Una storia d’amore: il Maryposa* Duomo e i negozi di dischi nella Milano anni ’90.

Tanto per restare in tema di Milano e d’ammore

Ricordi che sfrecciano come treni su una tratta prestabilita, incuranti di spazio e tempo, si muovono in due direzioni andata e ritorno. Come un ideale ponte che copre in un istante un lasso di trent’anni. I treni sono diventati peggiori, invece che migliorare. Il tempo ha smussato gli angoli ma ha privato ogni cosa della appagante intensità che aveva un tempo. Milano negli anni ’90 era bellissima ai miei occhi: un turbine in continuo movimento, un’ebrezza di possibilità che non avevo mai avuto, un contenitore di stimoli che non si erano mai palesati. Andarci era un pellegrinaggio spirituale da perpetrarsi ogni fine settimana. Su tutti tre loghi del cuore: Brera, il Castello sforzesco e la zona di via Torino-Porta ticinese.

Brera spero che non perda mai il suo fascino, i suoi soffitti alti, i gessi per quanto sfregiati, l’orto botanico, le aule e gli anfratti per giovani amanti. La pinacoteca al piano superiore che sembra sovrastare l’accademia come una sorta di motto: Per Aspera, ad Astra. Del Castello ricordo meglio le panchine esterne e le ore spese allontanando il mondo: come a guardarlo da un binocolo al contrario e quella volta che esposero dentro un quadro attribuito da Federico Zeri a Antonello Da Messina. Via Torino all’epoca non era mondana come ora: passato il primo tratto c’erano i capannelli di ragazzi alle colonne di San Lorenzo, l’austera Sant’Eustorgio, la fiera di Sinigallia e porta Ticinese. Un’atmosfera quasi irreale ed io che ci galleggio dentro intontito dai miei stessi sentimenti al punto di non essere quasi per nulla disturbato dal caotico andamento che forse sarebbe la prima cosa che oggi non sopporterei e che allo stato odierno mi tiene lontano dalle spire del biscione.

Questa lunga introduzione per proseguire nel viaggio attraverso i negozi di dischi. Perché alla fine, andando a Milano tutti i sabati, era fatale che spendessi un sacco di soldi in dischi che dalle mie parti ero ben lungi dal poter pensare di reperire. La pandemia ha portato via un quarto luogo del cuore di Milano, il Maryposa Duomo. Se per coloro che mi precedevano di qualche anno il punto di riferimento era il Transex (altro posto leggendario) io ci andai solo di striscio prima che finisse per chiudere, e poi fu quasi solo Maryposa.

Busta del negozio con il nuovo logo e tre CD acquistati da loro

Prima però di parlare del Maryposa, vorrei fare un breve escursus nei negozi di dischi attivi nella città meneghina negli anni ’90:

Sound Cave: Attivo ancora oggi tramite mail order (non credo che il negozio fisico esista ancora). Era un buggigattolo vicino a porta ticinese, praticamente una sorta di replica italiana del leggendario Helvete di Oslo. Legato a doppio filo con l’etichetta Avantgarde music (quelli che hanno avuto a che fare con i Katatonia, Ulver e Ophtalamia per dire) era la patria della frangia più estrema del metal (Black e Death soprattutto, ma non solo): quando aprivi la porta venivi investito da un urlo preistorico a 1000 watt e cominciava la festa. Dentro era tutto un fiorire di etichette indipendenti e misconosciute, fanzine, edizioni limitate e quant’altro. Ammesso che riuscissi a farti sentire, i commessi erano assolutamente folkloristici e competenti: era anche un interscambio di informazioni tra i fan e tra le band. Forse oggi avrebbe poco senso con internet, ma all’epoca rappresentava una risorsa davvero preziosa.

Supporti Fonografici: Posto di fronte a Sant’Eustorgio era specializzato in musica alternativa, con un campionario interessante e ben fornito. Non ci acquistai molto ma ricordo di aver preso lì i miei primi dischi degli Einstürzende Neubauten, nello specifico un’edizione fantastica, doppio CD, di Strategien gegen architektur II: basta e avanza per ricordarselo.

