All’inferno (e ritorno)

Poco tempo ha ho rivisto “Mediterraneo” e se nel 1991 o giù di lì mi piacque, nel 2019 ho pensato che il film di Salvatores oscar come miglior film straniero fosse invecchiato davvero male. Fa ancora più male pensare che vinse il premio lasciando a bocca asciutta un’opera di valore assoluto come “Lanterne rosse” che non vinse nulla. Per quanto possa valere un Oscar.

Alla fine del film mi colpì la frase “dedicato a tutti quelli che stanno scappando” al termine dei titoli di coda. Personalmente invece dedicherei qualcosa a tutti quelli che hanno il coraggio di tornare. E’ una tematica che mi ricorre spesso ultimamente e non ultima durante la lettura delle memorie di Lol Torhurst dei The Cure.

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Leggere biografie di componenti (o di gruppi) che ammiro è uno sport che pratico spesso. Parlo di sport perché questo mi sembra piuttosto che lettura propriamente intesa. Tra un romanzo ed un altro mi immergo nella lettura di libri che narrano della vita di alcuni dei miei eroi musicali. Quella con i The Cure è una storia che dura da lunghissimo tempo, forse dai primi anni delle superiori, quando ancora giravano le cassette. Il loro concerto, nel tour di “Wish”, fu uno dei primi che vidi non ancora ventenne: una piccola avventura al palasport di Torino, quando a causa di “ondate di folla”, caddi tra i piedi del pubblico e probabilmente non mi sarei più rialzato se qualcuno non mi avesse notato e mi avesse fatto spazio. Un’ esperienza che mi sarei aspettato di fare ai concerti di musica violenta più che a un loro concerto.

Comunque sapevo (e forse so) poco di loro, quindi il libro di Tolhurst è stato una bella esperienza consumata nel giro di un paio di settimane. A parte la parte sugli esordi ed un simpatico aneddoto sul nostro che piscia su una gamba di Billy Idol quando ancora era nei Generation X, narra dei suoi trascorsi nel gruppo e dei suoi problemi personali che lo hanno portato a rompere col gruppo prima dell’uscita di quel capolavoro che risponde al nome di “Disintegration”.

C’era di mezzo l’alcolismo, certo, forse anche l’abuso di sostanze, può darsi. Ma aveva dentro qualcosa che ha dovuto affrontare e che lo ha fatto deragliare in malo modo. Sono demoni che qualcuno di noi si porta dentro e che, ad un certo punto dobbiamo fronteggiare, demoni che possono far perdere il lume della ragione, demoni che spesso fanno in modo che distruggiamo tutto (o quasi) quel che ci circonda. Soprattutto le persone che più ci stanno a cuore. Una perdita di lucidità inaudita, della quale non siamo consapevoli, o comunque non abbastanza. Come spesso non siamo altresì consapevoli che si tratta di una fase, tragica a volte, che però è destinata, prima o poi, a finire.

La crisi può essere lunga, i ragionamenti estenuanti, gli sforzi tremendi. Ma nessuna crisi dura per sempre, sia che abbia una risoluzione tragica oppure no.

E se un giorno ci si sveglia senza quel macigno sul petto, se si riesce a vincere quella guerra coi propri demoni, non è una cosa da poco. Se, oltre a questo, si riesce  guardarsi indietro e fare ammenda o semplicemente trovare la pace con chi è stato coinvolto (o travolto) è un atto degno di ammirazione, comunque la si voglia vedere.

Tolhurst è riuscito a fare pace con Smith, hanno anche suonato ancora insieme. É solo una delle tante storie del genere che conosco e che, di solito, finiscono bene. Vale comunque la pena provarci, vale comunque la pena di non lasciare irrisolto il proprio passato. Una sorta di guarigione, anche spirituale. Ed è una delle (poche) cose per le quali vado fiero di me stesso.

Devo aver già scritto qualcosa su quanto significa per me questa canzone, comunque son due settimane che ascolto The Cure a ripetizione… e non capita spesso.

