Il buio in una stanza

Negli anni ’90 avevo una pratica segreta che mi piaceva più di tutte. Chiudermi al buio completo in una stanza e stare assolutamente fermo ascoltando musica. Una ragazza mi vide farlo una volta e si spaventò, ma non erano prove generali del mio trapasso, era un modo per chiudere il mondo fuori. Era un modo per concentrarmi sulle note e rendere loro omaggio del mio amore incondizionato, non potevo farlo con qualsiasi disco. Se allora mi avessero chiesto 5 dischi che meglio definivano gli anni ’90 non avrei avuto dubbi nel dire: My Dying Bride “The angel and the dark river”, Nine Inch Nails “The downward spiral”, Celestial Season “Solar lovers”, Kyuss “Blues for the red sun” e In The Woods… “Omnio”. Quest’ultimo era il disco perfetto per quanto descritto sopra.

Gli In The Woods… erano un mio personalissimo oggetto di culto che alla fine risultò per un attimo anche abbastanza popolare. Erano assolutamente misteriosi, sembrava che nessuno li avesse mai visti in faccia, alcune foto girarono solo dopo il disco successivo “Strange in stereo”, pareva che avessero tenuto un oscurissimo concerto nella sala della casa discografica Dracma di Torino (se qualcuno se la ricorda ha tutta la mia stima) del quale si narravano cose tipo maschere, veli e ghiaccio secco a celare l’identità dei musicisti… io non ebbi la fortuna di presenziare ed ero vittima di confuse e fantozziane voci di corridoio.

Il primo disco “At the heart of the ages” era ancora venato di black metal, nel cantato e nell’atmosfera generale, ma già dal primo brano, con quella nota ripetuta all’ossessione (che io associavo a “The cry of mankind”) si capiva che erano molto più di questo.il gruppo di Kristiansand esplose letteralmente nel disco successivo, il glorioso “Omnio”, un disco in grado di farmi letteralmente perdere la testa. In molti gridavano al tradimento, personalmente era una delle cose più belle che avessi mai ascoltato. Il disco era la quintessenza dell’universo parallelo nel quale avrei voluto perdermi, allora i concetti di deprivazione sensoriale (poi reso famoso da “Stranger things” tra gli altri), meditazione e distacco dalla realtà non mi erano ancora del tutto chiari, sapevo solo che quello era uno spazio mio, e quel disco era una sorta di porta verso quel mondo. Quindi era (ed è) meraviglioso. Avere in casa un disco come “Omnio” è come vivere ai piedi delle montagne, sai di avere a disposizione, a poca distanza da te, la possibilità di raggiungere un posto impevio ma affascinante, nel quale rifugiarti e in cui nessuno o quasi può trovarti. Tu però lì puoi far rinascere te stesso.

Cinque brani di cui uno, che da il titolo al disco, diviso in tre movimenti poco più di un’ora di durata, non una nota fuori posto. Anzi sì, nel primo brano, che poi ha per titolo il valore della velocità della luce, si sente una nota dissonante talmente evidente che viene quasi da pensare che l’abbiano lasciata lì apposta, tanto per risvegliare l’ascoltatore, come un campanello che suona nel silenzio più assoluto. A 25 anni dalla pubblicazione rimane uno spiraglio di luce, un disco assolutamente a sé nel panorama della musica pesante e non solo. Dopo questo ancora un bel lavoro e una raccolta, poi il silenzio.

Viene pubblicato un live nel 2003, poi nel 2016 tornano. Ma non sono più loro: c’è un tale turbinio di muscisti che si avvicendano da lasciare disorientati, gli In The Woods… diventano una sorta di collettivo con gente che entra ed esce. Questo non significa che ora facciano musica pessima, tuttavia quell’aura di magia e mistero è andata completamente persa. E si è perso molto anche in tremini di genialità, adesso semplicemente sono un gruppo più canonico e meno peculiare, comunque piacevoli da ascoltare anche se non più in grado di indurre l’ascoltatori in dimensioni parallele o mondi lontani. A 25 anni di distanza da “Omnio” è uscito “Diversum”…

Had it and lost it… nearly

Doom On!

