Back To Babylonia

Per molti anni parlare di Biella ha significato parlare di industrie tessili, poi è arrivato il famigerato mobilificio Aiazzone e quidi il nulla o quasi, se si escludono Pistoletto e la serie di Zerocalcare. Io ho la speranza che la città nei pressi della quale vivo venga ricordata dagli appassionati di musica per quel locale che a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio dei duemila ha significato così tanto per i biellesi e non solo: Il Babylonia. Il primo contatto col locale l’ho avuto tramite Aldo, quello che poi sarebbe diventato il padrone del locale. Nel suo negozio di dischi (prima Fragole e panna e poi Paper moon, resiste ancora con un’altra gestione) mi disse che voleva aprire un club per la musica dal vivo che fosse un po’ esclusivo e che per accedervi sarebbe stato il caso di fare la tessera dal costo, per me all’ epoca non irrisorio, di 20000 lire.

Non se ne fece nulla per qualche mese, false partenze, situazioni poco chiare e un concerto fantasma dei Radiohead che, alla fine, non ho mai capito se abbiano o meno suonato nel locale. Alla fine però riuscì a partire e fu un punto di riferimento costante almeno per il nord-nord ovest del paese. Il primo concerto che ci vidi fu Cyco Miko e fu pazzesco: prima loro, poi gli Infectious Grooves e, in fine una jam sesion finale con 6 brani dal primo disco dei Suicidal Tendencies. Alla fine nemmeno mi ricordavo più delle 20000 lire iniziali finite chissà dove. Continuò in questo modo per un decennio circa, portando a pochi chilometri da casa gruppi che prima, se eri fortunato, passavano a Torino o Milano. Fu un’epoca gloriosa, potevi andarci al pomeriggio e salutare i gruppi prima del soundcheck, entrare dopo una certa ora quando Aldo apriva i cancelli oppure passare e stare fuori a chiacchierare con qualcuno con un’opportuna dose di birra nel bagagliaio.

Sabato scorso, presso il nuovo Hydro, sempre a Biella, ha avuto luogo Back to Babylonia: una giornata per ricordare il locale con interviste a vecchi frequentatori (tra cui il sottoscritto) e concerto con dj set in serata. A dire la verità il progetto di raccogliere materiale sui concerti (foto, video, registrazioni, locandine etc…) era già partito molto prima, poi è arrivata la pandemia e il progetto si era un po’ arenato, ora pare stia ripartendo e speriamo che porti a un giusto ricordo di quello che è stato e di ciò che ha significato il locale .

Non è solo una questione di nostalgia, è proprio una celebrazione di un posto che, a ripensarci, sembra incredibile sia esistito veramente. Risedersi sugli stessi divanetti per farsi intervistare (chissà come li avranno recuperati), non lo nascondo, mi ha fatto effetto, essendo fiducioso che, nel frattempo, qualsiasi residuo, di qualsiasi tipo, fosse abbondantemente defunto.

Nell’intervista varie domande e una simil conversazione con altri due ex-frequentatori del luogo, uno addirittura giunto da Torino, nella massima naturalezza. Poi l’intervista individuale con la classica domanda: “quali sono stati i tre migliori concerti visti al Baby?” sui primi due non ho avuto dubbi. I Neurosis furono stupefacenti con le proiezioni,  i loro brani apocalittici (credo che lì li vidi nel tour di “Times of Grace”) e la sensazione che fossero in grado di polverizzare chiunque dal vivo, poi i My Dying Bride (era il tour di “Like gods of the sun”) con i quali ci intrattenemmo un intero sabato pomeriggio e il terzo… nell’indecisione ho detto Voivod, ma col senno di poi direi sicuramente Queens of the stone age o Unida. Senza parlare del clamoroso exploit dei CSI che poi finirono per suonare al palasport per la troppa richiesta durante il tour di “Tabula rasa elettrificata”.

In serata mi sento di parlare solo del fantastico concerto dei Sabbia, il resto me lo sono un po’ perso salutando varia gente e gravitando attorno al bar. Però i Sabbia hanno dato vita a un concerto veramente speciale, come se non bastasse il disco (“Domomentál”, di cui ho già disquisito) che si è già inserito prepotentemente fra i miei preferiti per l’anno in corso, dal vivo sono stati qualcosa di assolutamente coinvolgente: un’ora circa di magia onirica, un’ atmosfera desertica e torrida, qualcosa che ti colpisce con  quella fisicità in più che solo un concerto dal vivo finalmente intenso può regalare, forse l’unica cosa impossibile da trasportare completamente su disco.

Quasi vent’anni dopo è un piacere constatare che abbiamo ancora qualche motivo per essere fieri della terra che ci ospita e questi sono i Sabbia e vederli dal vivo ha sicuramente consolidato quest’impressione. Il problema è che mi riesce difficile parlarne perché l’atmosfera che creano rende ardua qualsiasi razionalizzazione o descrizione. Come diceva Battiato “È bellissimo perdersi in quest’incantesimo” e quindi vi lascio tre dei loro brani. Il consiglio è quello di lasciarsi trasportare, fidatevi.

Stormo live: Blah Blah Torino 14/04/2023

Aspettavo questo concerto da tanto tempo, da qualche anno aspettavo che qualcuno facesse giustizia ad un gruppo che è fra i migliori d’Italia al momento, gli STORMO. Mi sono già più volte sperticato in lodi nei loro confronti, quindi non starò a ripetervi quanto io li stimi musicalmente (e anche come persone, visto che ci siamo scambiati qualche messaggio nel tempo) il punto è che però dal vivo necessitano di un fonico che li sappia valorizzare e di un locale con un’acustica decente, altrimenti quello che arriva è un suono confuso che non permette di apprezzare nulla dei loro sforzi.