Libri nati tra la schiuma

Non leggo mai l’introduzione di un libro, non ne leggo mai nemmeno la postfazione, le recensioni e raramente ascolto le altrui opinioni, a volte posso raccogliere delle influenze esterne ed a volte no. Quando raccolgo delle influenze esterne capita che lo faccia traendo spunto dalla musica. Lessi, e diventò uno dei miei libri preferiti, “E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo per via di “One ” dei Metallica (ah, che tristezza i Metallica), oppure “La peste” di Camus grazie a  “Killing An Arab” dei Cure, “La Campana di vetro” di Sylvia Plath grazie agli High On Fire e così via.

Quando seppi che “Paranoid Android” dei Radiohead (che apprezzo solo a tratti) era ispirato a “Guida galattica per autostoppisti” mi avvicinai a questo libro di Douglas Adams e, cosa strana, ne lessi anche l’introduzione. Lì viene narrata anche la genesi del libro che è qualcosa di singolare…

L’autore si trova a girovagare, a forza di passaggi ricevuti a caso, per l’Europa all’inizio degli anni ’70. L’inglese non credo fosse diffuso ai livelli odierni e, dopo aver cercato inutilmente di ottenere informazioni dai passanti viennesi, decide che fosse il caso di ingurgitare un paio di birre. Due gösser a stomaco vuoto penso che possano fare un certo effetto.

E l’effetto fu che il nostro Douglas si assopì in un prato cittadino e, svegliandosi a notte fonda, aprì gli occhi e osservò le stelle. Pensò che se ci fosse stata una “Guida galattica per autostoppisti” sarebbe partito subito. E ne tirò fuori addirittura una serie radiofonica, un ciclo completo di libri  e credo un film. Potere della birra. Potere alla birra!

Goesser Bier
Goesser Bier

It’s friday I’m in love!

Blah blah blah

Adoro i colloqui di lavoro. L’ambiente asettico della reception delle ditte, l’aria svogliata delle centraliniste nel rispondere al telefono e passare l’interno desiderato. La filodiffusione ed i discorsi vacui intercorsi nelle interminabili attese. Stare li a cercare di mantenere la calma mentre l’intervistatore ha sicuramente di meglio da fare che sbrigarsi ad incontrare uno sconosciuto. La sensazione di sentirsi un corpo estraneo ed un temporaneo impegno (in)degno di svogliate attenzioni. Essere messo in difficoltà. Rispondere a tema e con competenza. Mostrare un orgoglio fittizio per l’impiego precedente e parlarne con passione anche se istigava a ben altro. Uhm, attendere un vano accenno all’interesse da parte dell’intervistatore, sì mi piace. Mi piacciono le strette di mano (ok dai, quelle molli o sudate meno) ed i sorrisi di convenienza ed anche le formule di rito tipo “le faremo sapere”. Ah vorrei farlo di lavoro: quello che si presenta ai colloqui. Che volete è venerdì e sono innamorato… dei colloqui di lavoro!

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Se vi viene il dubbio che vi stia prendendo in giro… Bravi, avete ragione!!!

We missed you hissed the lovecats…

25 Aprile: partigiani sfilano per le strade di Milano

E quest’ anno mi sono perso il post per il venticinqueaprile, una delle poche feste che io mi senta ancora di festeggiare… mi sono perso qualche giorno nel quale stare davanti al PC e scrivere su queste pagine.

Meglio così: ultimamente l’ispirazione latita. Ho sentito il nuovo “singolo” dei Black Sabbath e non mi ha deluso molto: è già un gran risultato. Peccato per la produzione, signor Rubin, mi spiace ma, anche se ha fatto un buon lavoro facendo passare per ascoltabile il biascicare di Ozzy, il suono della chitarra del riffmaster non mi piace proprio… suona decisamente troppo pulito e moderno! Non si sente affatto la puzza di valvole, al punto che sembra di più una canzone degli Heaven And Hell che dei Black Sabbath, non so se mi spiego. Comunque i tempi sono proprio andati ed è già una vittoria che la canzone non sia un obbrobrio inascoltabile!

