amenra: De Doorn. Poco da aggiungere anche qui, il solo limite degli Amenra è che fanno musica che è di difficile ascolto. Bisogna essere nella giusta predisposizione spirituale e allora se ne fruisce nel modo migliore e se ne traggono belle soddisfazioni. Il cantato in lingua fiamminga, a mio modo di vedere, aumenta di molto il fascino della loro proposta, anche se non ne capisco praticamente una parola.

4. Godspeed you! Black Emperor: G_d’s Pee AT STATE’S END! Bellissimo lavoro della band canadese, che questa volta, più che in passato, riesce ad essere quasi più fruibile, con passaggi di una bellezza assoluta che rimangono molto più in testa anche a distanza di tempo. Non vedo l’ora di sentire questi brani dal vivo, con il supporto della parte visiva: in tale caso sarebbero già da adesso da mettere al primo posto.

3. Jointhugger: Surrounded By Vultures. Buonissima seconda prova della band norvegese, che incorpora maggiore psichedelia nel proprio suono rinunciando a qualcosa in pesantezza: il risultato è comunque da applausi, un gruppo come ormai se ne sentono pochi. A partire da qui, le loro possibilità evolutive per il futuro hanno mille direzioni, tutte da esplorare.

2. Monolord: Your Time To Shine. Gli svedesi sono ormai un’istituzione e si confermano ancora alla grande con questo disco, molto più oscuro e dolente del precedente. Inizialmente mi aveva quasi respinto, poi mi ha definitivamente conquistato: è un vero e proprio gioiello.

1. Green Lung: Black Harvest. Vincono a mani basse. Hanno i riff, hanno il groove, soprattutto l’immediatezza ed il coinvolgimento che creano con le loro canzoni non hanno praticamente eguali nel panorama odierno. Per riassumere: hanno un gusto per la canzone invidiabile. Ogni brano è un inno da cantare a squarciagola, una marcia trionfale, un coro da stadio dell’occult rock. Forse poco impegnativi e un po’ facili ma in questi tempi difficili avevo proprio bisogno di un disco del genere.

Un passo avanti e… due indietro

Credo che ormai le uscite dei Melvins (e dei loro musicisti in versione solista) che si susseguono con un ritmo serratissimo da qualche anno abbiano lo stesso effetto disorientante di un dribbling di Garrincha, dalla dipartita della sezione ritmica dei Big Business si fa veramente fatica a stargli dietro. È come se fossero stati colpiti da una squassante logorroicità che gli fa immettere sul mercato qualsiasi, ma proprio qualsiasi, cosa gli possa venire in mente.  Così siamo al secondo disco in un anno, aveva aperto le danze il divertente, e rincuorante, “Working with God” nei primi mesi del 2021, adesso arriva “Five legged dog”, uscito da pochissimo sempre per l’etichetta Ipecac di Mike Patton.

Non che prima mancassero episodi al limite dell’ascoltabile, astrusi o mossi da logiche strane (vedi l’incompreso ed incomprendibile “Colossus of destiny”, una parte del ribelle “Prick”, o l’oscurissimo “Honky”) ma, come dire, facevano parte del pacchetto e te li aspettavi da loro scherzetti del genere e alcuni, tra cui il sottoscritto, li trovavano anche interessanti. Adesso lo scenario è molto diverso.

Il primo da destra è il colpevole! (fonte bandcamp)

Questo ultimo lavoro onestamente è inutile. È il primo lavoro di cui parlo senza essere arrivato in fondo e non mi vergogno a dirlo. Pensavo che fosse difficile fare peggio del pessimo “A walk with love and death”, ma qui sono riusciti ad andare oltre. Almeno in quel disco c’erano degli episodi che ti ricordavano che la classe non è acqua che, insomma, sempre dei Melvins stiamo parlando. Questo cane a cinque zampe (e non voglio sapere qual’ è la quinta…) tratta essenzialmente di un gruppo che ripropone se stesso, in chiave acustica e moscia. Qualcuno mi spieghi che senso può avere togliere gli amplificatori ai Melvins. Poteva trovare applicazione nel primo disco solista di King Buzzo (riuscito) ma già dal secondo la cosa aveva iniziato a perdere fascino. Se trattiamo della band madre, mi spiace, la cosa non quadra. Sembrano la versione musicale di Alex dopo la cura Ludovico, una fiera con senza denti e con gli artigli mutilati. Roger Osborne è, a mia sindacabile opinione, uno dei più grandi inventori di riff della storia, forse secondo solo all’eccelso Tony Iommi: perché abbia fatto un torto come questo alla sua opera è un mistero.