Negozietto di cui non mi ricordo il nome: Anch’esso sito di fronte a Sant’Eustorgio era un po’ la continuazione del Transex (o di Videomusic di Torino, città a cui dedicherò un post più avanti) più improntato sul merchandising che sui dischi, abbigliamento “alternativo”, magliette, toppe, piercing, tinte stravaganti e chincaglieria varia soprattutto. Non era raro scovarci anche qualche bel disco. Aveva degli orari che non sono mai riuscito a memorizzare.

Zabrinskie point: a proposito di negozi che non si capisce bene quando siano aperti, Zabrinskie point era l’esempio perfetto: specializzato in punk HC, dovevi scovarlo ed il 90% delle volte era chiuso. In  anni non sono mai riuscito a capire come diavolo funzionasse…

Ma veniamo al Maryposa. Su segnalazione di Metalskunk vengo a sapere che il negozio ha chiuso più o meno nel periodo del primo lockdown che, evidentemente, dopo l’avvento del supporto digitale prima e dello streaming poi gli ha dato il colpo finale.  Non dico che sia stato come perdere un amico… ma quasi. Anche se non lo frequentavo da anni, sapere che c’era e sapere che se avessi fatto una puntata a Milano sarei potuto passare mi faceva sopportare di più l’idea di doverci andare. Negli anni novanta, durante i miei pellegrinaggi, era una tappa fissa. Si trovava nelle gallerie della metro sotto al duomo, lo trovavi subito se scendevi alla scala a lato della cattedrale dalla parte che punta verso San Babila. Forse secondo solo al Soundcave come ristrettezza delle dimensioni aveva i caratteristici espositori chiusi a chiave per i CD e i vinili messi dalla parte opposta (all’epoca se ne producevano comunque pochi) nella parte in fondo libri VHS e DVD, qualche gadget qui e lì. C’era un’ottima sezione di offerte e c’era anche un’aggiornata bacheca con le prevendite dei concerti: era piccolo ma c’era tutto insomma. Il vero valore aggiunto però erano i due commessi Dario e Valerio, il primo un appassionato di death metal dall’aspetto sobrio e austero che poi si stemperava con delle battute e degli ammiccamenti, il secondo un ragazzo dimesso, un po’ timido, che aveva una gran passione per la musica alternativa: nella memoria ho l’immagine sua con la felpa grigia dei Nine Inch Nails e la scritta “Now I am nothing” che penso renda bene l’idea.

Un punto di ritrovo, luogo di aggregazione e interscambio un po’ meno estremo e underground di Sound Cave ma per questo più inclusivo e meno settoriale, oltre al fatto che, trovandosi in una zona molto più frequentata ci andasse molta più gente “esterni” compresi, come il sottoscritto. Ovviamente non mi ricordo tutti i dischi comprati lì, alcuni casi però mi sono rimasti impressi tipo “World demise” degli Obituary o “Roots” dei Sepultura (tutti e due in edizione cartonata e limitata e tengo a precisare che, a scanso di equivoci, mi piacciono tutt’ora e per me sono grandissimi dischi). “Welcome to sky valley” dei Kyuss che, visto il fallimento della loro precedente etichetta ed il passaggio all’ Elektra, ci impiegò un’eternità ad uscire tanto che l’avevo ordinato in tre posti differenti (ovviamente amo il gruppo alla follia) e alla fine finì per prenderlo nel primo posto che ne avesse delle copie fisiche (il Maryposa appunto) e dovetti improvvisare delle scuse con gli altri del tipo me l’hanno regalato, sono rimasto chiuso nell’autolavaggio, ho le papille gustative interrotte etc…

Poi ci sono quegli acquisti legati a momenti particolari: mi ricordo soprattutto di “Sleep’s holy mountain” avvenuto in un momento in cui la vecchia magia era svanita ed i pellegrinaggi a Milano erano un ricordo assai doloroso, ci capitai e feci un giro nei vecchi luoghi: una pugnalata. Quando arrivai a pagare, forse fu un’impressione ma l’espressione di Dario fu una cosa tipo “mi ricordo chi sei e so anche che cosa stai passando” arraffai il disco e uscii, sapendo che per un bel periodo non ci avrei fatto ritorno. Inutile dire che adorai il disco nonostante le circostanze, comunque quella non fu l’ultima volta: dentro a quel negozio o nei suoi pressi successero tante altre cose, ma nulla fu più come prima e mi mancò non andarci con regolarità per un lungo periodo: una fase della vita si stava chiudendo ed era il caso di prenderne atto.