Sembra incredibile eppure è vero, tanto più la musica è complessa, sfaccettata e a tratti caotica, tanto più c’è necessità di pulizia dei suoni. Il marchio di fabbrica dei feltrini infatti è un suono assolutamente simile ad una tempesta sonora, per quanto incredibilmente ben progettata. Rendere loro giustizia dovrebbe essere un obbligo (e probabilmente una sfida) per qualunque fonico abbia un minimo di passione per quello che fa aldilà dei gusti musicali.

Finalmente Giulio Favero, nella loro ultima fatica in studio di cui ho già parlato, era riuscito a farli suonare al meglio: finalmente le parole giungevano nitide all’ ascoltatore e ogni strumento si era dimostrato in grado di ritagliarsi un proprio spazio, anche nei momenti maggiormente frenetici. Insomma quel disco suona come dovrebbe suonare, è una vera e propria bomba. Paradossalmente mi ero già reso conto della cosa in ambito molto più estremo ascoltando i Nasum, li preferisco in maniera netta ai capisaldi del genere proprio in virtù del suono pulito dei loro dischi: sembra quasi un’ eresia e ho dovuto rileggere due volte la frase ma devo ammetterlo, soprattutto con me stesso, è proprio così. Riuscire a decfrare distintamente il lavoro di ogni musicista dona al disco un valore aggiunto immenso. Per quanto mi piacciano il lo-fi e i suoni dannatamente sporchi (come fai a non amare il suono sporco dei Misfits, dei Darkthrone e anche dei Napalm Death) in questo ambito generano solo confusione.

Tutto questo per dire che, dopo averli visti per la prima volta a Biella assieme agli O, volevo sentire un bel concerto degli STORMO e uscirne soddisfatto. A Biella (e mi rincresce dirlo perché l’Hydro era veramente un bel palco e sta ritornando) era stato un completo disastro, suoni inintelligibili e confusi, non una nota nitida per i due gruppi. Probabilmente nessuno dei fonici residenti era in grado di gestire suoni così estremi, fatto sta che fu una delusione anche se non per colpa loro: li vedevi suonare e intuivi… ma quello che arrivava era un suono informe e tremendo.

Per questo confidavo nel Blah Blah, anche se, vista la data degli Unida potevo avere dei seri dubbi, che purtroppo sono diventati reali. Gli Infall in apertura suonano un genere diverso, non era così necessario che i suoni fossero cristallini. Una sorta di post HC acido, sulla falsariga dei Neurosis più estremi e meno rifiniti. Del grezzume nel suono ci stava tutto. Ma gli STORMO sono un’altra cosa e spero che risulti lampante a chiunque abbia ascoltato la loro prova su disco. In sostanza la resa sonora è appena superiore a quella di Biella e nonostante sia assolutamente chiaro che loro siano bravissimi, e in particolar modo il batterista Stefano, quello che si sente permette appena di riconoscere i brani. D’altronde il posto è poco più di un corridoio certo, ma quando poi circolano delle foto che ritraggono il PC dei fonici sintonizzato su “quattro ristoranti” credo che non ci sia bisogno di aggiungere altro. Come dice la canzone “Parto (per casa) con il pianto nel cuor a Torino ho lasciato l’amor”… o qualcosa del genere.

Il report arriva con colpevole ritardo ma divento davvero triste a pensarci…

Qui

A questo punto datemi pure del marchettaro ma mi tocca parlare ancora della Kono dischi. Dopo i Sabbia che, tra l’altro, hanno pure visti riconosciuti i loro sforzi da Rumore che li ha premiati come disco del mese italiano, è da poco uscito il nuovo lavoro dei Crushed Curcuma, che mette altra carne al fuoco per il collettivo biellese.

Crushed Curcuma

Le coordinate sono formalmente le stesse di quattro anni fa: psichedelia sorretta dall’elettronica di Nicolò Tescari e veicolata attraverso il sax di Mattia Rodighiero, se non fosse che, nel frattempo, gli orizzonti si sono ampliati attraverso l’apporto dei musicisti esterni che si sono prodigati a dilatare la loro visione nel nuovo disco, che per questo risulta più articolato e con una struttura più dettagliata che in passato. Come se con il primo lavoro avessero voluto presentarsi e con il secondo ampliare il discorso, aggiungendo e definendo sfumature.

Il nuovo lavoro nasce da un contesto intimo per poi aprirsi all’esterno attraverso una proposta musicale che è un vero e proprio movimento contemplativo e scenografico. Un disco che andrebbe ascoltato tutto di fila, dove la suddivisione in tracce risulta alla fine quasi un atto formale, spezzando in quattro un discorso che potrebbe tranquillamente filare dall’inizio alla fine. È un gioco di contrasti: l’elettronica parte in maniera quasi marziale dando corpo a un’impalcatura solida sulla quale si muove tutto il resto, un onirico ed arioso percorso dettato dagli altri strumenti. Come una sorta di meditazione guidata all’interno della quale permangono fascinazioni di stampo etnico/tribale orientate verso paesi lontani (mi viene in mente il medio oriente ma ammetto la mia ignoranza) già presenti nel passato e qui ulteriormente ampliate. Solo l’ultima traccia rompe di netto con le precedenti tre, dopo un’esortazione iniziale (“Dai”) e un colpo di tosse parte in modo greve e teso quasi fosse una coda scura, una dipartita dell’ascoltatore che fino a quel momento aveva viaggiato sicuro nella musica. Il viaggio si compie, si torna alla realtà e si arriva ultimi a cena.

