Ormai dal Sig. Patton ci si aspetta di tutto: dopo aver collaborato con chiunque, formato i Fantômas, prestato la voce a Bjork, essere ritornato ai Faith No More, aver cantato delle canzoni italiane degli anni ’60, mancavano i Mr. Bungle. Detto, fatto. Rieccoli qua. In realtà solo tre di loro: Patton, Dunn, Spruance.
Dopo un passato fatto di crossover e schizofrenia musicale, senza pubblicare nulla da più di vent’anni (una volta per tutte: il loro esordio rappresenta IL disco crossover per eccellenza) ritornano con la brillante (?) idea di ripubblicare il loro primo demo. Essendo californiani ed avendo esordito negli anni ’80 cosa vi aspettate che suonassero agli esordi? Esatto. I tre superstiti uniscono le forze con -Attenzione!- Dave Lombardo e Scott Ian e ri-registrano un demo di Thrash metal!!!
Mr. Bungle 2020 (fonte: Ipecac Records)
Mi spiace per tutti ri revivalisti del genere ma, visti i risultati, prendete pure tutti vostri bei dischetti di Toxic Holocaust, Municipal Waste e compagnia (compresi anche gli ultimi dei quattro grandi del thrash e dei Testament) e buttateli nel cesso perché questo disco, nella sua desueta e folle intenzione, incenerisce qualsiasi concorrente istantaneamente. Per di più con una dose di autoironia (vedi Bio, proclami pubblicitari vari e la cucaracha) che gli altri militanti severi si sognano solamente e che è sicuramente un valore aggiunto.
In conclusione: che senso ha ri-suonare adesso un vecchio demo di thrash metal del 1986? Non lo so, ma il fatto è che mi ha dato una gran gioia sentirlo. Ha finalmente(!!!) dei suoni decenti e nient’affatto plastificati e poi ci suonano dei veri maestri del genere e della musica in generale (Trevor Dunn è un genio del suo strumento, per dire). Molta nostalgia? Certo! Stanno raschiando il fondo del barile? Forse! Hanno ancora qualcosa da dire con un’operazione del genere? Secondo me sì, nonostante tutto… Dunque, per una volta, alziamo il volume e chissenefrega!!!
L’ estate è trascorsa veloce, nascosti in una città abbandonata eppure viva. Come la brace sotto la cenere. Il senso di vuoto degli alberghi abbandonati e di un luogo che, un tempo, era in grado di ospitare le persone bisognose di cure. La decadenza degli edifici e la tenacia di chi ancora abita quei luoghi. Come sempre le vacanze estive sono quel non-luogo dove vorresti fare tutto quello che, nel trascorrere dell’anno, non ti è riuscito. Leggere un libro o ascoltare musica con calma. Ovviamente non ti riesce. Ti togli qualche fugace soddisfazione, fai appena in tempo ad accorgerti di avere del tempo libero che subito ti viene negato. A pensarci tutte le volte sembra l’ora d’aria dei carcerati. In quest’ ora ho ascoltato quattro nuovi dischi e me ne è piaciuto veramente solo uno, che terrò per ultimo.
Mrs. Piss“Self surgery”: Mi imbatto in questo disco solo perchè vede coinvolta la signora Wolfe. Tutto mi direbbe di non farlo: il nome e l’artwork sono già di per sé squalificanti, per non dire pessimi. Fortunatamente il disco non è peggio (bisognava effettivamente impegnarsi) ma decisamente non brilla. La registrazione è molto piatta, quasi malfatta e questo non giova: non stiamo parlando di musica che trae giovamento da una registrazione ai limiti del low-fi, soprattutto non con la voce di Chelsea di mezzo. Poi poche idee e sviluppate male, a tratti la classe della cantante emerge, ma più spesso appare ficcata a forza in un contesto davvero povero in termini di idee e soluzioni. Non mi è venuta voglia di andare oltre il primo ascolto. Se proprio volete godervi qualcosa di nuovo che coinvolga l’autrice di “Birth of violence”, allora ascoltate questa: è una cover, ma almeno non è niente male.