In tempi recenti però ogni volta che capitavo in città e ne avevo possibilità facevo un salto, quando fu passata più o meno la nottata. Ovviamente c’era sempre un retrogusto nostalgico, ma finalmente apprezzai il posto per quello che era: un negozio di dischi, di quelli dove comunque ti senti a casa. Un posto legato a doppio filo con la mia storia personale che potrà anche chiudere, patire una sorte avversa senza che tutti quelli che ne hanno usufruito e si sono sentiti a casa sotto terra, nel suo perimetro, ci possano fare nulla ma che ha influito in maniera importante nella mia formazione di musicofilo e di persona.

In definitiva un posto indelebilmente impresso nei ricordi e con un posto speciale in essi. Per il resto per riprendere la tematica ferroviaria iniziale Il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va… e non vedo un granché di nuovo in questo.

Mica pensavate che avrei messo l’originale eh?

L’ultimo disco acquistato fu “Been caught buttering” dei Pungent Stench, quello con la foto di Joel Peter Witkins in copertina: una cosa di tutto rispetto e che fece sorridere Dario, anche se non una chiusura col botto.

*Io mi ricordo della dicitura con la “y”: nel logo nuovo, quello senza farfalla e con le fiamme, c’è una “i”: ho preferito la versione dettata dalla mia memoria.

Dieci dischi per gli anni 10

Traggo ispirazione per questo post dagli amici di Metalskunk per stilare una lista dei dieci dischi del passato decennio che ritengo maggiormente meritevoli… spesso poi non sono gli stessi che hanno vinto il classificone di fine anno, con il tempo gli ascolti si stratificano e le cose cambiano. Io sono un tipo solitamente categorico e monolitico, ma mi vengo a noia spesso, quindi può succedere anche un clamoroso cambio di idea o che con gli ascolti emergano cose che mi convincono poco. Poi c’è il fattore affettivo, poiché accade spesso che ci si affezioni a un disco con il passare del tempo… ma bando ai sentimentalismi in nessun ordine particolare ecco la lista:

Edda: Graziosa Utopia (2017).

Se dovessi (a forza) scegliere un disco di musica popolare italiana sceglierei Edda a mani basse. Questo disco rappresenta probabilmente il miglior disco di musica italiana degli anni 10. E “Spaziale” nello specifico la migliore canzone italiana del decennio. Edda è un personaggio vero, schietto, imprevedibile, appassionato e stralunato. In una parola: unico, questo è il suo pregio più grande. E non conosce pudore, fa saltare gli schemi, irride i filtri. Non so quanti, oggi giorno, possano fare altrettanto nel panorama italiano, sicuramente nessuno al suo livello. Questo è il suo disco più popolare, quello che maggiormente lo vede avvicinarsi alla tradizione italiana, ma niente paura: la sua versione della musica italiana potrebbe assomigliare alla una versione della sobrietà proposta da Bukowski.

STORM{O}: Finis Terrae (2019).

Se invece dovessi scegliere un disco di musica incazzata italiana, con gli STORM{O} vado sul sicuro. Il furore dei feltrini non ha, al momento, eguali nel nostro paese. Ci sono molte altre realtà interessanti ma loro rappresentano senza dubbio la punta di diamante di quanto prodotto nel nostro paese al momento. Con dei testi a metà fra la poesia e l’ermetismo, una proposta musicale che, partendo da una solida base HC, ne evolve la concezione fino a portarla a un livello superiore come solo i migliori sanno fare (Converge?) in “Finis Terrae” fissano nuovi standard per il genere in Italia ed all’ estero. Un assalto che lascia spiazzati, una veemenza che annichilisce e non può lasciare indifferenti. Soprattutto sono personali e coinvolti, persone con una coscienza sociale e un’ attitudine che è direttamente discendente dalla gloriosa tradizione italiana hardcore dei primi anni ’80. Solo rispetto e ammirazione per loro.

Messa: Feast for water (2018).

Non troppo distanti sul territorio ma decisamente distanti musicalmente parlando ci sono i Messa. La loro musica notturna ed avvolgente, una diretta evoluzione del doom in chiave personale e passionale, ribattezzata da loro stessi scarlet doom. “Feast for water” è stata una scoperta bellissima, un disco che è seriamente riuscito ad ipnotizzarmi con le sue spire che sanno di buio ed incenso. Se ne sono accorti anche all’ estero tant’è che attualmente, dopo aver suonato in mezza Europa, stanno lavorando al nuovo disco su Svart records, le premesse per un altro lavoro intenso e di “spessore” ci sono tutte.