Andy Warhol ed io
Andy Warhol ed io

Ho guadagnato quattro giorni a zonzo lontano da casa e una visita al museo del 900 a Milano, sulle stesse vie percorse, a suo tempo, dai personaggi immortalati nella fotografia di cui sopra. Alcune opere le avevo già viste alla defunta CIMAC, però bisogna dire che, in ambito museale, credo che il museo del 900 offra il miglior rapporto qualità/prezzo possibile, avendoci passato dentro tre ore e mezza filate, senza soffermarmi sulle opere in maniera ossessiva, come mi è capitato di fare in passato. C’è veramente una collezione invidiabile ed affascinante, sempre se vi piace il periodo. Io sono rimasto maggiormente impressionato da Boccioni, Fontana (la sala dedicata è spettacolare!) e Modigliani, dal gruppo degli opticals e dell’arte povera, ma anche dai meno conosciuti Luigi Russolo o Emilio Scanavino. Poi c’erano anche, nella sezione mostre temporanee, alcune opere di Andy Warhol, che non guasta affatto… nonostante non mi faccia impazzire.

Schema originale di un Intonarumori di Luigi Russolo

Parlando di Russolo poi ho fatto una scoperta interessante: costui, pittore e futurista, fu colui che, firmato il manifesto “l’arte dei rumori”,  concepì per primo l’ idea di “noise music” e non si limitò a questo: inventò anche uno strumento denominato intonarumori: un apparecchio meccanico capace di sviluppare diverse tipologie di rumore che poi andranno sotto al nome di musica futuristica. Ovviamente più di un personaggio di mia conoscenza gli deve qualcosa…

Poi ci si risveglia al lunedì con una settimana che incomincia all’orizzonte, la pioggia che martella il suolo (e che io ringrazio altrimenti a quest’ora schiatterei già dal caldo) e una sensazione strana: come se ti mancasse qualcosa… ah e la voglia di ascoltare i Cure.

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I gatti si intrufolano ovunque…

E’ nota la curiosità felina, curiosità che, a volte, come ricorda il proverbio, può condurre a tragiche conseguenze. E’ tuttavia molto meglio quando la loro curiosità li spinge fino a… entrare in alcune delle copertine più famose della storia del rock: succede solo su The Kitten Covers!

Ecco alcuni esempi:

Miskits: Legacy Of Felinity
The Mewges (I wanna be your cat!)
The Mewges (I wanna be your cat!)
Cat Flag
Black Tabbath: Purranoid
The Purr: Felinization

PJ Harvey: “Fountain”

PJ Harvey

Vi parlerò della ragazza… (Nick Cave, From Her To Eternity)

Non basterà una fontana di lacrime a lavarti via da me. Non basterà una cascata di sangue ad annegare il tuo ricordo. Sappilo. Su una collina di alberi brulli e nodosi fumo una sigaretta avvelenata dietro l’altra per bruciarmi la gola, perché non c’è un’altra ragazza con cui io voglia parlare. E non c’è un altra ragazza che abbia lasciato tanto silenzio dietro di se, dentro di me. Se potessi fisicamente avvolgermi su me stesso aspetterei davvero che foglie e neve mi ricoprano nel silenzio, nell’indifferenza. Ma so che mi verranno a cercare i venti e scoperchieranno tutto. Spazzeranno via gli alberi e la terra che ci hanno fatto da testimoni. Urleranno tra i tronchi sradicati. Ed io mi guarderò dall’alto indifeso e solo come non pensavo di poter essere mai.

In seguito giunge l’alba.