L’irruenza di “Honey Bucket” ridotta a uno straccio di canzone senza il minimo mordente è uno spettacolo al quale non voglio assistere. Quindi ogni volta ascolto cinque o sei brani e poi alzo mestamente bandiera bianca, sarò limitato o prevenuto io. Poi la noia, noia, noia, noia maledetta noia! Insopportabile, insopprimibile: tutto potevo aspettarmi nella vita ma vedere i Melvins ridotti ad una sterile controfigura di loro stessi, onestamente fa male alla musica. Oltretutto nessuno mi toglie dalla testa che il principale artefice di tutto questo sia il bassista Mc Donald incautamente prelevato dai Redd Kross e presente su tutti i loro peggiori dischi recenti, e che, per mia sfortuna, è ritornato dopo che Dale Crover aveva imbracciato il basso lasciando a Mike Dillard la batteria nel disco precedente. Ma licenziarlo e riprendere Jared Warren dopo che Coady Willis si è unito agli High On Fire? No eh? Continuiamo così… facciamoci del male. Molto male.

Count down to 2017

 

Odio capodanno. Amo l’inverno. E’ il periodo per tirare le somme. Ma è una mera convenzione presa in prestito da anni di calendario gregoriano. Potrei tirare le somme anche a marzo o a novembre, ma oramai ho cominciato a farlo a dicembre e mantengo le tradizioni. Odio le tradizioni, le occasioni, le feste comandate. Non mi servono per ricordarmi le cose. Non le festeggio. Sdegno le convenzioni eppure ne accetto una minima parte per inerzia e per pigrizia. E perché alla fine di ogni anno devo tirarne le somme musicalmente parlando, almeno per ricordarmi di dov’ero e cosa facevo. Capirete cosa state per affrontare. 10 dischi per il 2016. E via.

10. Deftones “Gore”

Tutti hanno fatto a gara a parlare male di questo disco. Spero si divertano. A me è piaciuto. E’ da due tornate discografiche che i Deftones mi emozionano, certo, non come negli anni ’90 ma, a mio parere, hanno riguadagnato smalto e ispirazione. Felice di essere l’unico a pensarla in questo modo. In particolare “Phantom bride”, bellissimo testo e chitarra di Jerry Cantrell.

09. Melvins: “Basses unloaded”

Non potevano mancare. Un gruppo degno di venerazione, anche se ultimamente Dale e Buzz finiscano per timbrare dignitosamente il cartellino ogni anno, in compagnia di questo o quell’amico a me non importa. Penso che i due abbiano abbiano ampiamente dimostrato tutto quello che dovevano e adesso finiscano per mantenersi senza dover cercarsi un lavoro comune. Rimane il fatto che Mr. King, per quanto mi concerne, è secondo solo a Mr. Iommi per la capacità di mettere in fila delle semplici note. Up the Melvins no matther who plays bass!

08. Iggy Pop “Post Pop Depression”

Bowie è morto. E non troverete il suo disco in questa lista, così come non troverete quello di Leonard Cohen. Non li ho ascoltati, non volevo gettarmi nel calderone delle condoglianze, della tristezza, dei riconoscimenti dovuti per due artisti che non ho approfondito come avrei dovuto. Al cordoglio ci ha pensato Iggy e lascio a lui la parola per piangere Bowie. Pensatela come volete, questo disco, per me, è un enorme tributo al Duca Bianco, ripesca l’atmosfera di “The Idiot”, il primo disco della nuova carriera dell’iguana solista, in tutto e per tutto patrocinata dall’amico. E mi faccio beffe di tutti quelli che sono stati delusi aspettandosi che Josh Homme prendesse il posto di Ron Asheton per dare vita ad una nuova incarnazione degli Stooges. Le sue parti di chitarra avrebbe potuto suonarle chiunque, però fortunatamente il disco funziona.

07.In the woods… “Pure”

Un ritorno che non ti aspetti per una band norvegese che ha prodotto uno dei dischi più toccanti degli anni ’90 (“Omnio”) e come al solito non sai cosa aspettarti. Avrebbero potuto rovinare ogni bel ricordo… e fortunatamente non lo fanno, la paura era tanta. Certo a volte il disco suona stanco e fatica a prendere il volo, ma nella seconda parte sembra veramente ritornato agli antichi fasti, lontane le radici black metal, la fiamma del prog è ancora splendente e tutt’altro che autoindulgente. Bentornati.

06. Liquido di Morte “II”

Un disco strumentale? Certo. E’ una rarità che non può mancare, soprattutto se si tratta di uno dei migliori gruppi italiani al momento. Coinvolgenti. Ipnotici. Ispirati. Occorre essere dello stato d’animo adatto ma poi ti trascinano via. Lontano.

05. Kvelertak: Nattesferd

I gufi non sono quel che sembrano. I Kvelertak escono dal pantano (per quanto intrigante) del loro secondo lavoro e ritornano con un disco fresco dal deciso piglio rock’n’roll con pochi fronzoli e molta decisione. In pochi ci avrebbero scommesso eppure il disco vince in freschezza compositiva e trascinante foga. Mischiare black metal e rock può sembrare azzardato e loro ci sono riusciti, riprendere le redini di una proposta che aveva mostrato un po’ la corda solo alla seconda uscita forse era ancora più difficile. Ora non c’è due senza tre. Norway, here we come!