Colle Der Fomento: Adversus (2018)

Ammetto candidamente di non essere un super appassionato del genere: per me il rap in Italia si è sempre identificato con tre, quattro nomi al massimo: Assalti frontali, Frankie HI NRG (che pessima fine ha fatto?), al limite Caparezza e poi i Colle Der Fomento. Ebbene, detto da un non esperto: Adversus è il miglior disco di rap mai inciso in Italia. Senza troppi giri di parole: non ho mai sentito di meglio quanto a musica e testi, semplicemente un disco imbattibile. Costruito pezzo su pezzo, mattone su mattone, trave su trave mentre la vita continua a scorrere e a lasciare cicatrici visibili e ferite profonde, scalfitture sulla maschera da guerra. Nonostante il selvaggio impoverimento stilistico-culturale della scena, nonostante le difficoltà e le tragedie personali, nonostante le avversità della vita quotidiana: in faccia a tutto questo nel 2018 esce questo disco magistrale.

Clutch: Earth Rocker (2013)

Se il rap è messo molto male rispetto ad un glorioso passato, saranno almeno cinquant’anni che si vocifera che il rock è morto. Credeteci, oppure ascoltate questo disco dei Clutch. Un solido concentrato di adrenalina e orgoglio di un gruppo che ha sbagliato poco nella sua carriera, ma che qui raggiunge probabilmente il suo apice recente. Un disco genuino, fiero e colmo di attitudine, qualcosa che tutti cominciavano a dare per dispersa. Preparatevi ad essere travolti e a ricredervi. Neil Fallon e compagnia non si daranno mai per vinti: non fatelo nemmeno voi!

High On Fire: Luminiferous (2015)

A proposito di risurrezioni, come sta messo l’heavy metal? Non sta benissimo pure lui, se qualcuno a metà degli anni 10 mi avesse chiesto di fargli sentire qualcosa di indiscutibilmente pesante e potente con “Luminiferous” non avrei avuto dubbi. Lasciata alle spalle la pesantissima e sfortunata eredità degli Sleep, Matt Pike nemmeno volendo sarebbe stato in grado di fermare quella cascata di riff che gli sgorga spontanea dalle dita. E almeno fino a “Luminiferous” la sua è stata una cavalcata travolgente. Brani serrati, furenti, con poco spazio per rifiatare (forse solo durante “The Falconist” e “The Cave” che comunque si presentano rocciose al punto giusto) e sorretti da una sezione ritmica dirompente, difficile muovere un appunto a questo trio. Purtroppo le cose si sfasceranno dopo: “Electric Messiah”, con tanto si dedica a Lemmy, risulta un disco stanco anche se non del tutto pessimo… i problemi di salute dello stesso Pike e gli anni on the road cominciano a farsi sentire e alla fine anche l’abbandono del batterista storico Des Kensel (bravissimo) lanciano qualche ombra sul loro futuro, ma Pike saprà prendere la situazione in mano anche questa volta!

Sleep: The Sciences (2018)

Altro giro, altro Pike: questo disco doveva esserci. La carriera degli Sleep si era chiusa con un’ingiustizia tale da chiedere vendetta. Tutto il casino successo con “Jerusalem/dopesmoker” dimostra quanto triste possa diventare suonare quando si ha a che fare con case discografiche incompetenti che mettono sotto contratto i gruppi senza nemmeno informarsi un minimo su chi siano e quale sia la loro attitudine. Ci sarebbe anche da rincarare la dose sulla libertà artistica ma non mi sembra questa la sede. il 20 Aprile 2018 esce, quasi senza preavviso, il nuovo degli Sleep. Dopo molti concerti con Jason Roader dei Neurosis alla batteria (il batterista originario Chris Hakius si è ritirato dalle scene ma non lo dimenticheremo mai!) la cosa era abbastanza nell’aria, ma nessuno sapeva dove e quando… e alla fine l’hanno fatto: senza tante cerimonie. Chi ha amati non può prescindere da questo disco, che non tradisce le aspettative e glorifica appieno il loro sfortunato passato.