Dove eravamo rimasti? Green Lung e Jointhugger. Alla fine i rispettivi lavori sono usciti, con qualche ascolto alle spalle posso parlarne come segue:

Green Lung: “Black harvest” è un serissimo candidato a finire nella playlist di fine anno in posizione decisamente alta. Si confermano sui livelli dei dischi precedenti con alcuni punti evolutivi in rilievo, in primis l’uso delle tastiere che qui si conquistano uno spazio maggiore entrando sicuramente a far parte dei tratti distintivi di questo lavoro, dove prima avevano un ruolo di contorno, in diversi punti arrivano quasi ad avere una posizione di rilievo rispetto agli altri strumenti. Le parti maggiormente aggressive dei dischi precedenti subiscono una lieve smussatina (niente di preoccupante) a favore della melodia che ora si palesa con maggiore forza rispetto al passato. Il risultato finale, seppure con una tensione che si allenta un poco nel finale del disco, è un ottimo hard rock di stampo occulto-settantiano in grado di far felice un po’ tutti i fan del genere e di catturare qualche occasionale ascoltatore che non disdegna. La speranza è che non perdano la verve di brani come “ Reaper’s schyte” (un vero e proprio inno, che diventerà presto un classico del gruppo) e che non inizino a vaneggiare in lidi più melodici o prog perdendo del tutto l’impeto come sembra essere di moda nei gruppi cosiddetti “maturi”. Personalmente la maturità è molto poco rock’n’roll, su le corna e via.

Jointuhugger: Usciti da pochissimo, quei pochi ascolti al nuovo “Surrounded by vultures” confermano quanto di positivo scritto in precedenza. I ragazzi hanno stoffa e personalità per diventare una realtà importante in campo stoner/doom. Non ravviso particolari variazioni sul tema e nel loro caso, trattandosi del secondo disco, che consolidino la propria attitudine musicale è un bene. Nel proseguio della loro carriera avranno modo di ampliare i loro orizzonti e di raggiungere altre forme espressive, per ora il nuovo lavoro è una solida conferma e, anche in questo caso, una sicura presenza negli ascolti a venire. Il prossimo 5/11 è di nuovo bandcamp Friday: volete farvi sfuggire l’occasione?

Oltre a questi due gruppi, recentissima è anche l’uscita dei neo-veterani Monolord, di cui tratterò di seguito. Il nuovo disco degli svedesi, ormai sulla scena da parecchio, consta di cinque brani che fanno seguito a quel “No Confort” che si palesa da subito come un lavoro dalla difficile eredità. In quel disco i nostri erano infatti riusciti a rendere un genere, in teoria piuttosto pesante per i non avvezzi, maggiormente fruibile e scorrevole, sottolineando la melodia attraverso un bel lavoro sulle parti vocali, il tutto senza rinunciare ad un’oncia in termini di pesantezza del suono. Considerati gli standard attuali, un disco riuscitissimo, in grado di insinuarsi nell’apparato uditivo innescando un sommesso ed ipnotico headbanging che però diventava difficile da eludere.

Monolord (fonte Bandcamp)

Il nuovo lavoro va maggiormente assimilato. Sicuramente quell’immediatezza palesata in precedenza è andata a scemare, “Your time to shine” appare fin da subito un lavoro dal sentore autunnale, malinconico e riflessivo, come se i numi tutelari del gruppo non fossero più degli Electric Wizard più melodici ed immediati, bensì dei Candlemass magniloquenti ma al tempo stesso dolenti. La stessa canzone che da il titolo al disco parte come una triste litania funerea che da ben poco spazio alla linearità del disco precedente, come se nel frattempo si fossero addensate chissà quali nubi sul capo dei tre svedesi. Probabilmente ci si è messa la pandemia di mezzo: sui social i tre paiono aver somatizzato male l’assenza dal palco e come dar loro torto.