04. Darkthrone: Arctic Thunder

Io e l’altro unimog consideriamo i Darkthrone come i nostri padri spirituali, specialmente dopo l’abbandono della fase blackmetal. A loro non importa nulla e nemmeno a noi. Impegnati nella loro sempiterna crociata per il metal, quello esente da ogni suono plastificato, che ha il suo habitat naturale in qualche bunker svizzero impenetrabile nella prima metà degli anni ottanta, come fai a non stimarli? Quando poi abbiamo visto un fuoco rupestre in copertina, la vicinanza si è accorciata ancora. Rustici e veri, nel senso più genuino del termine, incidono un altro disco alla faccia di chi gli vuol male. E tanto basta.

03. Nick Cave and the Bad Seeds: “Skeleton tree”

Credo di aver scritto già a sufficienza di questo disco quando uscì. E visto che fa della sottrazione la sua forza non mi sento di aggiungere nulla se non che, a ben vedere, dovrebbe essere fuori “classifica” in quanto troppo intimo e sofferto per poter figurare in una cosa così frivola e vacua. Ci finisce solo perché non posso non ricordare un dico come questo. Curioso come la separazione tra lui e Blixa alla fine ce li restituisca entrambi in splendida forma (così ricordo anche “Nerissimo” e il bellissimo concerto a Milano con Teho Teardo).

02. Klimt 1918: “Sentimentale jugend”

Otto lunghissimi anni di silenzio. A me i Klimt 1918 sono mancati e parecchio. Il mio incontro con loro avvenne in una situazione che mi rende impossibile non considerarli vicini al cuore. Durante un viaggio a Vienna, in pieno trip Klimtiano da tre musei al giorno senza tregua, entro in un negozio di dischi (c’erano dubbi?) e scartabellando tra i CD mi viene tra le mani il loro, bellissimo, “Dopoguerra”. L’ho preso come un segno del destino e da allora occupano un posto speciale tra i miei ascolti.

Un doppio CD potrebbe essere una mossa decisamente pretenziosa e forse azzardata. Ebbene non lo è. Il lavoro è inteso, pregno di lirismo e ispirazione, magari non semplice da ascoltare di seguito eppure assolutamente affascinante nel concept (Germania anni ’80 e Roma), soavemente etereo e atmosferico. Non fateci mai più attendere tanto!

01. Neurosis: “Fires within fires”

Mi spiace, nessuna sorpresa. Dopo 10 minuti della loro esibizione bresciana dello scorso 11 agosto avevano agilmente spazzato via qualsiasi cosa avessi visto dal vivo nell’ultimo periodo. Semplicemente questo. Possiedono un’intensità ineguagliabile. Un suono personale e mutevole, senza che per questo si snaturi. Evolvono disco dopo disco, concerto dopo concerto. La loro ultima incarnazione è scarna, essenziale diretta.

Dritta al cuore, dritta all’anima all’origine stessa della musica. Il viaggio continua.

Quattro corde di discordia

I bassisti sono sempre stati un elemento mobile dei per i Melvins. Noi strimpelliamo il basso ed amiamo i Melvins e siamo anche in due come loro. Ormai ne hanno combinate di ogni: dalla doppia batteria alla chitarra di alluminio, tre (o più?) trilogie, un numero infinito di covers, gli artworks peggiori della storia (sicuramente (?) Mackie Osborne avrà delle altre doti nascoste ma come grafica lasciamo stare), almeno un disco inascoltabile (“Colossus of destiny”), un altro strano perfino per loro (“Honky” che però mi piace…), un altro ancora di palese protesta (“Prick”) e collaborazioni memorabili (Lustmord, Jello Biafra e Zu tra gli altri), chi li ferma più? In sostanza fanno ciò che vogliono e non si curano molto di quello che chiunque ne possa pensare. E fanno bene perchè hanno delle idee grandiose.

La defenstrazione di bassista più spettacolare a mio parere è stata quella di Joe Preston, che voleva più visibilità all’interno della band: per tutta risposta loro fecero scrivere “JOE” a caratteri cubitali sul retro di “Lysol” e poi lo cacciarono a pedate. Mi piace ricordare anche Lorax, la figlia di Shirley Temple che militò abbastanza a lungo nelle loro fila. Stavolta, per togliersi lo sfizio he hanno usati almeno sei. E’ la loro ultima trovata: dopo il tour che li ha portati in 50 stati in 51 giorni, dopo averi richimato il loro batterista del 1983 ed abver messo Dale al basso, dopo essersi fusi con Big Business e Butthole Surfers, adesso chimano sei bassisti e danno vita alla loro nuova fatica “Basses Loaded”, direi che non fa una piega.