Chelsea Wolfe: Abyss (2015)

Se non conoscete ancora la Sig.ra Wolfe, il mio personale consiglio è quello di procurarvi tutta la sua discografia. detto ciò questo disco rappresenta quello cui sono maggiormente affezionato. Suppongo che per i fan di vecchia data questo disco abbia rappresentato un colpo: non che sia un taglio netto con il passato in termini di tematiche, tuttavia musicalmente le tinte si fanno cupissime, elettriche e grevi, tanto che più volte sono stati fatti accostamenti a generi come il doom o addirittura il drone che sicuramente nessuno avrebbe tirato in ballo prima. Personalmente non posso che gioire della svolta, la Wolfe dimostra un’apertura musicale con un’ispirazione e una bravura (sembra un termine banale, trovatene voi un altro se ci riuscite!) non comuni, facendo centro al primo tentativo… non mi sembra assolutamente una cosa da poco.

Triptycon: Melana Chasmata 2014

Probabilmente il disco più oscuro del decennio. Tom G. Fischer, unico sopravvissuto dei fondamentali Celtic Frost, fa uscire un disco bellissimo, per quanto di difficile ed impegnativo ascolto. Un lavoro che costringe l’ascoltatore ad un lavoro su se stesso per attenzione e coinvolgimento, un vero e proprio viaggio nell’immaginario del musicista svizzero, con tanto di supporto visivo di H.R. Giger (che grandissimo maestro dell’immaginario abbiamo perso!), un percorso nel quale perdere ogni riferimento, come se tutto si facesse oscuro, senza nemmeno la stella polare cui rivolgersi. Un movimento concettuale che si spinge oltre le coordinate tracciate con il compagno scomparso (Martin Eric Ain, altra grandissima perdita) nello spazio più remoto ed inquietante, dal quale non è possibile ritornare uguali a prima.

N.B.: Sono rimasti fuori molti dischi che ho amato (es.: Monolord, Goatsnake, Tool, Neurosis, Converge, Unsane, Melvins etc…) ed alcuni miei gruppi feticcio (Godspeed You! Black Emperor, Sunn 0))), Zu etc…), nel primo caso si tratta solo di aver dovuto limitare il discorso a 10 dischi, nel secondo caso dipende dal fatto di preferirli nettamente dal vivo, magari si potrebbero rifare con i concerti del decennio! DOVEROSO aggiungere che, Ovviamente, mancano i Black Sabbath ed il loro “13“, ma non credo fosse necessario includerlo: nonostante il non riuscitissimo innesto di Brad Wilk alla batteria, rimane un disco realizzato molto meglio di quanto fosse lecito aspettarsi. chi li ama li segue e io sono fra questi, non sono un gruppo, sono un culto!

2018

Immancabile appuntamento con  la playlist di fine anno e quest’anno me la risolvo così:

10. Einstürzende Neubauten:  Grundstück (ok è una riedizione ma è comunque un evento!)

9. Melvins: Pinkus abortion technician

8.  Cani Sciorrì: Parte I

7. Storm(o): Ere

6. Fluxus: Non si sa dove mettersi

5. Voivod: The wake

4. High On Fire: Electric messiah

3. Messa: Feast for water

2. Clutch: Book of bad decisions

1. Sleep: The sciences

Concerto dell’anno: Sleep a Milano

Ciofeca dell’anno: Corrosion of Conformity (giuro che non riesco ad ascoltarlo!)

The interview

Unimog
Unimog

Quello che potete leggere qui sotto è un’intervista che ho recuperato in una oscurissima webzine che, non si sa come, è riuscita ad intervistare un oscuro rappresentante del bassistico duo. Non è chiaro molto alto al riguardo e mi scuso con i lettori non in grado di leggere la lingua inglese, ma tradurre tutto sarebbe laborioso e, ammettiamolo, non ne ho poi molta voglia: probabilmente ci sono anche degli errori dentro ma quelli non dipendono da me… onestamente non so nemmeno bene chi possa essere interessato ma tant’è…

Unimog is an italian band. We don’t really know much more than that… two people playing “music”. The word is quoted because you can’t really call it that way and even try to describe what they play gets difficult, what we heard was basicly a distorted bass-line and the kind of vocals you can expect to came out of a cave. Low distorted tunes, primordial growls but fascinating in some way. Don’t even ask how we get in touch with them, they aren’t exactly familiar with what you can call interviews and stuff like webzines, just enjoy the chat and hope not to hear them play. Ever.