“Qui” indica proprio il Nostudiorec. di Cerreto Castello (Biella), luogo simbolo della Kono Dischi e studio di registrazione/sala prove per i musicisti del collettivo. Un luogo tenuto in piedi alla passione, uno spazio condiviso dove coltivare una visione musicale e artistica in un ambito creativo aperto, laddove invece “Tinval” si riferiva alla vecchia sala prove del gruppo ricavata all’interno dei locali di una ex-tintoria.

I luoghi rivestono una volta di più un ruolo significativo nella musica dei Crushed Curcuma, sia nella loro dimensione materiale (lo studio di registrazione) che in quella spirituale (la dimensione extra-corporea indotta dalle loro sonorità), i luoghi come identità e come appartenenza. I luoghi soprattutto come punti di partenza per un viaggio che si prefigge come scopo non tanto il raggiungimento della meta, quanto la bellezza dei panorami incontrati lungo il cammino.

Sabbia: Domomentál

A prima vista sembrerebbe una sorta di scacchiera di backgammon surreale, in realtà è la porta di uno studio di registrazione tirato su da un gruppo di amici consociati che ha sede in un paesino in pianura, vicino a Biella. In quel posto hanno trovato casa alcune fra le realtà musicali più interessanti del biellese che fanno capo ad un’ etichetta, la Kono Dischi, lontana da logiche tossiche che troppo spesso dominano il mondo dei suoni.

Qui è stato concepito uno dei più bei dischi mai usciti nel Biellese, ovvero “Domomentál” dei Sabbia. Preceduto da un brano singolo altrettanto interessante intitolato “Astronomi domani”, il disco dei Sabbia sposta ancora avanti il discorso fin qui intrapreso dal gruppo. Se finora si trattava di musica strumentale maggiormente concepita con l’intento di porre attenzione al singolo brano, inteso come unità a sé adesso tutto il disco fluisce abbattendo le barriere tra i singoli brani, abbracciando, molto più che in passato, l’idea di diventare una colonna sonora: psichedelica, visionaria e crepuscolare.

Uno di quei crepuscoli che non ti aggrediscono con l’oscurità immediata, uno di quelli dove il tempo si dilata e riesci a percepire il cambiare della luce. Il pregio del nuovo lavoro dei Sabbia è proprio quello di predisporre l’animo all’osservazione, al lasciarsi attraversare dalla musica, a cogliere i particolari di ciò che ti circonda, particolari troppo spesso dati per scontati per consuetudine. È come un flusso di coscienza sonoro improntato alla contemplazione: della musica e di tutto quello che ci circonda. È uno stato di grazia e non è poco.

Durante lo scorrere del disco echeggiano alcuni accostamenti come Calibro 35, Zu e i passaggi meno western delle colonne sonore del maestro Morricone. Ma sono attimi, connessioni stabilite perché siamo costantemente abituati a cercare punti di riferimento in ogni cosa che ascoltiamo… in realtà non c’è nessun rimando troppo esplicito, solo grande musica, fatta da ragazzi appassionati e partecipi di quello che fanno.

La passione è un altro punto cardine di questo lavoro. Passione che serpeggia sinuosa tra le note, svelando atmosfere e sensazioni, passione che ha portato alla formazione di un collettivo che condivide esperienze e suoni. Esperienze che li hanno portati fino a dove sono ora, ovvero fino ad incidere un disco per chi vuole perdersi in un panorama cangiante ed ipnotico, per poi alzare lo sguardo e ammirare le stelle, come potreste vederle nel deserto: senza interferenze.

Siete ancora qui a leggere? Il disco è in Name Your Price su Bandcamp!

STORMO: Endocannibalismo

Di solito quando esce un potenziale disco dell’anno già a febbraio me ne esco con delle frasi di pseudo-circostanza come “sarà difficile che qualcuno possa fare meglio quest’anno” oppure “un serio candidato alla prima posizione nel classificone di fine anno” che per me equivalgono a degli standard oramai svuotati di significato come riff al fulmicotone o sezione ritmica tellurica tanto cari a chiunque scriva di metal e affini.

Questa volta no. Potrei anche smettere di scrivere su quello che uscirà quest’anno perché il 10 febbraio abbiamo già un vincitore che si chiama “Endocannibalismo”, il nuovo disco degli STORMO scritto maiuscolo. Perché questa è una prova maiuscola, un disco eccellente, una band vera fatta da belle persone prima che da musicisti. Se mi dite che sono di parte, vi do anche ragione: ho già comprato tre versioni del disco e tenderò a regalarle a chiunque penso possano piacere, un po’ come facevano i Nirvana con i Kyuss a inizio carriera, e poi arrivano da un luogo vicino al mio cuore (Feltre) perché è il paese di origine di un ramo della mia famiglia e un posto di cui sono innamorato. Esattamente come della loro musica.

Quindi sono di parte e ve lo confesso. Questo però non sminuisce il disco che è bellissimo e non vi stupisca se lo dico di un album a tratti furente e violento, sono molto più violente e intense le sensazioni che mi provoca. Ti afferra e ti scuote, ti attacca da ogni lato, senza tregua, ma in questo sta il suo fascino, nel non darti tempo di rifiatare mai, nel farti guardare le cose da mille angolazioni diverse nel giro di un singolo brano.

Ci mettono dentro tanto, ci mettono dentro l’anima, non so in quanti possano dirlo oggi, ma ogni singolo strumento si incastra e ritaglia il suo spazio in un’ amalgama unica, completata da testi ermetici e spirituali come sono soliti fare. Ogni brano è un mondo a sé eppure il disco risulta incredibilmente organico e completo. Rispetto al passato l’evoluzione si sente, soprattutto nella produzione che risulta meno caotica (gran lavoro di un grandissimo Giulio Favero!) che in passato, permettendo veramente di godere appieno della loro stupefacente creatività ed eclettismo. Inoltre incorporano suoni nuovi: una canzone dalle pennellate cupe come “Sorte” ancora mancava al loro repertorio o “Valichi, oltre” dove quasi diventano calmi per metà canzone, sintomo che quelle aperture del disco precedente (la bellissima “Niente” per esempio) non erano episodi isolati ma una genuina attitudine ad evolvere sempre verso qualcosa di nuovo, fosse anche solo una sfumatura.