Premesso che ormai ho deciso di mantenerli a vita comprando ogni loro uscita e recuperando (se riesco) quelle che mi sono perso: non chiedetemi dunque se vale la pena spendere i soldi. Prendetelo e basta, vorrete mica farli morire di fame o costringerli a cercarsi un lavoro alla loro età, siamo seri per cortesia,  poi loro comunque non se lo meritano.

Questo mi sembra già un motvo sufficiente per lo sforzo finanziario. Ciò premesso, per me la musica contenuta all’interno merita… diciamo che le ultime uscite si rincorrono frenetiche e alla fine sembra di avere a che fare con un simpatico appuntamento quasi annuale. Loro non si smentiscono: Buzz tira fuori alcuni riff memorabili e Dale mena come un fabbro, poi non mancano elementi goliardici (che però non spiazzano più) e nemmeno gli elementi caratteristici del loro sound. Io voglio loro un bene dell’anima… però mi piacerebbe che tornassero, dopo quest’ennesima trovata (godibile per altro), a fare un disco che sia inequivocabilmente loro come poteva esserlo il massiccio “(A) senile animal”. Sarebbe fin troppo porevedibile…

Passate dunque all’ascolto e godetene tutti:

 

Il mestiere più antico del mondo

Felice di aver attirato la Vs. cortese attenzione. Se ora vossignoria vuole seguirmi, disquisirò di un’ altra abitudine vecchia quanto il mondo. Criticare e, per estensione, recensire. Mi si richiede di recensire ancora qualcosa… oh, non è un problema, a me piace, anche senza soldi di mezzo. Mi piace perché ascolto musica da tanto tempo e sparare pareri, confrontarsi e disquisire della musica mi provoca un grandissimo piacere intellettuale, tuttavia credevo che fosse un puro divertissement autoalimentato.

In molti lo ritengono uno spreco di forse, personalmente sono del parere che, se non ci sono interlocutori, chi fa da se fa per tre. Quando poi capita di trovare un’interlocutore lo si apprezza molto di più. Adesso però smetto di alludere e comincio a concludere, almeno spero.

I Pallbearer suonano doom metal con lieve sentore di prog e molto alla vecchia maniera con tanto di voce ultramelodica. Strano a dirsi, io apprezzo. Il problema è che ci vuole tempo per fruire di musica del genere: il suo bello è che viene fuori alla distanza, come se entrasse lentamente nell’organismo, come un cerotto che rilascia nicotina invece che una sigaretta. Si evita di puzzare come un posacenere rancido, come diceva Kim Basinger di Mickey Rourke dopo essere stata costretta a baciarlo per esigenze sceniche. Qui nessuno vi costringe ma non c’è nessun vero motivo per non ascoltare questo disco e godere del suo sulfureo lirismo, del suo muoversi viscoso, del suo dischiudersi progressivo. A meno che non vi manchi il tempo e decidiate di passare la serata fumando una stecca di sigarette senza una boccata di aria pura. Bonne chance.

Gli Entombed A.D. Prestano il fianco a mille critiche, come se fossero una vecchia soap opera. Ed alla fine il paragone, per quanto squallido sia, regge. Il bassista fantasma, Nicke Andersson, Uffe Cederlund e alla fine Alex Hellid. Chi o cosa diavolo sono gli Entombed oggi? quelli che suonano all’opera o quelli che, alla fine, tentano di sopravvivere facendo uscire un altro disco? Del resto Lars Goran Petrov cosa può fare? Andare a lavorare alla Saab o all’ Ikea? Non scherziamo. Quel tipo non ha scelta e lo sapete tutti. Così come a voi non resta che dargli di che vivere.  Detto questo lui vi canzona palesemente mettendo come canzone di apertura in brano che fa a meno del loro leggendario suono di chitarra. Lars, guarda che non ti conviene tirare la corda sai? Che poi mica ho capito: probabilmente non l’hai nemmeno scritta tu. Comunque noi ti si vuole bene e, a tratti, ti fai anche perdonare, te lo concedo. E per ora ti mantengo ancora. Peccato che l’ultimo posto dove ti ho visto (Rossiglione, GE) adesso sia sommerso. Mi spiace, tenete duro, spero che vi arrivino un po’ delle mie tasse, così come spero che a Lars arrivino un po’ delle mie royalties.

Gli Orange Goblin hanno deciso di provare a fare della musica la loro principale fonte di introito. Altra gente da mantenere in nome del rock’n’roll. Loro sono simpatici e meritano qualche sudatissimo spicciolo, se ce lo avete. Hanno dalla loro un’incredibile genuinità di fondo, dei concerti incendiari e sudati e molte, molte lattine di birra svuotate. Manteneteli suvvia, non possono rivendere vuoti a lungo. Il loro disco è forse un po’ troppo derivativo ( “Devil’s whip” in realtà si intitola “Iron fist”) ma loro vanno comunque annoverati nella schiera degli autentici. E tengono famigghia.