Q: Would you like to introduce the band? A: Well we have known each other since more or less a lifetime ad at a certain point we just grab our basses and raised the volume. I don’t know if this could be called a proper “band” we just do what we feel like and obviously we don’t care. Most of the time it’s just us jamming for an endless time. And don’t think about complicated stuff, because one starts playing a riff and the other one follows adding what he feels like to the main theme, so our so-called “jams” are nothing serious, we have respect for those who jam the right way (laughs).

Q: What about the band’s name? A: It is a off-road vehicle made by Mercedes-benz. We prefer the 70’s vehicles to be honest, the ones without all that electronic shit, they were so great. Nowadays there’s too much electronic stuff everywhere, even in music, and we’d like to react going the other way with what we play, I don’t really think we will ever sound like much modern bands do. To hell with pro-tools! (laughs) We decided to call ourselves like that because we like to go outdoors where noone usually go, and that vehicle can bring you there, pretty much like when Kyuss used to play in the Death Valley, what we dreamt about was playing in a rather inaccessible place.

Q: And where do you usually play? A: It depends on how high the volume can be! Usually we play in one of our places at a low volume, but when it becomes necessary to make some serious noise we just rush in a workshop. In a workshop? Yeah, we know the right people to do that.

Q: Before you were talking about Kyuss, what artists have influenced you? A: Kyuss were absolutely among those who had a leading role in influence what we do. It’s always a matter of attitude and, of course, of the way they sound. I could say that Sunn 0))) are perhaps the biggest influence, great people and deep, slow and low-tuned  sound. Dark Throne are another if not for the music, for sure for the attitude and for doing what they want and what they feel. Then I can’t forget the Melvins, perhaps the biggest example of indipendence in today’s music… and tons of other bands like Neurosis, Converge, Electric Wizard, Sleep, Winter and, what the hell, the first six Sabbath albums!!! (laughs)

Q: But you don’t sound like any of them, do you? A: No. (laughs) Maybe a bit like Sunn 0))), but it’s a bold statement, man.

Q: What do you think Unimog is all about, then? A: Damned if I knew! (laughs) We are just a couple of friends doing what we like. If I wanted to be pompous I’d say we are about freedom of experssion, darkness, heavy music, but that’s bullshit and I don’t believe it at all. We are just free and we can’t really take any kind of label on what we do. We don’t like to discuss about it, we don’t like to give explanations or anything, that’s it. This is not something made to get a contract or to please people, like it or not. If it is so… why are you answering now? Because you were so kind to ask for an interview and because I felt like it!!! You know, usual things (inclucing people and music) are so damn boring, and I haven’t answered an interview yet!!!

Q: Will you ever record anything? Will you ever play live? A: Uhm… I don’t know, how did you get to hear us? I won’t say that… that’s right, you get the point. As I said before we do what we feel like, we live the moment, you know? If we will be able to record anything satisfying and the moment is right, then it could happen (there might be some bootleg recordings, I don’t really know). And we even played live once. It was a kind of a festival and a friend of ours asked if we’d like to join in. He had to ask several times, really (smiles)… but finally we played and had a good feeling out of it, it was just bass and vocals but i guess we scared the shit out of someone! There was no plan, we just dropped in and play, we preferred the version with “vocals” so there was a bass only. Some said we sounded like an elephant, others, linstening to our rehearsals, said like a dinosaur, we appreciated that! Horns up!

Un sogno lungo un disco

La durata standard di un cd fu fissata a 74 minuti, in modo che potesse contenere tutta la nona sinfonia di Beethoven. Ci sono brani unici che durano un disco intero: è una scelta sicuramente dissennata e che, da subito, pone dei limiti alla fruibilità del disco in questione. Occorre dedicargli tempo ed attenzione, occorre non avere fretta e lasciare che il disco prosegua per la sua strada e si svolga, come un gomitolo di note, lungo tutta la sua durata. Stare fermi e lasciarsi trasportare.