La ragazza non è mai stata là, è sempre lo stesso… e correre in direzione del nulla ancora ed ancora ed ancora ed ancora… (The Cure, A Forest)

E’ la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde che io abbia mai conosciuto (Nick Cave)

Stand under
Fountain
Cool skin,
Washed clean
Wash him from me

Along comes the wind
A big bone shaker
Blows off my clothes
Completely naked
What to do
When everything’s
Left you

Out of the blue
It is he
Vision to me
Bearing leaves
Petals green
Covers me
In all my shame

Hand in hand
He’s my big man
Stays with me
Some forty days
No words
Then goes away
I cry again

On my hill I wait for wind
And on my hill I wait for wind

Tre ragazzi immaginari (più uno)

Sottotitolo: Tentativo di discorso su un esordio mirabile in forma di pseudo recensione.

Quel grandioso decennio noto all’umanità come anni ’70 sta volgendo al termine, il mondo è stato appena sconvolto da quel fenomeno dissacrante e (positivamente, forse) distruttivo come il punk. Alcune grandi bands del passato sono in grave crisi di identità, pensate ai Black Sabbath e ai Led Zeppelin, anche se qualcuno si avvantaggerà clamorosamente del dissidio per prendere una boccata d’aria e far uscire addirittura un concept album, assolutamente distante dal minimalismo imperante, che entrerà di diritto nella storia del rock e della musica stessa, sto ovviamente parlando del memorabile “The Wall” dei Pink Floyd, cui seguirà anche il famoso film di Alan Parker con Bob Geldorf.

E il famigerato punk che fa? Essenzialmente si trova davanti ad un bivio, da una parte la frangia più estrema, a tratti nichilista e a tratti consapevole, sta per inasprire ulteriormente i toni con l’Hard Core (gruppi come i Discharge, i Crass, i Black Flag, Minor Threat o Dead Kennedys), dall’altra quella intimista ed introspettiva che diventerà meglio nota con il nome Post-Punk o New Wave, con l’evolversi del movimento. I Cure fanno parte di questo movimento, sono attivi a partire dal 1976, ma il primo singolo non esce prima del 1978 e il primo long playing esce nel maggio del 1979.

Prima di entrare nello specifico, anche se è stato già detto, occorre specificare che, come già precisato in precedenza, esistono due versioni del disco, quella a sfondo rosa è quella originale, quella col collage bruciacchiato è quella americana che differisce nella scaletta includendo anche alcuni brani usciti nel regno unito come singoli nello stesso periodo. Personalmente preferisco la seconda versione, anche perchè i singoli inclusi sono brani di assoluto rispetto come “Killing An Arab”,”Jumping Someone Else’s Train”o “Boys Don’t Cry” non credo che valgano una deboluccia cover di Jimi Hendrix (“Foxy Lady”) e nemmeno gli altri brani presenti nell’edizione originale e non in quella successiva che è quella che tratterò qui e che è uscita l’anno dopo (1980). Tra l’altro, volendo fare i sofisti, le versioni su CD e su LP differiscono ancora alla traccia n°5: il CD presenta “So What”, un divertissement il cui testo cita alcune pubblicità, mentre l’ LP include “Object”.

Però sarà il caso di parlare della musica… dovendo descrivere il disco mi vengono subito in mente alcuni termini come urgente, adolescenziale, passionale, istintivo, intenso e coinvolgente. E’ un esordio che lascia il segno, magari è ancora immaturo nel suono, ma è un fatto assolutamente positivo, non ci hanno pensato troppo sopra, non avevano tempo, non avevano soldi e avevano poca esperienza… tuttavia avevano una gran voglia di esprimersi e l’urgenza di doverlo fare e di confrontarsi col mondo. Questo spesso fa produrre dei dischi molto importanti ed è assolutamente questo il caso, sarà anche immaturo ed adolescenziale ma lo è in un modo splendido, come lo sono pellicole come “Paranoid Park” o “Fucking Åmål”, poichè hanno, nei loro personaggi o nell’atmosfera del disco, al contempo il fascino di chi fa qualcosa per la prima volta e l’incoscienza che porta con sè il non avere un’idea precisa di cosa si sta per affrontare. E poi si sente la passione grondare dalle note, senza il bisogno di doversi confrontare con il passato o atteggiarsi in una qualche maniera. Questo disco E’ l’ espressione del gruppo, del suo nucleo portante, dal quale prenderà vita molto del suono che li caratterizzerà nel futuro.