Gli Electric Wizard, invece, potrebbero davvero mettere su famiglia. Jus e Liz, considerate l’idea di avere per casa una piccola Mercoledì o un piccolo Pugsley, suvvia! Fin quando scriverete canzoni come “I am nothing” o “Sadio witch” credo che non morirete di fame, anche se fate (com’è vero) un disco ogni quattro maledetti anni e una sporchissima manciata di concerti quando vi pare. Voglia di lavorare saltami addosso eh? Ve lo concedo, certi vapori rendono pigri, tuttavia l’orologio biologico avanza, tenetelo a mente. Capisco che sia bello fissare le valvole incandescenti con un sorriso a mezz’asta ed aria assente, capisco anche la passione per la botanica però, adesso che avete anche un figliol prodigo alla batteria, rompete gli indugi e datevi da fare!

Devo davvero parlare della mia famiglia preferita (i Melvins), davvero non sapete già tutto? In caso di risposta negativa vergognatevi. Papà King e mamma Dale hanno superato in scioltezza le nozze d’argento sapete? E papà si è anche concesso il lusso di un simpatico soliloquio acustico, tanto per restare in tema. Eppure il matrimonio non vacilla e non si prende sul serio, come non prende sul serio voi. E’ la cosa migliore: farsi una bella risata. Alla faccia mia e vostra, i loro sberleffi colgono sempre nel segno. Sagaci ed irriverenti, menefreghisti e ironici, strafottenti e fetenti. Che coppia. Quanto bene si vogliono (e gli voglio). Possono permettersi di richiamare vecchie fiamme e incendiarne di nuove, di suonare in 51 stati in 51 giorni, di mettere alieni sotto spirito e di usare chitarre di alluminio. Serve altro?

Sole alle spalle

Un riflesso accecante sullo schermo del PC, C’è il sole tra le nuvole ma io sono recluso in casa con una voce che potrebbe sembrare quasi quella di Mark Lanegan, senza averne la grazia e con un retrogusto di i***san in gola. Son messo bene, non c’è che dire amici. Serve una colonna sonora e arriva l’amico Cash, libero dalle catene. Mi serve del supporto musicale, mi serve di ritrovare la salute quanto prima che  passare le vacanze malato mi sa tanto di nuvoletta Fantozzi e non mi sembra il caso. I‘m gonna break my rusty cage and run… appena il simpatico mal di gola/ raffreddore/ tracheite/ peste bubbonica mi molla un attimo.

E intanto l’anno finisce e mi sembra un eterno ritorno. A tragico listone di fine anno. Quest’anno c’è un escluso di lusso: i Black Sabbath. Loro non li posso mettere, sono al di sopra di ogni critica, listone, solito giochino dei cultori musicali. Loro non mi piacciono, gli voglio proprio bene, un po’ come ai Melvins, ai Vista chino, ai Tool, ai Neurosis ed ai Converge, anche se a loro dippiù. ubi maior minor cessat e cessat sul serio. In un anno nel quale tutti sono tornati come dei nodi al pettine che si sciolgono. Loro hanno sciolto il più grosso: potevano rovinare tutto e, se escludiamo l’ esclusione di Bill Ward (che è spiaciuta a tutti, dai…), non l’hanno fatto. Grazie, davvero, non ci ho mai creduto sul serio che avreste buttato tutto nel cesso.

Detto questo, devo dire che l’ovazione massima vai ai Clutch quest’anno e alla barba di Neil Fallon. Mannaggia, era dannatamente semplice ma nessuno faceva più un bel disco di rock’n’roll da secoli.Veramente un disco con gli attributi. Muscolare, compatto, senza fronzoli. Quello che vedi è quello che avrai, che poi è quello che hai sempre amato “What’s this about limits? Sorry I don’t know one!”

E poi, l’eterno ritorno: un disco che non ho ascoltato quanto avrei voluto, ma che rimane molto ispirato è quello di Nick Cave, prometto di rimediare quanto prima. You know who we are. Con Vista Chino e Carcass c’è stata una bellissima rimpatriata con gente che non si vedeva in giro da secoli ma che ti è sempre, ma sempre, rimasta nel cuore: si è fatto festa assieme, e si continuerà a farne, ne sono quasi sicuro. E poi ci sono i Sub Rosa, una piacevolissima scoperta, e i Melvins che, tra una presa in giro ed un’altra hanno piazzato nel loro ultimo lavoro una delle mie canzoni preferite di sempre. Difficile da spiegare, coincidenze. Tempo fa ho scovato una fotografia di Buzz che assomigliava, crederci o no, a Robert Smith dei Cure, poi sento questa canzone, il cui incipit mi fa pensare subito a “Just like heaven”, e penso “ne stanno combinando un’altra. In effetti han combinato questa:

ed io l’adoro…

Ah la novità per il 2014 è che mi sto mettendo ad ascoltare seriamente dopo millenni i Led Zeppelin, il che è tutto dire. Salvo ripensamenti inquetanti, per quest’anno è tutto, con buona pace del dannato riflesso…

We are ready, we are ready ready ready!