E’ una sfida, è un atto quasi sconsiderato. Anche per chi lo incide necessita di coraggio e fiducia in se stessi. Fiducia nel fatto che chi ti ascolta avrà la concentrazione necessaria per andare fino in fondo e lasciarsi permeare dalle tue note. Fiducia nel fatto che quanto hai da dire sarà talmente importante da rendere difficile interrompere l’ascolto. Fiducia nel fatto che la tua casa discografica possa seguirti nella tua ambiziosa idea. Eppure, come tutte le cose fortemente ideali, ha un fascino che non si può raccontare a parole.

La casa discografica demolì gli Sleep quando vollero incidere un unico brano lungo quanto un disco intero e solo recentemente hanno avuto un giusto riconoscimento. I Boris fecero la medesima operazione con il bellissimo “Flood” che, comunque, riuscì perfettamente nell’intento di descrivere in note l’ incessante rifluire dei moti marini. Eppure non è di musica pesante che voglio parlare oggi, poiché il disco più toccante composto da un unica traccia è, senza dubbio, “Jesus’ Blood Never Failed Me Yet” di Gavin Bryars. L’autore della suite stava lavorando per un amico ad un documentario sulla vita dei senzatetto in determinate zone di Londra. Molti di loro, a testimonianza che il canto e la musica sollevino lo spirito anche in momenti difficili della vita, cantavano canzoni di ogni sorta, ma uno di essi cantò un brano religioso, la cui semplicità ed immediatezza però non impedì di penetrare nel cuore dell’autore delle musiche quando, una volta tornato a casa, si mise a riascoltare le registrazioni ed a improvvisarci sopra.

Ulteriori conferme della spiritualità del canto del senzatetto e della sua incredibile capacità intrinseca di generare commozione arrivarono quando, dimenticata la registrazione a suonare nello studio di registrazione mentre si era allontanato per un caffè, al ritorno trovò l’atmosfera dello studio molto cambiata: tutti si muovevano lentamente ed in silenzio e alcune delle persone stavano addirittura singhiozzando piano.

Decise di sfruttare le registrazioni creando un opportuno sottofondo al cantato. Questo fece giungere alla realizzazione di due registrazioni: la prima di 25 minuti uscita nel 1975 per l’etichetta di Brian Eno mentre la seconda di 74, uscita nel 1993 (per la point records), nella quale Tom Waits si offrì di unirsi idealmente al cantato del senzatetto essendo questo, secondo le sue dichiarazioni, uno dei suoi brani preferiti in senso assoluto. Il “cantante” non ebbe mai la possibilità di sapere cosa avesse prodotto il suo canto di poche e semplici parole, tuttavia ora la testimonianza del suo spirito rimane. Eccone un frammento:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=2CiukuHhJ4A]

Advaitic songs

OM fotografia di Aaron Farley

…Ed alla fine le corde vibrarono. E c’è poco da fare i nostalgici, c’è poco da rimpiangere il periodo in cui Om significava essenzialmente la sezione ritmica degli Sleep. Chris Hakius, il mago G della batteria come lo soprannominò un amico, se ne è andato (a fare il monaco?) e Al Cisneros ha proseguito nell’evoluzione della sua creatura. Inizialmente non è stato facile da digerire (come non amare il caldo minimalismo di un disco come “Conference Of The Birds” con quella gemma di “At Giza” che a mio giudizio rimane la loro composizione migliore) e la nostalgia per quell’allegro folletto dietro la batteria e per il loro passato ha pesato non poco. Tuttavia non si può essere nostalgici e rimpiangere il passato per sempre…

Il cataclisma è avvenuto, siamo tra le rovine, cominciamo a ricostruire nuovi piccoli habitat, ad avere nuove piccole speranze. E’ un lavoro piuttosto duro: ora come ora non c’è nessuna strada agevole che porti verso il futuro, ma noi ci aggiriamo o scavalchiamo gli ostacoli. Per quanti cieli ci siano caduti addosso dobbiamo vivere.

