Si può dire quello che si vuole della iconica figura dell’ Iguana di Detrot, James Osterberg, tranne che a 72 anni rappresenti il passato della musica. L’ ultimo disco uscito a suo nome è di pochi giorni fa e si intitola “Free”. Libero. Non esiste un altro artista dal percorso uguale al suo. Non esiste nessun altro cantante che possa dire di aver esporato così tanti aspetti del suo io. Dalla veemenza incontrollata ed incontrollabile degli esordi alla fuga creativa berlinese, dal rock’n’roll fisico e possente di dischi come “Instict” alla ricercatezza di “Avenue B”.
Senza menzionare aspetti non propriamente legati alla musica come le collaborazioni con Jim Jarmusch (esilarante il ruolo in “Dead man”, quasi surreale il dialogo con Tom Waits in “Coffee and cigarettes”: una cosa che avresti pagato parecchio per poter vedere dal vivo oppure nel recente “I morti non muoiono”), senza tralasciare “Restare vivi” una sorta di toccante esperimento cinematografico con lo scrittore Michel Houllenbecq circa il male di vivere.
L’Iguana è vivo, lunga vita all’Iguana, L’Iguana è libero, libertà per l’Iguana.
Il ricordo personale che ho legato a Iggy è senz’altro il concerto gratuito al parco della pellerina a Torino nel 2004. Un parco pieno a dismisura. Prima degli apriprista Dirty Americans, dei quali non credo qualcuno si ricordi ancora, parte la versione di Hurt di Johnny Cash e nonostante il marasma, rimango pietrificato ad ascoltarla in un misto di stupore e reverenza, visto che probabilmente ero l’unico a non sapere che l’avesse rifatta (credo che lo stesso Trent Reznor espresse sentimenti simili circa il rifacimento). Poi, giustamente introdotti da “Kick out the jams” (calciate fuori le inibizioni!), entrano Mike Watt (che ancora sembrava frastornato nel sostituire lo sfortunato Dave Alexander al basso), i due fratelli Asheton e Iggy. Un’ora circa di delirio ed estasi. Moltissimi estratti dall’omonimo primo album, da “Fun house”, nessuno da “Raw Power”(!!!) e qualcosa da “Skull ring”… ma al centro della scena un 57enne (allora) che salta, corre e finisce inesorabilmente per “scoparsi” una montagna di amplificatori, nonstante la convalescenza per un’operazione all’anca che lo rendeva ancora un po’ claudicante. Animale da palco, artista allo sbando, rocker per antonomasia. Molte altre cose che è difficile esprimere a parole. Iggy ha suonato e collaborato con chiunque e, tutto sommato, è rimasto sempre un artista vicino al suo pubblico e autentico.
“Post pop depression” doveva forse essere il suo ultimo disco, un lavoro misinterpretato dai più che si aspettavano fuoco e fiamme dalla collaborazione con Josh Homme: decisamente un artista, quest’ultimo, che sta vivendo una stagione poco felice dal punto di vista artistico, nonostante sia osannato da un certo pubblico alternativo ma massificato che probabilmente lo avrebbe fatto inorridire una ventina di anni fa. Eppure ne uscì un bell’album che invece di pescare nella furia grezza degli Stooges (cosa che i più si aspettavano), si rifaceva esplicitamente (un titolo come “German days” dovrebbe essere sufficientemente eloquente per tutti) al periodo della felice unione artistca con David Bowie riuscendo nel difficile compito di rianimarne lo spirito. “Free” è diverso: non pesca dal passato ma getta uno sguardo sereno e fresco sul presente, sul fatto che, dopo una vita dedita al rock, il nostro si è sgravato dai fantasmi e si libera nell’etere come un fiato di tromba, come un urlo o come un vibrare di corda… come qualcosa che spicca il volo. Per sua stessa ammissione è un disco non cercato: l’artista l’ha “lasciato succedere” grazie alla collaborazione con nuovi musicisti (Leron Thomas e Noveller) che hanno offerto un ulteriore cambio di prospettiva. Tutto in questo disco sembra molto disinibito e leggero, anche quando il discorso si fa elevato declamando Dylan Thomas. Un’opera risucita e scevra da ancoraggi gravitazionali. Ancora un’ altra sfumatura iridescente della lucida pelle di rettile dell’Iguana.