Per tornare a noi, un disco sicuramente di difficile presa, un passo in una direzione che non mi sarei aspettato, che francamente mi ha un po’ spiazzato ma che comincia a far breccia con gli ascolti e che ha le potenzialità per entrare di diritto fra i classici del gruppo, superato lo scoglio iniziale dato da cotanta mestizia. Occorre avere pazienza e lasciare che questo disco si insinui con il tempo, dargli fiducia è sicuramente d’obbligo, la soddisfazione non mancherà.

Il personaggio più interessante del paradiso perduto

Donald Sutherland in animal house lo scrive chiaramente e a caratteri cubitali sulla lavagna: questo personaggio è satana. Ora, da persona che segue il metal fina dalla fine degli anni ’80, satana mi ha un filo stracciato le gonadi. Credo che, a un certo punto, facesse figo riempire i testi delle canzoni di riferimenti demoniaci, cose truci e macabre, invocazioni varie, esoterismo e tutto: per molti era una finzione, altri ci credevano sul serio. A me ha fatto sempre solo sorridere, tranne in quei casi in cui qualche decerebrato acefalo si è fatto prendere un po’ troppo la mano, vedi il conte in Norvegia. Del resto, come la nazione scandinava ha dimostrato in tempi recentissimi, certi fanatismi sono il vero male, non certo quattro gruppi musicali che blaterano di satanassi vari.

Detto questo, nonostante la mia palese insofferenza, di gruppi che utilizzano certe tematiche continuano ad essercene e io li schiverei anche, però fanno uscire dei signori dischi, dandomi delle soddisfazioni non da poco quando li ascolto, quindi diventa difficile ignorarli. Questo è il caso delle due formazioni di cui vado a disquisire oggi, se non siete annoiati da certe tematiche probabilmente li apprezzerete anche più di me.

Green Lung

Green Lung (fonte bandcamp)

Sono arrivato a loro su segnalazione di un’amica che non faceva altro che parlarne in tutte le salse. Peccato che le indicazioni che mi ha fornito fossero poco centrate con la proposta del gruppo. Sembrava fossero i nuovi Electric Wizard, mi aspettavo qualcosa di pesantissimo, lentissimo, sulfureo e composto sotto l’influenza di chissà quali alterazioni sensoriali. Quando sono arrivato a sentirli la prima volta mi sono sembrati molto scarichi e leggerini. Una robetta da poco, insomma. Però, sull’onda dell’entusiasmo, avevo acquistato l’intera discografia in digitale su bandcamp (il formato fisico ormai è riservato solo ai grandissimi… e comunque non lo escludo in un secondo tempo per loro) e mi seccava da morire non trovarci nulla di speciale. Quindi, di quando in quando, mi sono quasi forzato ad ascoltarli e alla fine mi hanno conquistato. Bastava che cercassi nel posto giusto, invece mi è capitato come quando ti propongono un caffé ed invece ti ritrovi a bere una limonata, che è buona ugualmente ma non è quello che ti aspettavi, anzi non c’entra proprio nulla.

I Green Lung sono fautori di un hard rock anni ’70 dalle sfumature silvestri che a volte si avvale pure di hammond e ammennicoli vari, tutti al posto giusto. Trattano la maniera satanica in modo non distante da certi gruppi deviati dei figli dei fiori che arrivarono a certi culti esoterici pur mantenendosi lontani da Charles Manson. Il cantante ha un timbro molto particolare che tuttavia si incastra nell’ossatura del gruppo alla perfezione, a questo aggiungete un gusto sopraffino per la melodia e un estro chitarristico veramente eclettico e contestualizzato. Ora molti avranno pensato ad una roba tipo Ghost, nemmeno per sogno: sono infinitamente più rocciosi e massicci (soprattutto il primo EP), quindi gettatevi indietro di cinquant’anni e non pensateci più: aprite il vostro cuore e fate posto a un polmone verde: è in uscita in questi giorni il loro nuovo disco e le premesse per un buon lavoro ci sono tutte!

