Tutte le volte che penso a qualcosa da dividere in due penso a Firenze di Ivan Graziani. È un riflesso automatico. Nel caso del cantautore abruzzese era una donna, quella che buttava i disegni giù da ponte vecchio. Personalmente è un’esperienza che mi auguro di non ripetere, ma nel caso di High on fire e Melvins si tratta del loro batterista ed è qualcosa che fortunatamente funziona. L’imputato è Coady Willis ora nuovo batterista dei due gruppi. E non deve sostituire due batteristi qualunque. Con Dale Crover aveva già diviso il palco all’epoca della fusione con i Big Business, producendo gli ultimi dischi in serie veramente grandi del gruppo nato nel 1983. Nel caso degli High on fire il nome del personaggio non è altrettanto altisonante, Des Kensel, ma comunque per me ha un valore affettivo altissimo visto che trattasi di un membro originale e anche di uno dei miei batteristi preferiti e spiace che di lui si siano accorti in pochi perché, nel genere, è un grandissimo e posso ben dirlo avendolo visto due volte dal vivo.
La cosa straordinaria è che i due gruppi, con Coady alla batteria, funzionano. Con i Melvins il matrimonio si è consumato in sede live vista la dimestichezza del batterista con il materiale del gruppo e l’impossibilità di Crover a suonare in sede live visti i suoi problemi di salute, con gli High on fire suona anche su disco e sa meno di rimpiazzo. Fatto sta che i due gruppi hanno appena fatto uscire due signori dischi.
Quando ho comunicato ad un amico l’uscita dell’ ennesimo disco dei Melvins (siamo al ventisettesimo!!) mi ha detto con espressione stanca “Ancoora?” e io lo capisco, il gruppo ultimamente è stato veramente fin troppo produttivo, mettendo sul mercato uscite non sempre qualitativamente all’altezza del loro nome. A partire dall’insopportabile “A walk with love & death” (il loro peggior album a sindacabile giudizio di chi scrive) per finire con l’inutile acustico “Five legged dog”, poi il secondo trascurabile episodio solista di Buzzo e anche il non troppo convincente disco solista di Crover. Per tacere delle uscite su Amphetamine reptile dai prezzi esageratissimi e dalla qualità a volte latente. C’è di che rompersi i coglioni, ne converrete.
Però all’ amico ho dovuto rispondere: “Sì, ma questo merita”: seguendo un percorso compositivo diverso dal solito (praticamente non avevano nulla di pronto prima di entrare in studio) sono riusciti a fare uscire un lavoro di livello, senza brani deboli, che convince dall’inizio alla fine. Era ora: magari suonare live con un batterista diverso e affidarsi in studio ad un altro grandissimo, Roy Mayorga, ha fatto ampliare un po’ i loro orizzonti, rompere i loro schemi consolidati. Se riesce a non annoiare il brano di apertura ”Pain equals funny” con i suoi 19 minuti di follia melvinsiana neanche troppo condensata, fidatevi che è un bel disco. Poi a me Mc Donald continua a starmi antipaticissimo, ma questo è un altro discorso.
Gli High on fire li avevamo lasciati con un award in mano per “Electric messiah” e, dopo una carriera come la loro, ci stava benissimo per quanto poco io consideri certi riconoscimenti. Però il disco omonimo appariva a tratti stanco e stancante: io arrivavo in fondo con estrema difficoltà. Con tutto il bene che voglio al dimissionario Kensel, che lasciò la band nel 2019, mi duole ammetterlo ma questo nuovo “Cometh the storm” convince molto di più del predecessore. Anche qui forse rompere certi schemi ha portato del giovamento: è come se il gruppo fosse ringiovanito di sei sette anni. La formula di base è sempre quella, rock metallico che passa dal massiccio all’urgente con tutte le sfumature comprese nel mezzo. Si nota una certa fascinazione per certa musicalità orientale, vedi lo strumentale “Karanlik Yol”, prima quasi del tutto assente, ma che in un disco votato alle fascinazioni marittime come questo (si veda anche la copertina) ci sta tutto.
Arrembanti come non li si sentiva da un po’, in questo disco finalmente i brani coinvolgono e fomentano e si finisce con l’insana voglia di mettersi una baionetta tra i denti e lanciarsi all’attacco di un mercantile nell’oceano indiano con un jolly roger come bandiera. Matt Pike, in questo disco, urla come un ossesso, come non aveva mai fatto in passato, qualcosa vorrà pur dire.
Non vedo l’ora che sia luglio per vederli dal vivo.