Buzz e Hiwatt vi voglio bene!
Buzz e Hiwatt vi voglio bene!

Come ti giri e ricominci ad ascoltare un po’ di musica, dopo un po’ di tempo nel quale non te lo eri concesso visto che avevi la testa impegnata altrove, ed esce un nuovo disco dei Melvins. Con qualche trovata di mezzo: stavolta sono ritornati alla formazione del 1983. Per conto mio possono fare quello che vogliono che ormai io gli vorrò bene comunque, come fai a non volergliene? Sono degli adorabili sbruffoni, degli strafottenti menefreghisti e gli fa solo del bene.

Conosco ben pochi gruppi che si possano permettere di fare sempre e comunque quello che vogliono senza perdere credibilità e fans. Dale e Buzzo, se fossero sposati probabilmente l’idillio si romperebbe. Invece suonano assieme. E, sostanzialmente, si divertono a prenderci in giro… Come ve la spiegate altrimenti una traccia come questa:

ed il fatto che Dale riprenda in mano il basso e che richiamino il loro batterista a 30 anni di distanza (non sa cosa si è perso)? Che il disco sia infarcito di suoni assurdi tipo allarme? Che le foto del libretto del CD siano esclusivamente di caproni ed auto demolite (un po’ alla Unsane questa Mackie, ma stavolta il tuo lavoro di grafica fa un po’ meno pena del solito)? E se il loro datore di lavoro si chiama Mike Patton, come la mettiamo?

La mettiamo che fin quando avranno quest’attitudine saranno inarrestabili come il vocione di King e della sua chitarra, come il nasone di Crover e la sua batteria (basso in questo caso) che tuona poderosa e roboante, sapete che vi dico: mi viene voglia di lavorare solo per dare da campare a questi due allegri guasconi e permettere loro di continuare all’infinito. E, come direbbe Guccini, a culo tutto il resto!

Il bassista alla riscossa!

Trevor Dunn ed il ruolo del bassista nei Melvins secondo Brian Walsby
Trevor Dunn ed il ruolo del bassista nei Melvins secondo Brian Walsby

Ok, lo so io non faccio testo ed i Melvins nemmeno. Io perché non ho le capacità per essere inserito a pieno titolo nella categoria ed i Melvins nemmeno perché hanno cambiato bassisti con una nonchalance senza pari. Ma io non ho velleità artistiche (mi diverto in compagnia!) ed i Melvins fanno notoriamente quello che vogliono. Tuttavia se guardo alla storia di questo strumento nella musica che amo vengo assalito da una gran mestizia.

L’apporto dei bassisti alla musica pesante è sempre stato legato a quei tre/quattro nomi e spesso nemmeno quello. C’erano imbarazzanti classifiche di fine anno nei giornali specializzati dove vinceva sempre e solo Steve Harris (con tutto il rispetto che merita) alla voce “miglior bassista” anche perché non si sapeva chi votare, produzioni (soprattutto anni ’80, ma anche dopo) che non concedevano nulla a questo strumento ed eri già fortunato se tendendo l’orecchio e sforzandoti riuscivi a sentire qualcosa. Urgh.

Certo di nomi ne son sempre circolati dai precursori Lemmy e Geezer Butler, fino allo stesso Harris, poi gente come Steve DiGiorgio, Robert Trujillo (anche se poi si è unito ad un gruppo innominabile), Cliff Burton, Les Claypool, Al Cisneros, Justin Chancellor e lo stesso Trevor Dunn o gruppi come i misconosciuti Godspeed con due bassi addirittura. Però a me è sempre sembrata una sorta di ghettizzazione dello strumento, una potenzialità espressiva sfruttata poco e male, mi ha fatto sempre una gran tristezza, anche se qualcosa è stato fatto in tempi recenti, arriverà mai l’ora del riscatto definitivo?

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The Melvins Lite live @ Bloom Mezzago

Non può piovere per sempre… ed infatti ha smesso giusto in tempo per permettere a noi altri di affrontare la trasferta in quel di Mezzago senza essere bersagliati dalla pioggia battente. L’occasione era perfetta per spezzare un digiuno francamente avvilente dai concerti dal vivo, i Melvins sono in tour nel nostro paese e qundi ci tocca di vederli per la terza volta! E siamo entusiasti al pensiero di rivedere il faccione di Buzzo e quel ceffo di Dale.