Jointhugger

Jointhugger logo (fonte Bandcamp)

Mi era comunque restato un certo appetito per qualcosa di decisamente più pesante e opprimente. È esattamente questo il caso i Jointhugger (norvegesi, guarda il caso): fanno musica pesantissima, decisamente intensa e a tratti soffocante. Per me sono comunque una boccata d’aria fresca e iodata come una lunga inalazione di… aria di mare. Ok, nulla di troppo nuovo, ma questi norvegesi sanno imprimere la loro personalità a una formula consolidata nella quale si pensava che non ci fosse più spazio per nessuno. Personalmente apprezzo sempre molto un gruppo che riesce a fare una cosa del genere.

Si tratta di un piccolo anfratto, scavato nella roccia millimetro per millimetro, ma i Jointhugger (Amsterdam meets alien?) la loro nicchia se la sono ricavata con delle sane bordate sonore che li collocano forse ancora qualche passo indietro rispetto ai capofila delle nuove leve in campo stoner/doom che sono i Monolord (evidentemente in Scandinavia ci danno dentro alla grande), ma che tuttavia li impogono con forza all’attenzione degli amanti del genere.

Per dire: sono uno dei pochi gruppi dell’ultima ondata in grado di scrivere brani a volte anche lunghissimi senza farmi raggiungere un quasi inevitabile stato catatonico a causa della noia. Questo grazie ad una grande preparazione in fase di scrittura ed esecuzione che rendono i brani estremamente dinamici (non mancano tra le loro cose delle sfuriate quasi inaspettate, tipo l’era Pre-Electric Wizard dei maestri oppure inserti dalle sfumature psichedeliche) che riescono nell’impresa di mantenere viva l’attenzione e in qualche caso fanno addirittura saltare sulla sedia. Attesi alla prova a breve (31/10, che caso!) dopo le prime pubblicazioni del ’20 sono un gruppo che difficilmente fallirà l’obbiettivo, almeno a giudicare dai brani apripista pubblicati sul loro bandcamp e su youtube. Preparatevi al meglio!

Brina celtica sul trono oscuro della contessa Bathory.

E’ il 1984, in una zona non meglio specificata di Zurigo qualcuno si sta armando. Quel qualcuno ha appena chiuso una delle parentesi, musicalmente parlando, più grezze e violente degli anni ’80, tuttavia sente stretto per le proprie ambizioni quel nome, Hellhammer, che pure tanto ha seminato senza vedere praticamente germogliare nulla, almeno nell’immediato. In quel bunker si stanno gettando le basi della musica estrema che verrà, lì ed in qualche parte di Stoccolma, stanno prendendo forma delle minacciose entità musicali che porteranno quelle abbozzate da Venom e Motorhead ad un altro livello. Un’ ondata malefica si sta per abbattere prima in Europa e poi nel resto del mondo… i responsabili si chiamano Martin Eric Ain, Tom Gabriel Fisher e Quorthon.

Stiamo palando di Celtic Frost e Bathory. Detto questo tutti i metallari che vogliano fregiarsi dell’appellativo “estremi” dovrebbero già essersi tolti il cappello, se non proprio fatti lo scalpo in loro onore. Tutto parte da qui. Niente sarà più come prima.

A questi combattenti del metal va tributato ogni onore e gloria, come fece il gestore di un negozio di dischi di musica estrema sulla St. Erik Gatan a Stoccolma, che teneva regolarmente il “santino” di Quorthon vicino al registratore di cassa. Che ci proteggano  dalla musica melensa e senza spina dorsale, che salvaguardino il mondo dalle produzioni plastificate di etichette come la Nuclear Blast, che sorreggano  lo spirito autentico dietro ogni genere di nicchia e che salvaguardino anche il sacrosanto desiderio di evolvere nella musica. Possibilmente in eterno. Sì perché non ripeterono sempre e solo gli schemi che li portarono al successo (sia pure ben lontano dalla scena principale). Sono uomini che hanno portato avanti un’idea, che hanno fatto progredire un certo tipo di concetto musicale che ancora resiste. Almeno fin quando ci saranno Fenriz e Nocturno Culto.