All’irruenza nichilistica del punk si è sostituita a tratti l’introspezione (“Another Day”) oppure il sentimentalismo incendiario di “Fire In Cairo”, quello in preda alla paranoia di “10:15”, il terrore di un rientro a casa in “Subway Song”, “il tentativo di realizzare una canzone pop anni ’60” come in “Boys Don’t Cry” o, addirittura, le citazioni colte come in “Killing An Arab” che fece alzare un certo polverone all’epoca quando nessuno colse i riferimenti letterari (“Lo Straniero” di Albert Camus nello specifico) e tutti pensarono a un testo xenofobo, cosa che il gruppo smentì clamorosamente devolvendo in beneficenza i proventi della vendita del singolo. Del punk restano il minimalismo in produzione (tuttavia potrebbe derivare più facilmente dalla carenza di fondi) e gli arrangiamenti taglienti. La loro evoluzione è assolutamente tangibile e, per giunta, riuscita: un incredibile punto di partenza per una carriera, non priva di trasformismo (anche considerando i continui cambi di formazione che li caratterizzeranno fin dall’inizio con l’abbandono del bassista Michael Dempsey in favore di Simon Gallup -e del suo thunderbird!- che poi diventerà uno dei pilastri del gruppo negli anni) ma anche di uno sfoggio di talento difficilmente riscontrabile in altre compagini.

Una piccola curiosità deriva dal fatto che il titolo venne poi ripreso nell’omonimo film anti-omofobico del 1999 con Hilary Swank (che per questa interpretazione vinse anche l’Oscar!) a regia di Kimberly Peirce…

It doesn’t matter if I die…

Sottotitolo: Deliberata ricerca del linciaggio, tramite recensione (forse) ipercritica di “Pornography” dei Cure.

I Cure sono stati sicuramente tra i primi gruppi che io abbia mai ascoltato, si tratta di tantissimo tempo fa, avevo un amico assolutamente gotico negli ascolti che finì per farmi appassionare alla loro musica, fino a diventarne un fan piuttosto accanito, a vederli dal vivo due volte (Torino, 1992 e Milano, 2000), ad essere stato uno dei primi nella zona a comprare il mai troppo celebrato “Disintegration” pressando da vicino il malcapitato rivenditore di turno che fu cotretto a procurarsene una copia per liberarsi del sottoscritto… fa molto provinciale e sfigato ma vero. “Subway song” fu una delle canzoni che mi terrorizzarono maggiormente con quel suo urlo agghiacciante nel finale (la prima volta la ascoltai al buio di notte…), non credo di essermi mai liberato dalla ragnatela magnetica intessuta dal dittico “The funeral party”/”All cats are grey”, dalla solitudine angosciante e sempiterna di “A forest”, dalla amorosa paranoia urticante di “10:15 On a saturday night”, dalla consapevolezza funerea di “How beautiful you are” oppure chessò da “To wish impossible things”, “Play for today” o “Push”… però…

C’è un però… quando mi chiedono di esprimermi circa i loro dischi non mi stanco di citare la magnificenza post punk della triade iniziale “Three imaginary boys”/ “Seventeen seconds”/ “Faith” (con quest’ ultimo ho sempre identificato il loro disco migliore), oppure la deriva pop di “The head on the door”, il catastrofismo lirico di “Disintegration” e il ritorno alle chitarre di “Wish”. Raramente cito “Pornography” e spesso rischio il disprezzo per questo e non ho mai capito il perchè. In tanti (troppi?) lo considerano il capolavoro della band albionica, a me non è che non piaccia ma… non lo so, mi sembra “minore” in una qualche misura ai dischi citati in precedenza… (pausa per lasciare teampo al lettore di sfogarsi…)