Sempre memori della lezione HC, screamo e metal, rendono giustizia ai loro generi preferiti attraverso un lavoro che ha ben chiare le sue radici, ma altrettanto cari i suoi rami che si allungano verso il cielo e verso l’inesplorato.

Sorretti da una batteria a tratti sovrumana, gli altri membri del gruppo riescono a esaltarsi a turno offrendo veramente pochi punti di riferimento all’ascoltatore ed è proprio mentre pensi di aver capito un brano che ti fanno mancare la terra sotto i piedi e sconvolgono bruscamente il tuo senso dell’orientamento, portandoti altrove nel giro di un nanosecondo. Lo stupore è forse la cosa più bella di questo disco: la sensazione di meraviglia che si prova canzone dopo canzone, nota dopo nota, attimo dopo attimo. Nessuno può uscire uguale a prima dopo aver ascoltato un disco come questo ed è esattamente ciò che manca al 99% dei dischi che escono oggi, troppa musica e nessun incanto. Ma, assolutamente, non è questo il caso: si nutrono di sé stessi e rinascono ancora una volta… deflagrando ogni cosa in un modo personale e bellissimo.

Cose ascoltate di recente, edizione Italia

MEO – Testarossa: Mi sono incuriosito a questo disco grazie a Blog Thrower e all’intervista fatta all’etichetta Fresh Outbreak, è una bellissima prova di questa (suppongo) giovane band torinese. Come anche nel caso degli Øjne non si tratta esattamente del genere che prediligo, eppure questo disco mi è piaciuto, i ragazzi dei MEO hanno un ottimo gusto musicale e compongono dei brani nient’affatto banali pur suonando un genere assolutamente riconoscibile. Complimenti, pur avendo qualche difficoltà, come per ogni gruppo emo, ad apprezzare anche i testi, questo è veramente un bel lavoro.

Lleroy – Nodi: Una vera mazzata in faccia consigliata da Neuroni. I tre ragazzi emiliani ci vanno giù duro, con un indie rock possente e greve come un pachiderma in corsa. Non fanno sicuramente complimenti: un muro del suono che difficilmente potrà avere eguali nel genere, la voce che, curiosamente, mi  ricorda Franz Goria dei Fluxus declama versi di difficile interpretazione che sembrano provenire da qualche dimensione difficile da decifrare. Sono in attività da un bel pezzo e mi sono pentito di averli scoperti solo ora (tra l’altro anche il disco precedente “Dissipatio HC” è assolutamente meritevole) e di essermeli persi in sede live dove sicuramente danno il meglio, viste le premesse su disco. Da sentire senza ritegno a volumi esagerati.

Oreyeon – Equations for the useless: Questa volta da La Spezia, città che sempre cara mi fu per essere stata la patria di Fall Out e Prof. Bad Trip. Qui però il discorso è diverso: partiti come Orion, ora Oreyeon, scagliano nello spazio un rocciosissimo hard rock cangiante e cosmico, lontanamente riconducibile ai filoni stoner, a tratti grunge e psichedelici, con una voce melodica. La miscela funziona alla grande con un’attenzione particolare ai riff e alla sezione ritmica, davvero molto solida.

NETN – s/t: Noise-rock da Ferrara, i punti di riferimento qui sono Shellac, Helmet e a tratti Unsane. Il genere proposto dal terzetto mi piace, credo che ogni amante del genere possa trovare nelle loro note qualcosa di sicuro interesse, personalmente li seguo fin dal loro precedente lavoro “Dangerfield” quando ancora erano un duo e si facevano chiamare Niet (No alla russa, per capirci). Da allora il loro sound è ancora evoluto, diventando maggiormente completo anche se non condivido molto l’impostazione della voce (opinione personale), il lavoro è assolutamente degno dell’attenzione generale.

…Il tutto ovviamente senza dimenticare che domani esce un serio candidato a disco dell’anno, ovvero il nuovo STORMO!

L’Italia vera che suona, resiste e urla dal basso è questa.

Il Blues dei libri venduti

Non vi è mai capitato di vendere dei libri ad un negozio di libri usati? Che sia una triste esperienza ne convengo assolutamente, un po’ perché separarsi da certi volumi è uno strazio, soprattutto perché poi quello che ne ricevi in cambio vale poco di più di un sorriso e di una pacca sulle spalle. Libri pagati a prezzo pieno per i quali si riceve in cambio meno di un euro e spesso sottoforma di buoni spendibili solo nel suddetto negozio. Devo dire che la prima cosa me la sono scampata: i libri che ho rivenduto sono sempre stati libri che ho detestato per un motivo o per un altro: vendere dei volumi a cui sei affezionato per l’irrisorio corrispettivo non avrebbe senso. Sulla seconda non ci si può fare molto, vorresti urlare al cielo la truffa ma il cielo stesso non ti ascolterebbe quindi ti tocca accettare la tristezza e tirare avanti, anche perché magari ancora ti maledici per aver comprato certi sprechi di carta e ti dici che in fondo, dopo aver buttato ore sempre preziose a leggerli, ora ti meriti anche il castigo finale.