In questi giorni esce il nuovo lavoro dei Dark Throne. E a qualche disattento potranno sembrare dei reazionari del metal. Invece partono con il Death, approdano al Black e finiscono con i Celtic Frost ahahah. Soprattutto Fenriz è un vero malato di musica: vive, respira e trasuda musica e passione da tutti i pori. Zero chiacchiere, zero pose, attitudine pura e fiera devozione alle onde sonore. Se qualcuno di voi ha visto “Until the light take us” (invece del romanzato “Gods of chaos”) si sarà reso conto che tra tutti gli intervistati uno solo parla sempre e solo di musica (si esalta davanti ad una copia di “The Ritual” dei Testament… il che forse è anche troppo). Gli altri blaterano delle loro imprese TRVE: dagli omicidi alle chiese bruciate oppure danno vita a gratuite performances dal retrogusto autolesionista. Ora, con tutto il rispetto per salme e chiese bruciate del caso, queste sono pose di gente con l’aria compressa nel cervello che può anche aver tirato fuori qualcosa di significativo a livello musicale, ma poi ha spento il cervello e si è abbandonata a questi atti inutili (anche dai risvolti tragici) che nulla hanno a che fare con la musica. Tutte le scemenze su satana, sul dover apparire malvagi a tutti i costi, sulle tradizioni e la purezza della razza, per non parlare degli alieni (avete letto bene: il libro “Gods of chaos” è intriso pure di tali castronerie) non servono a nulla: sono un atteggiamento da ragazzini deficienti portato all’estremo. La musica era l’unica cosa che doveva contare.

Magari in ritardo (e facendo qualche errore) ma Fenriz l’ha capito. E adesso va avanti per la sua strada, con Ted (Nocturno Culto) ha stretto una fratellanza senza eguali, nella quale addirittura non conta confrontarsi col pubblico. Loro bastano a loro stessi. Su le corna per i Dark Throne: ora e sempre, evviva la musica.

Fenriz

Un sorriso dagli inferi!

Per chi non li conoscesse, gli Immortal sono un gruppo di trve black metal norvegese, di quelli cattivi, della prima ora: mangiano tenebre a colazione e dicon su le orazioni al signore degli inferi alla sera. Uno di quei gruppi che si prende sempre molto sul serio nel suo essere smodatamente misantropo e negativo, che fa dell’odio il suo verbo e la cui musica si compone di chitarre che suonano come vespe imbizzarrite, di una batteria che scalcia come un cavallo epilettico ed il cui cantato assomiglia ad un urlo stridulo e soffocato. Bellissimo, anche se tutta questa presentazione prescinde dai tre lati della loro musica che nessuno ha mai considerato come si deve:

1. Lato Goliardico: Come abbondantemente dimostrato ne “Il Nome Della Rosa”, il riso deturpa il viso degli uomini rendendoli simili a scimmie ed è una manifestazione demoniaca per la quale è lecito condannare a morte chi si abbandona ad una perversione così pesante. Per questo motivo i nostri rendono tributo ad una ben nota icona dell’umorismo inglese del passato:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=TLXp0_NzF4w]

2. Lato Disco-gay: La danza ed i rapporti sessuali hanno sempre fatto parte dell’immaginario legato ai Sabba, quindi perché non scatenarsi in allegria con gli amici abbattendo le ultime sciocche barriere omofobiche che, se il governo ci fa la grazia di adeguarsi (con un ritardo ignobile) alle altre leggi degli stati europei, dovrebbero anche diventare fuori legge?

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=VtsMkF3lqcs]

3. Lato Bucolico-paesano: Non credo che a me potrebbe mai succedere se fossi cittadino norvegese, ma posso capire che, dopo aver cercato per anni di soffocare le sue occulte origini abruzzesi, queste si siano riaffacciate nella mente di Abbath (il leader del gruppo) con una prepotenza inusitata. Dopo anni di gelo e tenebra, il suo io recondito, profondamente legato alla terra di Abruzzo, non può più tacere, così come il suo cuore che appartiene a Concettina e non a Lucifero!