Sarà il fatto che le liriche di Sir Robert Smith si fanno ancora più tetre, il fatto che cominciano a diventare gotici sul serio con questo disco, forando l’ozono con le lacche nei capelli o vestendosi completamentedi nero… qualche strana forma di fascino di “Pornography” colpisce molti e a me prende solo di striscio chissà come mai…. Non che il disco non mi piaccia, è sicuro che sia memorabile per molti motivi, tuttavia a me sembra il classico disco di transizione che, come tale, soffre delle due anime del gruppo che si stanno scontrando. La prima è chiaramente quella post punk dei primi dischi, la seconda è la deriva new wave che fa capolino in questo disco per trasformarsi (come splendidamente anticipato dal singolo contemporaneo “Charlotte sometimes”) già dal successivo in una mutazione pop che si protrarrà protarsi nel disgraziato (almeno musicalmente) decennio altrimenti noto come anni ’80. La riprova si sente soprattutto a livello musicale quando fanno capolino soluzioni inusuali (fino ad allora) come il tribalismo di “The hanging garden”, la distorsione surreale di “One hundred years”, per tacere del rimescolamento esistenziale della title-track… tutto questo però non riesce a farmi elevare l’album a capolavoro assoluto nemmeno se considero la canzone a mio parere meglio riuscita ovverosia “Cold” (ok, magari perchè è quella che ricorda di più le atmosfere di “Faith”).

A volte questo stato di sospensione proprio di quando un gruppo rimane in bilico tra diversi stili più o meno consolidati produce capolavori, eppure non mi sembra questo il caso: non ha l’urgenza di “Three imaginary boys”, il minimalismo di “Seventeen seconds”, la tetra ed ineluttabile presa di coscienza di “Faith”… la vellutata disperazione di “Disintegration” e nemmeno l’appeal pop di “The head on the door” o “Kiss me kiss me kiss me”, se proprio la vogliamo dire tutta. Secondo me il suo fascino sta proprio nel tormento lancinante del cantante (che non sta affatto vivendo un momento facile) e nella sua strenua ricerca interiore che si concretizza in una mutazione stilistica e ricerca di sonorità, che però, non avendo ancora preso una direzione concreta, ottiene un risultato mirabile, ma alla lunga stentato, per quanto il mio parere possa valere.

Any Cure?

I would say I’m sorry
If I thought that it would change your mind
But I know that this time
I have said too much
Been too unkind

I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try and laugh about it
Hiding the tears in my eyes
Because boys don’t cry
Boys don’t cry

I would break down at your feet
And beg forgiveness
Plead with you
But I know that it’s too late
And now there’s nothing I can do

So I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try to laugh about it
Hiding the tears in my eyes
Because boys don’t cry

I would tell you
That I loved you
If I thought that you would stay
But I know that it’s no use
That you’ve already
Gone away

Misjudged your limit
Pushed you too far
Took you for granted
I thought that you needed me more

Now I would do most anything
To get you back by my side
But I just keep on laughing
Hiding the tears in my eyes
Because boys don’t cry
Boys don’t cry
Boys don’t cry

[L’idea che sta dietro al video mi è sempre piaciuta però il Robert Smith piccolo ha una les paul e quello vero una stratocaster, inoltre il Simon Gallup piccolo ha suona una chitarra anzichè un basso ma, dopotutto, son ragazzi…]

Zeitgeist

(La vita è una sorta di malattia la cui unica, vera, cura è inevitabilmente troppo drastica e definitiva.)

 Sorridi domani sarà peggio.

 Piangi forte se non ti sente.

 Svegliati nel cuore della notte con il cuore in gola.

 Inseguito dalla paranoia.

 Braccato dalla solitudine.

 Squarciato da un urlo impossibile da eludere.

Trafitto dal passato.

Trapassato dal futuro.

Svilito dal silenzio.

Umilitato dalla forma.

E, comunque, immune all’ira.

Ma non all’autodafè.

Gravemente investito dall’angoscia.

Sconfitto dagli eventi.

Un tuffo dove il buio è più nero, niente di più.

Ma che disperazione nasce dalla troppa attenzione.

Non era un gioco, nemmeno un fuoco.

Spogliato della dignità di esistere.

O di essere mai esistito.

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