Insomma mi capita di fare questo gesto sconsiderato e, a fronte di due scatoloni di volume consistente pieni di libri, ho ricevuto in cambio quattro miseri volumi, uno dei quali vede Nick Hornby parlare dei suoi brani di musica preferiti. Ora l’autore inglese che io ho apprezzato per come parla delle manie dei musicofili in “alta fedeltà” gode di una certa stima da queste parti e quindi, anche se molti dei brani descritti o non li conosco o mi fanno sentire a disagio, porto a casa il disco dicendomi che, in fondo, potrebbe aprirmi la mente o portare a mia conoscenza, pescando nel mucchio, qualcosa di valido.

Tutto bene (più o meno) finché arrivo al capitoletto che parla dei Led Zeppelin e di “Heartbreaker” in particolare. No Mr. Hornby, non ci siamo proprio. L’autore si interroga sul perché a un certo punto si sia appassionato a un genere “pesante” e soprattutto sul perché, a un certo punto, tale genere, nonostante ne riconosca l’appeal istintivo, abbia smesso di avere senso di essere ascoltato. L’autore dice di aver voluto nascondersi dietro quelle sonorità così pesanti ma che è un atteggiamento poco maturo, perché la persona matura è in grado di capire che nell’effimero, nel massificato e nel, passatemi il termine, “superficiale” sta il fascino della musica popolare. Dice che una persona matura non ha bisogno di chitarre roboanti e batterie rumorose. Niente bassi pulsanti e voci spavalde. Il punto è: anche fosse, e non credo, chissenefrega di essere ascoltatori maturi. Il mondo delle persone mature è noioso e triste. Prendete un disco dei Led Zeppelin e ditemi se, in tutta coscienza, riuscite a rilevare delle sensazioni del genere anche solo per mezzo secondo.

Ok, magari vi concedo qualcosa a fine carriera, ma ci sta. A un certo punto verso la fine dei ’70 saltarono fuori un sacco di diavolerie elettroniche e tutti quanti si misero a sperimentare anche cose senza troppo senso… ma almeno fino a “Presence” sono stati formalmente quasi inattaccabili. E come loro altri mostri sacri come Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep e molti altri.

Una cosa del genere la fecero notare anche a Lemmy, il quale rispose che non voleva che dei vecchi ascoltassero la sua musica, che poi faceva il paio col fatto che se pensi di essere troppo vecchio per il rock’n’roll, probabilmente lo sei. Aggiungeteci il fatto che maturi è come dire diversamente giovani e il bandolo della matassa è sotto i vostri occhi.

Il punto è che sono anni che chiunque si arroga il diritto di sparare sentenze sulla musica pesante, dall’alto di una presunta maturità o, peggio, supremazia musicale. Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti discriminatori. Anche perché, oltre al non voler crescere (che comunque è del tutto opinabile), c’è molto altro. Probabilmente in molti si aspettano che io mi spertichi in lodi nei confronti della musica che amo, mi sembra ridondante farlo e vorrei evitare.

Però pensandoci bene… per essere maturo devo riconoscere al pop una dignità? A un genere ruffiano e compiacente per antonomasia? A un genere che ricerca il favore del pubblico ad ogni costo e che misura il proprio valore unicamente (o quasi) in base ai dati di vendita o in base a quel che tira in questo momento storico? A un genere che parla quasi unicamente di cose frivole e di sentimenti banalizzati? Per essere maturo devo accettare il fatto che modificare il proprio stile per renderlo accessibile sia non solo lecito ma un atteggiamento da condierare vincente? Allora perché dovrei desiderare esserlo?

Una volta ero estremamente più chiuso e forse davvero risultavo ottuso… Ma oggi ascolto molta altra musica rispetto alla musica pesante. Per me la discriminante sono diventati contenuti: aver qualcosa da dire non è una cosa banale né dal punto di vista strettamente musicale e né dal punto di vista dei testi e dei temi trattati.

…Canzoni senza fatti e soluzioni…

Poi è chiaro che il metal e tutti i suoi derivati e generi in qualche modo limitrofi, sono casa mia, sono ciò che conosco meglio e ciò di cui posso parlare con effettiva cognizione di causa, ma non sono (più?) così limitato da non trovare del bello nella musica classica, nel blues, nel jazz, nel rap, nel reggae, nel goth, nella new wave, financo nel pop dove oggettivamente è molto più difficile farlo. Sinceramente però ne ho abbastanza di sentirmi colpevolizzato perché la musica che ascolto è indigesta a qualcuno, ne ho abbastanza di sentirmi dare del retrogrado perché boicotto lo streaming selvaggio che sta uccidendo la musica, ne ho abbastanza di concerti a cifre assurde e bagarinaggi legalizzati per vedere spettacoli elitari e della gente che compra i biglietti per certi spettacoli. Se la musica sta morendo è per colpa degli ascoltatori maturi che fanno tutto questo.

Per assurdo avevo assegnato a Hornby il compito di alleggerire le mie letture quando sentivo di esserci andato troppo pesante con un libro (per tematiche, stile di scrittura o altro) arraffavo un suo scritto e tornavo a sentirmi più leggero. Il giochetto è durato fino a “Non buttiamoci giù” del 2005 che proprio non mi è piaciuto. Da allora non avevo mai più preso un suo libro in mano…

2022

Ho aspettato tantissimo a far uscire una classifica quest’anno, un po’ per la maledizione di dicembre, mese nel quale escono sempre dischi che poi non vengono inseriti nelle classifiche (vedi “1904” dei Moonstone o i Del Norte lo scorso anno) un po’ per il mio maledetto lassismo. Questa volta il lassismo è dovuto al fatto che la mia lista sembrava già essere stata scritta da tempo, ovvero da quando a marzo era già uscito un disco insuperabile. Rimettere le mani sulla lista mi pareva quasi una cosa ridondante… Forse sto diventando pigro o forse lo sono sempre stato. Il 2022 è stato un anno molto soddisfacente dal punto di vista musicale, come non capitava da un bel pezzo. Tanti bei dischi, alcuni anche inaspettati. Si può solo sperare che continui in questo modo. Ci sono stati dischi osannati da molti che proprio non mi dicono un granché (Chad Pile, Fountains D.C., Mammoth Volume, Wo Fat, Elder) ma a parte questi, le soddisfazioni non sono davvero mancate, soprattutto se penso a chi sta in cima alla lista.