La trasferta è impegnativa e probabilmente qualcuno sta maledicendo se stesso stamattina, eppure come si fa a non voler bene ai ragazzi, come si fa a non accorrere al loro richiamo? A Mezzago si sta bene in maglietta: è una bella serata primaverile, un po’ troppo umida e appena arrivati scorgiamo gli stessi Buzzo e Dale aggirarsi all’esterno del locale, si rifugiano in tutta fretta nel tour-bus e questo è quanto. All’interno la bancarella è deludentissima: qualche t-shirt (pessima) dei Melvins, qualche altra dei Big Business e un manifesto la cui grafica sinceramente è deprimente, del resto i Melvins sono famosi per il pessimo aspetto dei loro CD, perché smentirsi con i volantini? Uno si aspetterebbe di trovare il CD nuovo, se non proprio qualche 7″ raro della Amphetamine Reptile, invece niente, che tristezza.

I Big Business, si rivelano molto migliori di come me li ricordavo… l’inserimento di una chitarra (Scott Martin) e il tempo trascorso devono aver ulteriormente permesso alla sezione ritmica dei Melvins di rendere il suono decisamente più compatto e corposo. Composizioni solide e trascinanti, sostenute da un batterista (Coady Willis)  di tutto rispetto, autore di una prestazione sicuramente di rilievo, seguito dallo sbraitare di Jared Warren che sembra un novello boscaiolo particolarmente ilare. E poi tocca a loro…

Una testata Sunn 0))) model T sovrasta due casse Orange nella postazione di Buzzo e lascia presagire delizie future. Un campanaccio molto artigianale fa la sua figura sulla batteria di Dale e rafforza tale impressione, quando poi Trevor Dunn si presenta sul palco con un contrabbasso classicamente inteso, penso che ci sia stata l’assoluta certezza che sarebbe stato un gran concerto. Introdotti da una fastidiosissima divagazione noise sui colpi di tosse che fungono da introduzione a “Sweet Leaf” dei ‘Sabbath (sarà una intro casuale nell’anno del ritorno?) che viene poi lasciata scorrere mentre i musicisti si preparano, ecco i nostri eroi guadagnare il palco! Buzzo ha il solito improponibile faudal (grembiule in piemontese), l’immancabile ventilatore e la fida chitarrina di stagnola. Trevor invece sembra l’ultimo dei nerd con tanto di camicia a maniche corte cravattata e occhiali con nastro adesivo bianco. Non può mancare all’appello Dale con una maglietta che sembra una versione marcia delle divise dei Beatles di Sgt. Peppers! Ci siamo tutti ed andiamo ad incominciare.

Un set basato abbastanza sull’ultimo “Freak Puke”, vista anche la presenza di Dunn, che suona il contrabbasso veramente alla grande, senza alcun problema di suono che, anzi, riulta davvero caldo e corposo perfettamente contrapposto alle sonorità di Buzzo che, questa volta, appaiono più fredde del solito (a volte il Les Paul black beauty ci manca)… la batteria di Dale invece è microfonata benissimo ed ogni suo tocco sembra uno sparo al cuore… intenso e furente come solo lui sa essere. Tra le altre come non ricordare l’immancabile “Hooch”, la nuova “Mr. rip off” o la cover di Mc Cartney “Let me roll it”, tanto per citarne tre. Il pubblico è abbastanza movimentato e qualche spintarella arriva anche a noi, ma in mezzo c’è un bel pit e non manca anche un episodio di crowd surfing come ai bei vecchi tempi. Da bassista ho apprezzato molto il lavoro di Dunn, che poi era la novità principale per quel che mi riguarda, e anche il suo assolo terminato con la sfruttatissima “Somewhere over the rainbow” (vi perdono solo perchè siete voi e non sapete nulla della sfrangiata di maroni della tim) è stato assolutamente convincente ed un ottimo preludio alla parte finale nella quale Coady raggiunge Dale per una bella mitragliata con due batterie.

Buzzo è il solito vocione imperioso, solenne e grandioso sotto ad una cascata di capelli grigi che esplodono sul capo, il fido ventilatore che li mantiene vaporosi e la chitarra che manda suoni potenti e a volte striduli, scuote la testa, si avvicina furtivo al microfono a volte per cantare ed a volte no. Dale, come accennato in precedenza, gode di suoni veramente ottimi stasera e, nonostante il caldo che fa sudare tutti quanti, sfodera ancora una volta una prestazione riuscita e potente, lanciando tuoni a destra e a manca, insomma: trent’anni dopo sono ancora qua ed è fantastico pensare che abbiano ancora tanta benzina da bruciare, tanta voglia di esibirsi e di confrontarsi con pubblico e strumentisti nuovi. Il concerto passa in un soffio, considerata anche la fame di concerti che avevamo, ci sembra che arrivi anche troppo in fretta  la fine incorniciata da un bel pezzo bluegrass che fa quasi venire in mente il Boars Nest.