Troppo altisonante citare Lawrence? Sicuramente ma mi andava… quindi, dicevamo, Cisneros va avanti e rinuncia al minimalismo, spalancando le porte a nuovi strumenti (chitarre, archi, percussioni) a nuove suggestioni, ad un nuovo batterista (Emile Amos) e alla collaborazione con Steve Albini. Il nuovo disco può benissimo essere inteso come la continuazione di questo nuovo corso inaugurato da “God is good” ormai tre anni fa. E se inizialmente lo scetticismo si era impadronito di me, all’indomani della pubblicazione di “Advaitic songs”, posso dirmi conquistato anche da questo nuovo corso. Con questo nuovo lavoro le atmosfere si consolidano ed anche le innovazioni nel suono riescono a risultare coinvolgenti riuscendo, ora come in passato, ad avvolgere l’ascoltatore in una coltre mistico-sensoriale senza tempo. Sono sempre presenti elementi di contatto col passato come l’icona in copertina, il suono del basso di Cisneros (non più onnipresente, però), la predilezione per certi luoghi intrisi di spiritualità (Se in passato era Giza, poi fu Tebe ed ora il Sinai) per altri verti viene spalancata la porta a nuovi strumenti, il canto-mantra viene in parte abbandonato, la voce si fa maggiormente greve (forse effettata?) e la proposta dei due lascia intravedere sfumature raramente incontrate in passato.

Il cordone ombelicale non ancora reciso è avvertibile in “State of non-return” , ma altre tracce come “Gethsemane” e “Haqq al-Yaquin” presentano più chiaramente l’evoluzione nel suono degli OM da sempre, ed oggi più che mai, legata a doppio filo con la spiritualità, la coscienza di se stessi e la consapevolezza di un universo che pulsa e si illumina come un’aura in fiamme. Il viaggio non si è ancora estinto, la ricerca non è stata soddisfatta, il cammino si presenta, ancora una volta, solitario e crudele… eppure l’attenzione va a fissarsi sulle gambe che ritmicamente si animano, un passo dopo l’altro. Terribile ed affascinante se ci si sforza di ammetterlo, se ci si sforza di non sovraccaricarlo di zavorre inutili.

I nostri parteciperanno al Mi-To festival il 22 settembre al teatro colosseo a Torino (ed io conto di esserci!).

Advaitic Al

Al Cisneros e la sua invidiatissima strumentazione

Stavolta ci siamo, se i precedenti ascolti sono stati oltremodo soddisfacenti, adesso si fa sul serio: ieri mi è stato recapitato il nuovo doppio vinile degli OM, “Advaitic Songs”. Non sono ancora riuscito ad assimilarlo appieno però posso tranquillamente affermare che nutro da sempre una sorta di ammirazione per il bassista Al Cisneros, già al lavoro con i fondamentali Sleep, riesumati di recente. Al non è un virtuoso, ha degli evidenti punti di riferimento di Sabbathiana memoria eppure le sue note, che decontestualizzate potrebbero anche apparire piuttosto banali, trasmettono una passione ed una genuinità, per me quasi commovente.

Da appassionato irriducibile del quartetto di Birmingham posso tranquillamente affermare di aver ascoltato, nel tempo, quanti più gruppi ispirati al quartetto capitanato da Tony Iommi, ma in pochi mi sono sembrati sinceramente ispirati come gli Sleep, benchè abbiano esasperato per molti versi il verbo sabbathiano, scendendo ulteriormente di tono ed alzando anche il volume e la tensione delle proprie valvole incandescenti. Del triste destino del gruppo si è parlato e riparlato, però nessuno dei tra componenti si è dato per vinto: Matt Pike con gli High On Fire da una parte (autori del disco metal dell’anno, fino a questo momento) e Al Cisneros e Chris Hakius dall’altra.  Ed anche se quando Hakius era ancora della partita (ora voci di corridoio riportano che si sia ritirato a vita monastica, confermando che il trascendente ha sempre avuto voce in capitolo nella storia degli OM) il suono del suo gruppo risultava meravigliosamente più minimale e ipnotico, oggi continuano a produrre lavori assolutamente affascinanti, con l’aiuto del nuovo batterista Emile Amos e del (mai abbastanza elogiato) produttore Steve Albini, presente anche sull’ultimo lavoro in qualità di ingegnere del suono.

Il suono si è arricchito di sfaccettature strumentali aliene agli inizi, quando il potere evocativo del duo basso/batteria era risplendente, conglobando nuovi strumenti e sensazioni già dal precedente “God is good”, tuttavia la costante precipua del suono è l’ipnosi, la trance, la meditazione che ne deriva, con un Cisneros che mette in risalto esattamente l’aspetto altamente spirituale e mesmerico della sua proposta. Adesso l’attesa è finita, tra poco il vinile sarà sul piatto e quelle quattro corde vibreranno ancora…

Laura Filippi ART

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