Ma prima di tutto quelli che son rimasti fuori: Calibro 35, Muschio, Russian Circles, Duocane, 16, Early Moods, Konvent.

10) Clutch – “Sunrise on slaughter beach”: Una certezza. Sulle prime non mi aveva entusiasmato tantissimo, sembrava essere il solito disco dei Clutch ed, in effetti, con qualche minima variazione sul tema non si discosta molto dai loro standard. Però pur non essendo “Earth Rocker” o “Psychic warfare” cresce con gli ascolti e alla fine diventa confortevole, mandando via anche quell’idea negativa legata al concetto di solito. Quello che resta è un bel disco solido dei Clutch, mi ero sbagliato di una consonante.

9) Ozzy Osbourne – “Patient number 9”: Viene da chiedersi se non sia l’ennesima operazione di sfruttamento commerciale del madman da parte dell’industria musicale ivi rappresentata dalla moglie Sharon. Se non fosse che poi hanno incominciato a girare video sulla realizzazione del disco ed il nostro appare sinceramente coinvolto e divertito nel registrare e non sembra nemmeno che siano costruiti a tavolino. Quindi voglio essere possibilista e dire che si tratta di un Ozzy che, nonostante i malanni e gli anni di abusi sul groppone, non sia riuscito a stare lontano dalla musica. E fortunatamente il risultato surclassa in un colpo tutta la sua produzione da “Ozzmosis” in poi. Se volete un suo disco dell’ultimo periodo buttatevi su questo senza dubbio. C’è qualche traccia sotto tono, ma altre sono davvero oltre qualsiasi aspettativa soprattutto quelle con Sir Tony Iommi alla chitarra, che portano davvero il disco in alto. Nonostante l’uso dell’auto tune, un colpo di coda come solo lui poteva sferrarlo.

8) Friends of Hell – “Friends of hell”:  Questa me la dovete concedere, non potevo non mettere il rientro di mr. Witchfinder alla voce nel listone di fine anno. Chi è un fan dei Reverend Bizarre come il sottoscritto non potrà non accogliere con gioia questo disco che, tra l’altro, ha il merito di ripescare l’oscuro ex-bassista degli Electric Wizard (Tasos Danazoglou, quello tatuato anche in faccia, per intenderci) qui alla batteria e Taneli Jarva al basso. Se vi state chiedendo che musica fanno… fanno esattamente quella musica che state pensando, ma la fanno dannatamente bene.

7) Codespeaker – “Codespeaker”: I Codespeaker finiscono in questa lista in vece dei Cult of luna in virtù del fatto che, pur muovendosi su coordinate simili, il loro disco d’esordio mi è sembrato immediato, fresco, concreto. Si “perdono” molto meno in fronzoli concentrandosi molto sulla fruibilità delle voro composizioni: ne risulta un disco assolutamente legato a quelle sonorità primi anni duemila che hanno fatto la fortuna dei capisaldi del genere ma che riesce ad essere diretto come pochi… considerato il tipo di musica, non è poco.

6) Mountains – “Tides end”: Una scoperta dalla terra d’albione. Decisamente meno doom di come mi erano sembrati all’inizio, la loro proposta appare solida ed ispirata, partendo dai Mastodon (prima che fossero progressivi e prolissi) passando per i Sabbath e arrivando ad una musica coinvolgente, solo in parte derivativa. Coinvolge ascolto dopo ascolto con un’ ottima sezione ritmica ed un cantato melodico e perfettamente funzionale. Da recuperare anche il loro esordio, più asciutto e meno cupo.

5) Miscreance – “Convergence”: Da qui in poi solo applausi. Come detto in precedenza non è il mio genere preferito, ma quando uno è bravo è bravo e i Miscreance sono bravi sul serio. Con Schuldiner come nume tutelare al loro fianco non possono sbagliare. Avevano davanti un compito difficile però: Rendere la loro musica assimilabile e evitare il rischio citazionistico. A mio parere ci sono riusciti benissimo, con una perizia sullo strumento davvero notevole vista la loro età. Sappiamo da dove sono partiti, difficile dire dove arriveranno ma, viste le premesse, si suppone lontanissimo.

4) Tenebra – “Moongazer”: Ottima prova per gli emiliani, decisamente un disco azzeccato ed un netto passo in avanti rispetto all’esordio di qualche anno fa. Funziona tutto in questo disco, se sapranno ridurre ulteriormente le citazioni, in qualche caso ingombranti, e sviluppare ancora il loro suono, il prossimo disco potrebbe essere in cima a questa lista. Comunque non c’è da farsi trarre in inganno: l’eccellenza italiana avanza, Moongazer mantiene tutte le promesse e rilancia per il futuro. Se possibile non me li lascerò sfuggire dal vivo.

3) EDDA – “Illusion”: Appuntamento da non perdere con uno dei pochi personaggi veri della musica indipendente italiana, per l’occasione seguito da un gigante come Gianni Maroccolo in fase di produzione. Molto meno minimalista di quanto mi era sembrato ascoltandolo le prime volte, un disco sfaccettato e ispirato dove la voce di Stefano è la protagonista assoluta, con molti cambi di registro, dallo scanzonato al serio senza filtri o mezze misure, senza tagli e senza censure. Molto più dritto in faccia di tutti gli altri.