King Buzzo (with Trevor Dunn) “Gift of sacrifice”: Seconda puntata acustica e (quasi solistica) per il leader dei Melvins. In questo caso sono arrivato almeno al secondo ascolto. Se il primo episodio aveva convinto, il secondo non centra l’obbiettivo. Magari mi ricrederò quando mi verrà voglia di riascoltarlo, per ora purtroppo è triste constatare che anche con il coinvolgimento di un musicista sopraffino come Mr. Dunn, la situazione non migliora e c’è poco da fare. Poco più di mezz’ora di brani acustici per archi e chitarra che non coinvolgono pur non essendo oggettivamente brutti, il problema è che lasciano indifferenti. Che i Melvins siano uno dei gruppi che lavorano più duramente nel panorama della musica pesante penso sia indubitabile, solo che sono diventati… logorroici, adattando il termine alla produzione musicale: buttano fuori roba a ripetizione, senza tregua e quasi senza riflettere. Un album almeno all’anno, più gli album solisti del buon Buzzo e di Dale Crover usciti di recente; obbiettivamente è quasi impossibile mantenere gli standard qualitativi elevati del in passato a questi ritmi e con anni di carriera alle spalle. Danno l’idea di non scartare mai nulla, nessuna idea, nessuna collaborazione, nessun progetto collaterale: è chiaro che il talento si diluice e si finisce per annoiarsi all’ascolto. Qui King sembra riciclare riff (e lui è una vera riff-machine forse la più prolifica dopo Tony Iommi) e avere idee confuse. Spiace dirlo anche perchè l’ EP “Six Pack” uscito in anteprima a questo su Amphetamine reptile records, era decisamente molto più coinvolgente e ben fatto anche al netto della divertente cover dei Black Flag. Se i Melvins si decidessero a far uscire meno dischi (che siano al verde?) e a licenziare quell’inutile buffone dei Redd Kross al basso, forse riavremmo il nostro grande gruppo indietro, per ora sono abbastanza vittime della loro stessa iperproduttività.
Mark Lanegan “Straight songs of sorrow”: Accanto all’uscita del discusso memoir “Sing backwards and weep” arriva questo nuovo lavoro del (un tempo?) fulvocrinito cantante americano. Fermo restando che “Blues funeral” era un capolavoro di stile e “Gargoyle” gli andava appena sotto, con un 1-2 micidiale (“Goodbye to beauty”/”Drunk on destruction”), da lì in poi l’ispirazione è andata scemando anche per lui. Lasciando perdere “Imitations” che è un disco di cover e lo zoppicante “Phantom radio”, l’ondata elettronica che ha invaso i suoi lavori si è fatta quasi opprimente e sbilanciata nell’economia dei brani che via via stanno perdendo quell’opacità fumosa e distruttiva che li rendeva tanto affscinanti. Probabilmente sono anche io il problema, essendo legato alla sua produzione più datata e acustica, per cui soprattutto “Somebody’s knocking” ma anche questo “Straight songs of sorrow” mi risultano un tantino indigesti. Non sono brutti, ma hanno perso il magnetismo e almeno una fetta di magia dei precendenti e anche qui non mi hanno catturato al punto di entrare in un ciclo ripetuto e piacevole di ascolti. Dev’essere una costante del periodo, ma già la canzone di apertura mi sfianca dopo pochi minuti… Fate voi.
Steve Von Till “No wilderness deep enough”: Dopo tre ascolti colpevoli di avermi tolto parte della fiducia nei rispettivi autori, arriva la certezza, solida come una roccia. Il cantante/ chitarrista dei Neurosis rilascia un altro disco solista e nemmeno questa volta è possibile muovergli una critica. L’unico limite di questo disco, se vogliamo chiamarlo così, è che risulta difficile essere dello stato d’animo adatto per ascoltarlo, perché è un disco che letteralmente ti scava dentro, ti svuota e ti lascia nudo di fronte a te stesso. Una visione che non tutti (io per primo) riescono a sopportare per tempi troppo lunghi. Steve è un autore autentico, profondo e sensibile, nonstante il suo gruppo madre abbia messo a dura prova l’udito di più di un fan con sperimentazioni pesantissime e a volte indigeste (confesso candidamente di non riuscire ad arrivare in forndo a “The world as law”, per esempio), quando si tratta dei sui dischi solisti il discorso cambia.
Partito da splendide suggestioni acustiche (il meraviglioso “As the crow flies”), album dopo album, il suono votato al minimalismo si è via via arricchito di sfumature sicuramente apprezzabili in termini di inserti elettronici e archi che completano lo spettro sonoro rendendo il suono ricco ed avvolgente, tutto corredato dai testi sempre ispirati che recentemente hanno anche trovato una dimensione grafica affascinante in un libro corredato da suggestive immagini. Il cerchio si chiude intorno alla sua magistrale interpretazione vocale sempre intensa ed emozionante. Finalmente, ne avevo bisogno.
Trevor Dunn ed il ruolo del bassista nei Melvins secondo Brian Walsby
Ok, lo so io non faccio testo ed i Melvins nemmeno. Io perché non ho le capacità per essere inserito a pieno titolo nella categoria ed i Melvins nemmeno perché hanno cambiato bassisti con una nonchalance senza pari. Ma io non ho velleità artistiche (mi diverto in compagnia!) ed i Melvins fanno notoriamente quello che vogliono. Tuttavia se guardo alla storia di questo strumento nella musica che amo vengo assalito da una gran mestizia.