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=5I6YeEUyQVI]

Underground Resistance

Keep Calm And Dark Throne
Keep Calm And Dark Throne

In Norvegia c’è un duo che resiste, i loro nomi non hanno importanza, ma si chiamano Fenriz e Nocturno Culto. E sono metallari, tanto metallari. Negli anni novanta iniziarono con a suonare con altri due una sorta di death metal piuttosto intrigante, gelido ed intricato. Tuttavia nel giro di qualche anno mollano tutto e si danno al black metal minimale dal suono veramente crudo e pessimo, nel senso positivo del termine. Guidano la carica della seconda ondata del movimento norvegese, poi si accorgono che il movimento è diventato la parodia di se stesso e allora sono tornati a suonare come facevano gli Hellhammer negli anni ’80 che, per me, è un suono fichissimo. E vero.

Gente come Peter Tägtgren e le sue produzioni tutte plastica e pro-tools (chi ha detto Dimmu Borgir?) avevano assestato il colpo definitivo al cuore del movimento, quindi al diavolo. Questo per dire cosa? Che l’attitudine vale tanto. Almeno per me.

Un quarantenne che lavora alle poste ascoltando musica in cuffia sette ore al giorno (e che non

Fenriz Darkthrone
Fenriz, Darkthrone

riesce a farne a meno) con la scritta “speed metal” sul braccio, alle nostre latitudini non so come verrebbe visto… per me è uno che sa quello che vuole. In faccia a tutti quanti.

Questo per dire che, se giunto a una certa età non hai ancora capito chi sei, che musica ti piace, che libri leggere, che films guardare e come comportarti nei confronti della vita, probabilmente c’è qualcosa che non va. Non che non si debba rimettersi in discussione di tanto in tanto, ma è anche vero che, col tempo, puoi esserti fatto un’idea piuttosto solida di ciò che fa per te e ciò che invece proprio non ha nulla a che fare con ciò che sei, a volte lo senti a pelle, pur essendo un tipo tutt’altro che istintivo, e devi comportarti di conseguenza.

The cult is very much alive!

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Ps89qo-prYI]

Dubbio del giorno: Odino, la caccia selvaggia e la fine del mondo!

Arbo Åsgårdsreien
Åsgårdsreien

Durante il mio viaggio ad Oslo e, specificatamente alla Nasjonalgalleriet, sono entrato in contatto con questo quadro, che il pittore norvegese Peter Nicolai Arbo (1831-1892) dipinse nel 1872, e che rappresenta la caccia selvaggia di Odino. La leggenda dice che il padre degli dei nordici infatti discende sulla terra sul suo destriero nero ad otto zampe Sleipnir con il suo corteo, composto di valchirie, morti in battaglia, segugi e battitori (più indietro, nel quadro, è possibile anche scorgere Thor con il fido martello Mijollnir), per 12 notti successive al 21 dicembre, altrimenti noto come solstizio di inverno. Chiunque venga raggiunto dalla battuta di caccia sarà condotto nel regno dei morti. Possibile che si sia messo d’accordo coi colleghi d’oltreoceano Maya?

(Per chi se lo stesse chiedendo: sì è lo stesso quadro posto in copertina di “Bood Fire Death” disco dei Bathory del 1988)

Serve un baby sitter?

Premessa: Io sono assolutamente contrario all’immaginario Black Metal norvegese circa il bruciare le chiese, la fede è qualcosa verso la quale provo profondo rispetto proprio perché tendo a dubitare di tutto, onnipotenza inclusa. Inoltre, se non bastasse a salvare le chiese il loro valore simbolico, oltre che storico, architettonico ed artistico, occorre sempre ricordare che, come il buon “Domkirke” dei Sunn 0))) testimonia, hanno un’ottima acustica!

Ciò premesso guardate nelle mani di chi potrebbe finire il vostro pargolo!

Sognare non costa nulla?