2) Rammstein – “Zeit”: Non me lo sarei mai aspettato nemmeno io che li ho snobbati fino ai ieri, ma adoro questo disco. Troppo tamarri, troppo esagerati, troppo elettronici i loro suoni. Invece alla fine mi hanno conquistato al punto da riscoprili a ritroso… in effetti non mi piace tutto, non sempre raccolgono il mio favore ma arrivare a scrivere il miglior disco in carriera (opinione personale) a 60 suonati non è da tutti; anche dal punto di vista dei testi non posso che levarmi il cappello e dichiararmi conquistato, visto quello che suonano non era affatto scontato.  

1) Messa – “Close”: Avevo già rovinato la sorpresa con il post precedente, sarà anche per questo che non mi decidevo a chiudere l’anno. I Messa trionfano su tutti e avere tre italiani nei primi cinque credo che non mi sia mai successo. A loro voglio bene, il disco mi ha commosso e non solo conquistato, è un lavoro intenso, ispirato, personale e assolutamente riuscito, di gran lunga la cosa migliore ascoltata quest’anno con il corollario del concerto che ha fatto ulteriormente salire la mia venerazione. Bravissimi.

… e adesso in attesa degli STORMO a Febbraio!

Messa live al Legend Club Milano 16/12/2022

Posso dire solo: finalmente! dopo aver perso almeno tre occasioni per vederli la scorsa estate a causa di sfortunate coincidenze, sono riuscito a vedere i Messa. Sono anche meglio di quanto io avessi sognato la prima volta che ascoltai “Feast for water” forse cinque anni fa.

Arriviamo al Legend abbastanza presto, il locale è molto minimale, ricorda in qualche misura il Magnolia: bar prefabbricato, giardinetti esterni (oggi inutilizzabili causa clima) e sala concerto. Il prezzo della birra è abbastanza da rapina (7€ per una pilsner media?) e non è facile parcheggiare, al punto che l’auto la lasciamo in un parcheggio che dovrebbe chiudere alle 21:30 ma che, dopo ripetute assicurazioni del barista, scopriamo che non chiuderà. Simpatico anche il fatto che il bagno sia accessibile solo dalla sala concerti, per fortuna lasciano entrare per incombenze non procrastinabili anche durante il soundcheck… almeno non c’è una tessera da fare.

Dopo la birra di rito, apprendo che ci sono due gruppi in apertura di cui non sapevo niente. Circa i suddetti posso dire solo che, una volta passata una certa età, il tempo si assottiglia e perderlo in questo modo è un peccato: circa un’ora e mezza della mia vita che non riavrò indietro. Peggio, un’ ora e trenta minuti che ho passato in braccio alla noia, per essere gentile.

Apre il primo gruppo, i Di’aul, e proprio non ci siamo: Sludge/hard rock di pessima qualità, con il batterista più noioso del mondo anche in grado di perdere i colpi nelle poche rullate che fa, non un riff che ti coinvolga, basso insistente e voce filtrata con cantante impegnato a scimmiottare John Garcia. Da dimenticare, a parte la maglietta dei Mother love bone del cantante.

Può andare peggio? Certo. Partono gli Eralise: non riesco nemmeno a parlare di un gruppo che suona tutto il concerto con le basi in sottofondo, con tanto di cori della voce… ti domandi: ma chi cazzo sta facendo i cori? Poi ti accorgi che c’è una base con dei suoni elettronici e la voce che fai i cori… non dei campionatori, proprio una base. Tremendi. Anche qui nulla degno di nota, oltretutto con una certa arroganza il cantante afferma che se non abbiamo ascoltato i loro brani su spotishit è male… niente affatto: spotishit è il male e voi siete anche peggio.

Non so chi abbia scelto questi due gruppi per aprire il concerto ma se penso che possono aver tolto del tempo ai Messa, sto male. Mi dicono che in altre occasioni abbiano suonato anche di più che qui quindi, vista l’ordinanza che impone la fine a mezza notte, il dubbio mi viene.

Manco a dirlo dopo cotanta tribulazione, salgono sul palco i Messa, dopo una lunga intro ha inizio la magia: innanzitutto i suoni sono stupendi, chitarra e basso macinano quasi all’unisono con una pachidermica presenza, quasi da gruppo drone metal in certi frangenti. Questo senza dimenticare che il chitarrista Alberto, di cui si festeggia il compleanno con canzoncina cantata dal pubblico annessa, ha una preparazione notevole di cui farà sfoggio qua e la, soprattutto nell’introduzione di “Pilgrim”, e riesce perfettamente a coniugare i passaggi jazzati e i riffoni roboanti. A volte portarsi dietro il proprio fonico serve, anche per il suono della batteria che ti prende allo stomaco come da migliore tradizione.

Ultima ma non ultima la voce di Sara, assolutamente superlativa, tra le poche cantanti che sia riuscita, sul serio, a farmi venire la pelle d’oca. Su disco sono magici, dal vivo ancora di più se possibile, soprattutto per la pienezza dei suoni grevi, difficilmente riproducibili a questi livelli in un impianto casalingo. Anche se spogliata del contributo degli strumenti aggiuntivi (hammond, sassofono, mandolini etc…) la musica si diffonde nell’ aere meravigliosa e suadente, sinuosa come un rivolo di fumo di incenso, ipnotizzando e stregando tutti quanti. Passa in un lampo il concerto tra pezzi vecchi e nuovi, tra gli altri spiccano “Babalon”, “Leah”, “Rubedo”, “Suspended”, “Pilgrim” in un continuum invidiabile di emozioni. Tra un brano e l’altro Sara con una grazia delicata introduce i pezzi dicendo due parole per rendere il contesto, fortunatamente è disarmante nel farlo che a nessuno viene in mente di urlare cose turche come spesso succede alle componenti di sesso femminile. Questo malcostume pare superato almeno per questa serata, alla fine riceve una proposta di matrimonio… ma la risposta è spiazzante (“sapete sempre come mettermi in imbarazzo…”) e si capisce benissimo che sarebbe di pessimo gusto continuare per quella strada. Quando annunciano l’ultimo pezzo tutti sbottano in un “NOOO!” all’unisono ma è una finta, c’è ancora spazio per “Enoch” e tutti a casa a mezzanotte.