L’apporto dei bassisti alla musica pesante è sempre stato legato a quei tre/quattro nomi e spesso nemmeno quello. C’erano imbarazzanti classifiche di fine anno nei giornali specializzati dove vinceva sempre e solo Steve Harris (con tutto il rispetto che merita) alla voce “miglior bassista” anche perché non si sapeva chi votare, produzioni (soprattutto anni ’80, ma anche dopo) che non concedevano nulla a questo strumento ed eri già fortunato se tendendo l’orecchio e sforzandoti riuscivi a sentire qualcosa. Urgh.
Certo di nomi ne son sempre circolati dai precursori Lemmy e Geezer Butler, fino allo stesso Harris, poi gente come Steve DiGiorgio, Robert Trujillo (anche se poi si è unito ad un gruppo innominabile), Cliff Burton, Les Claypool, Al Cisneros, Justin Chancellor e lo stesso Trevor Dunn o gruppi come i misconosciuti Godspeed con due bassi addirittura. Però a me è sempre sembrata una sorta di ghettizzazione dello strumento, una potenzialità espressiva sfruttata poco e male, mi ha fatto sempre una gran tristezza, anche se qualcosa è stato fatto in tempi recenti, arriverà mai l’ora del riscatto definitivo?
Non può piovere per sempre… ed infatti ha smesso giusto in tempo per permettere a noi altri di affrontare la trasferta in quel di Mezzago senza essere bersagliati dalla pioggia battente. L’occasione era perfetta per spezzare un digiuno francamente avvilente dai concerti dal vivo, i Melvins sono in tour nel nostro paese e qundi ci tocca di vederli per la terza volta! E siamo entusiasti al pensiero di rivedere il faccione di Buzzo e quel ceffo di Dale.
La trasferta è impegnativa e probabilmente qualcuno sta maledicendo se stesso stamattina, eppure come si fa a non voler bene ai ragazzi, come si fa a non accorrere al loro richiamo? A Mezzago si sta bene in maglietta: è una bella serata primaverile, un po’ troppo umida e appena arrivati scorgiamo gli stessi Buzzo e Dale aggirarsi all’esterno del locale, si rifugiano in tutta fretta nel tour-bus e questo è quanto. All’interno la bancarella è deludentissima: qualche t-shirt (pessima) dei Melvins, qualche altra dei Big Business e un manifesto la cui grafica sinceramente è deprimente, del resto i Melvins sono famosi per il pessimo aspetto dei loro CD, perché smentirsi con i volantini? Uno si aspetterebbe di trovare il CD nuovo, se non proprio qualche 7″ raro della Amphetamine Reptile, invece niente, che tristezza.
I Big Business, si rivelano molto migliori di come me li ricordavo… l’inserimento di una chitarra (Scott Martin) e il tempo trascorso devono aver ulteriormente permesso alla sezione ritmica dei Melvins di rendere il suono decisamente più compatto e corposo. Composizioni solide e trascinanti, sostenute da un batterista (Coady Willis) di tutto rispetto, autore di una prestazione sicuramente di rilievo, seguito dallo sbraitare di Jared Warren che sembra un novello boscaiolo particolarmente ilare. E poi tocca a loro…
Una testata Sunn 0))) model T sovrasta due casse Orange nella postazione di Buzzo e lascia presagire delizie future. Un campanaccio molto artigianale fa la sua figura sulla batteria di Dale e rafforza tale impressione, quando poi Trevor Dunn si presenta sul palco con un contrabbasso classicamente inteso, penso che ci sia stata l’assoluta certezza che sarebbe stato un gran concerto. Introdotti da una fastidiosissima divagazione noise sui colpi di tosse che fungono da introduzione a “Sweet Leaf” dei ‘Sabbath (sarà una intro casuale nell’anno del ritorno?) che viene poi lasciata scorrere mentre i musicisti si preparano, ecco i nostri eroi guadagnare il palco! Buzzo ha il solito improponibile faudal (grembiule in piemontese), l’immancabile ventilatore e la fida chitarrina di stagnola. Trevor invece sembra l’ultimo dei nerd con tanto di camicia a maniche corte cravattata e occhiali con nastro adesivo bianco. Non può mancare all’appello Dale con una maglietta che sembra una versione marcia delle divise dei Beatles di Sgt. Peppers! Ci siamo tutti ed andiamo ad incominciare.