Le foto, vista anche la movimentata audience, sono quel che sono ma tanto per inventario eccovele:

The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago

The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago

The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago

The Melvins Lite   Live @ Bloom Mezzago
The Melvins Lite Live @ Bloom Mezzago

The interview

Unimog
Unimog

Quello che potete leggere qui sotto è un’intervista che ho recuperato in una oscurissima webzine che, non si sa come, è riuscita ad intervistare un oscuro rappresentante del bassistico duo. Non è chiaro molto alto al riguardo e mi scuso con i lettori non in grado di leggere la lingua inglese, ma tradurre tutto sarebbe laborioso e, ammettiamolo, non ne ho poi molta voglia: probabilmente ci sono anche degli errori dentro ma quelli non dipendono da me… onestamente non so nemmeno bene chi possa essere interessato ma tant’è…

Unimog is an italian band. We don’t really know much more than that… two people playing “music”. The word is quoted because you can’t really call it that way and even try to describe what they play gets difficult, what we heard was basicly a distorted bass-line and the kind of vocals you can expect to came out of a cave. Low distorted tunes, primordial growls but fascinating in some way. Don’t even ask how we get in touch with them, they aren’t exactly familiar with what you can call interviews and stuff like webzines, just enjoy the chat and hope not to hear them play. Ever.

Q: Would you like to introduce the band? A: Well we have known each other since more or less a lifetime ad at a certain point we just grab our basses and raised the volume. I don’t know if this could be called a proper “band” we just do what we feel like and obviously we don’t care. Most of the time it’s just us jamming for an endless time. And don’t think about complicated stuff, because one starts playing a riff and the other one follows adding what he feels like to the main theme, so our so-called “jams” are nothing serious, we have respect for those who jam the right way (laughs).

Q: What about the band’s name? A: It is a off-road vehicle made by Mercedes-benz. We prefer the 70’s vehicles to be honest, the ones without all that electronic shit, they were so great. Nowadays there’s too much electronic stuff everywhere, even in music, and we’d like to react going the other way with what we play, I don’t really think we will ever sound like much modern bands do. To hell with pro-tools! (laughs) We decided to call ourselves like that because we like to go outdoors where noone usually go, and that vehicle can bring you there, pretty much like when Kyuss used to play in the Death Valley, what we dreamt about was playing in a rather inaccessible place.

Q: And where do you usually play? A: It depends on how high the volume can be! Usually we play in one of our places at a low volume, but when it becomes necessary to make some serious noise we just rush in a workshop. In a workshop? Yeah, we know the right people to do that.

Q: Before you were talking about Kyuss, what artists have influenced you? A: Kyuss were absolutely among those who had a leading role in influence what we do. It’s always a matter of attitude and, of course, of the way they sound. I could say that Sunn 0))) are perhaps the biggest influence, great people and deep, slow and low-tuned  sound. Dark Throne are another if not for the music, for sure for the attitude and for doing what they want and what they feel. Then I can’t forget the Melvins, perhaps the biggest example of indipendence in today’s music… and tons of other bands like Neurosis, Converge, Electric Wizard, Sleep, Winter and, what the hell, the first six Sabbath albums!!! (laughs)

Q: But you don’t sound like any of them, do you? A: No. (laughs) Maybe a bit like Sunn 0))), but it’s a bold statement, man.

Q: What do you think Unimog is all about, then? A: Damned if I knew! (laughs) We are just a couple of friends doing what we like. If I wanted to be pompous I’d say we are about freedom of experssion, darkness, heavy music, but that’s bullshit and I don’t believe it at all. We are just free and we can’t really take any kind of label on what we do. We don’t like to discuss about it, we don’t like to give explanations or anything, that’s it. This is not something made to get a contract or to please people, like it or not. If it is so… why are you answering now? Because you were so kind to ask for an interview and because I felt like it!!! You know, usual things (inclucing people and music) are so damn boring, and I haven’t answered an interview yet!!!

Q: Will you ever record anything? Will you ever play live? A: Uhm… I don’t know, how did you get to hear us? I won’t say that… that’s right, you get the point. As I said before we do what we feel like, we live the moment, you know? If we will be able to record anything satisfying and the moment is right, then it could happen (there might be some bootleg recordings, I don’t really know). And we even played live once. It was a kind of a festival and a friend of ours asked if we’d like to join in. He had to ask several times, really (smiles)… but finally we played and had a good feeling out of it, it was just bass and vocals but i guess we scared the shit out of someone! There was no plan, we just dropped in and play, we preferred the version with “vocals” so there was a bass only. Some said we sounded like an elephant, others, linstening to our rehearsals, said like a dinosaur, we appreciated that! Horns up!

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