In conclusione la prossima volta che rinuncerò a vederli mi prenderò a schiaffi da solo qualsiasi sia il motivo. Sono tuttora permeato da quell’aura di innata meraviglia. Disco dell’ anno, Band dell’anno, concerto dell’anno… peccato solo per la durata.

Cose ascoltate di recente

Codespeaker – Codespeaker: Orfani dei Neurosis e, forse soprattutto, degli Isis di tutto il mondo ci sono buone notizie per voi: in terra d’ Albione qualcosa si muove e lo fa in modo roboante. Questo gruppo di recente formazione rischia veramente di raccogliere il testimone dei padrini del post (HC, metal, quello-che-volete-voi) in maniera assolutamente autorevole, il loro disco d’esordio sembra riprendere il discorso da dove le due band madri l’avevano interrotto, riportando in vita un genere che si era quasi completamente perso. Tutto con un solo disco all’ attivo? Ascoltare per credere. La loro proposta ha veramente tutte le carte in regola per aggiungere nuovi tasselli al discorso incominciato, oramai molti anni fa, dalle due band statunitensi. Ora hanno davanti un avvenire luminoso se sapranno spingere avanti la loro musica ampliando lo spettro sonoro di partenza. I Cult of luna si sentiranno, finalmente, un po’ meno soli.

16 – Into Dust: Qui si parla di veterani dello sludge che esordirono, oramai decenni fa, sulla defunta (?) etichetta di Pushead (disegnatore dei metallica) la bacteria sour. Dopo un lungo periodo di inattività ritornano alla luce e, per una volta, la loro reunion ha un senso. Sfornano sempre dei bei lavori, molto compatti e densi di belle canzoni con, nonostante il genere, un buon gusto per il groove e qualche trovata insolita qui rappresentata da un sassofono che fa capolino alla fine del disco. Se amate il genere, anche privo di certi eccessi plumbei alla Eyehategod, fanno decisamente per voi. All’inizio erano decisamente più legati all’ HC, tanto che in molti li scambiarono per un gruppo del genere per quanto strani, adesso hanno trovato una dimensione decisamente meno legata al minimalismo e alla velocità di esecuzione ma assolutamente greve e massiccia. Una gradita conferma.

Celestial Season – Misterium I/II: L’operazione nostalgica di rientro di uno dei miei massimi gruppi feticcio continua. Stavolta con addirittura con due album in un anno solo. Il risultato è apprezzabile, death/doom con violini vecchia scuola, come erano soliti fare a inizio carriera. Pur avendo uno strumento in comune con i vecchi My Dying Bride la somiglianza non è così evidente: i brani hanno una loro personalità e ragione d’essere (sfido chiunque a non scapocciare in “Black water mirrors” per dire). Se siete amanti di certe sonorità queste due uscite vi rincuoreranno: più pesante la prima, maggiormente eterea la seconda. Per riprendere il discorso fatto con gli In The Woods… (anche se in misura minore) la cosa che fa tristezza è che però si è persa completamente la spinta innovatrice meravigliosa che avevano avuto in “Solar Lovers”, un disco assolutamente illuminato con il quale avevano veramente trovato una dimensione personale e, a questo punto, irripetibile.

Phlebotomized – Devoted to God: Dalla terra gloriosa d’ Olanda non emergono solo i Celestial Season, anche i Phlebotomized che, nel campo dell’innovazione sonora, sono un gruppo di assolta rilevanza. Assolutamente tra i primi a introdurre strumenti e strutture inusuali nel death metal, ora rispolverano il loro vecchio demo. Ovviamente è fatto secondo la vecchia scuola, per artwork e registrazione, ma risulta assolutamente importante per comprendere la genesi di un gruppo che ha saputo rivalutarsi nel tempo. Oltre a questo, testimonia che, con l’evoluzione tecnologica, molta della magia dello studio di registrazione si è irrimediabilmente persa. Un prezioso cimelio.

Øjne- Prima che tutto bruci: Questo è un disco che compie cinque anni in questi giorni. Li ho conosciuti grazie al figlio di un mio amico con cui ho in comune la passione per gli Storm{o}. Un giorno lo vedo indossare la maglietta di questo gruppo e mi incuriosisco. Hanno da poco suonato con il gruppo di Feltre al Bloom di Mezzago, quindi suppongo che li abbia sentiti lì. Da subito mi colpisce il cantato, sarebbe meglio dire “l’ urlato”, che mi sembra un po’ troppo sopra le righe per la musica che fanno, poi i testi un po’ troppo naïf… anche se la musica mi fa un’ottima impressione: sono davvero bravi. Tanto che lentamente le loro canzoni mi si infilano nelle orecchie e torno a riascoltarli spesso, diventano dei buoni compagni delle mie camminate al buio alla sera. Alla fine entro definitivamente nella loro musica, anche il cantato e i testi acquistano via via senso e contesto: alla fine questo disco diventa importante per me. Non so molto della scena, delle altre band che suonano lo stesso genere, della filosofia che ci sta dietro, il tempo degli emo e degli screamo me lo sono perso, sicuramente ero preso da altre cose. Ma anche se non ne sono addentro, sono contento di non essermi perso questo disco perché è bellissimo e pensare che le giovani leve oltre a certa immondizia musicale (altrimenti nota come t**p) possano anche ascoltare lavori come questo mi lascia una certa speranza.

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