Un set basato abbastanza sull’ultimo “Freak Puke”, vista anche la presenza di Dunn, che suona il contrabbasso veramente alla grande, senza alcun problema di suono che, anzi, riulta davvero caldo e corposo perfettamente contrapposto alle sonorità di Buzzo che, questa volta, appaiono più fredde del solito (a volte il Les Paul black beauty ci manca)… la batteria di Dale invece è microfonata benissimo ed ogni suo tocco sembra uno sparo al cuore… intenso e furente come solo lui sa essere. Tra le altre come non ricordare l’immancabile “Hooch”, la nuova “Mr. rip off” o la cover di Mc Cartney “Let me roll it”, tanto per citarne tre. Il pubblico è abbastanza movimentato e qualche spintarella arriva anche a noi, ma in mezzo c’è un bel pit e non manca anche un episodio di crowd surfing come ai bei vecchi tempi. Da bassista ho apprezzato molto il lavoro di Dunn, che poi era la novità principale per quel che mi riguarda, e anche il suo assolo terminato con la sfruttatissima “Somewhere over the rainbow” (vi perdono solo perchè siete voi e non sapete nulla della sfrangiata di maroni della tim) è stato assolutamente convincente ed un ottimo preludio alla parte finale nella quale Coady raggiunge Dale per una bella mitragliata con due batterie.
Buzzo è il solito vocione imperioso, solenne e grandioso sotto ad una cascata di capelli grigi che esplodono sul capo, il fido ventilatore che li mantiene vaporosi e la chitarra che manda suoni potenti e a volte striduli, scuote la testa, si avvicina furtivo al microfono a volte per cantare ed a volte no. Dale, come accennato in precedenza, gode di suoni veramente ottimi stasera e, nonostante il caldo che fa sudare tutti quanti, sfodera ancora una volta una prestazione riuscita e potente, lanciando tuoni a destra e a manca, insomma: trent’anni dopo sono ancora qua ed è fantastico pensare che abbiano ancora tanta benzina da bruciare, tanta voglia di esibirsi e di confrontarsi con pubblico e strumentisti nuovi. Il concerto passa in un soffio, considerata anche la fame di concerti che avevamo, ci sembra che arrivi anche troppo in fretta la fine incorniciata da un bel pezzo bluegrass che fa quasi venire in mente il Boars Nest.
Le foto, vista anche la movimentata audience, sono quel che sono ma tanto per inventario eccovele:
Evidentemente il post su Trevor Dunn è stato evocativo: i Melvins (in versione Lite, quindi in trio con lo stesso Dunn al basso) suoneranno il 1 maggio al Bloom, Storico locale di Mezzago (MI), dopo la delirante impresa di suonare in 50 stati americani in 51 giorni (!!!). Il bassistico duo sarà assolutamente presente, i biglietti sono stati presi un nanosecondo dopo aver ricevuto l’informazione e stiamo già fibrillando quasi due mesi prima: abbiamo già le corde dei nostri strumenti che vibrano in risonanza. Non vedevamo il gruppo di Aberdeen dal lontano 2008 all’allora Musicdrome di Milano, quindi adesso, all’alba dei 30 anni di carriera e di sodalizio tra Buzz e Dale, l’occasione è quantomai propizia, vista anche la penuria di concerti che ultimamente sta affliggendo lo stivale (vedremo mai gli High On Fire?). Una migliore festa dei lavoratori non potevo certo aspettarmela! Hell Yeah \m/
Che ne sapevi quando iniziasti a suonare a 13 anni della fine che avresti fatto? Che ne sapevi che avresti suonato con Mike Patton, King Buzzo e, ninetemeno che, John Zorn? Che ne sapevi che saresti saltato da un genere all’altro come una cavalletta semi ubriaca? Che ne sapevi che il tuo futuro fosse quello di martellare quei quattro (o più) cavi? Che avresti rifatto “Il Padrino” o preso il mano il contrabbasso per “Mr. Rip-off”? C’era questo gruppetto che suonava un misto di funk- metal e musica per nintendo chiamato Mr. Bungle e, a risentirli adesso, sembra quasi che quella California di fine anni ’80 (inizio ’90) rinasca ancora da quei solchi, ma soprattutto da quei suoni che sanno di crossover totale come era usanza all’epoca… basterebbe chiedere a Flea o a Les Claypool. C’era tutto questo e poi venne il resto, supportato da una rara bravura ed anche da una presenza scenica non comune. Accidenti a te, quasi quasi ti invidio.
“Quando siamo calmi e pieni di saggezza, ci accorgiamo che solo le cose nobili e grandi hanno un’esistenza assoluta e duratura, mentre le piccole paure e i piccoli pensieri sono solo l’ombra della realtà.” (H. D. Thoreau)