Il viaggio rappresenta da sempre, per il sottoscritto, un momento di vitale importanza per uscire dal labirinto mentale che tendo a costruirmi vivendo sempre nello stesso posto, vedendo sempre le stesse facce e vivendo situazioni monotone solo molto sporadicamente interrotte da momenti piacevoli che, solitamente, vedono coinvolti amici e natura circostante. La claustrofobia spesso si fa asfissiante in una cittadina di provincia con decisamente poco da offrire in termini sia umani che culturali a chi abbia deciso di fare del sano antagonismo alla  banalità ed al quieto vivere. Non voglio dire che altrove sia necessariamente meglio (anche se spesso lo è) tuttavia rompere con la quotidianità per me è un esigenza quasi vitale.

Non ho nessuna intenzione di prendere in considerazione paradisi tropicali o altre mete generalmente ricercate: il mio habitat naturale è necessariamente il nord Europa, un posto dove decisamente mi sento a mio agio, nonostante sia altamente dispendioso offre in termini di civiltà, paesaggi, cultura e clima esattamente tutto ciò di cui ho bisogno per non appassire definitivamente, anzi per rifiorire proprio. A causa di problematiche varie soprattutto di tipo lavorativo ed economico negli ultimi anni non sono riuscito a spostarmi come vorrei, tuttavia prima di morire questi sono i tre viaggi che mi sono prefisso:

1. Scozia: I Romani li chiusero dietro al vallo di Adriano e solo per questo questa terra meriterebbe di essere visitata. Aggiungiamoci poi i paesaggi da sogno e il whiskey… personalmente non chiedo di meglio che affittare un Defender e girare dappertutto, spostandomi da distilleria a distilleria, possibilmente quando l’Erica fiorisce e ricopre deliziosamente il paesaggio. Da consumatore italiano, conscio quindi di avere a disposizione una selezione molto limitata di distillati,  ho eletto Oban come destinazione irrinunciabile:

Oban Distillery

2. Islanda: Se pensavate che il viaggio precedente fosse dispendioso aspettate di sentire questo: con lo stesso modello di jeep, il Defender di cui sopra, girare in lungo ed in largo l’isola islandese. Ovviamente un’ avventura da non affrontare in solitaria come mio solito, per l’occasione a seguirmi nel tragitto si ipotizza la presenza del secondo componente del duo bassistico più volte richiamato su queste pagine che, come primaria occupazione, presta la sua opera proprio su automobili e motori vari. Innumerevoli serate sono già state spese su google earth alla ricerca dei posti irrinunciabili da vedere, degli itinerari da seguire tra vulcani, geyser, distese sabbiose e cascate. Proprio una di queste è stata assunta a simbolo dell’intera impresa: le Svartifoss (cascate nere) caratterizzate dal fatto che la discesa d’acqua avviene in una cornice da sogno, circondata da colonne basaltiche esagonali nere:

Svartifoss

3. Il viaggio della vita: Oslo-Capo Nord in motocicletta! La chicca migliore, ovviamente, me la sono tenuta per la fine! Durante un viaggio in treno tra Oslo e Bergen mi sono accorto di quanto meravigliosa sia la terra di Norvegia, oddio lo immaginavo ma averlo visto in prima persona mi ha convinto che questo viaggio è una cosa che dovrò assolutamente affrontare prima di morire. Se gli altri viaggi si presentano dispendiosi, questo potrebbe richiedere un mutuo! Eppure dotatomi di un apposito mezzo affidabile (chessò di una BMW da turismo) affrontare il tragitto che, sappiatelo, è circa della stessa distanza che c’è fra Oslo e Roma (!) sarebbe il coronamento di un sogno decisamente esagerato anche per me. Ovviamente sono previste tutta una serie di tappe intermedie, non mi dispiacerebbe rivedere Bergen e Trondheim (bellissime) ma anche posti nuovi come Stavanger o, rigorosamente, le isole Lofoten!

Isole Lofoten

Sole di mezzanotte a Capo Nord!

Laura Filippi ART

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