Bonnie “Prince” Billy live @ Spazio 211 Torino 15/05/2024

C’era bisogno di qualcosa di bello, di aulico, di rincuorante dopo una giornata lavorativa piena delle solite tensioni, dei soliti non detti, dei soliti sotterfugi tra colleghi. Onestamente c’è davvero gente che ancora si diverte in questo modo, rendendo l’incombenza di un lavoro ancora meno sopportabile di quello che già è. E alla fine è necessario lasciarsi tutto alle spalle e salpare alla volta di Torino per raggiungere lo scopo. Come consuetudine degli ultimi giorni, piove tanto nel capoluogo. Fuori dallo spazio 211 è uno stagno e bisogna camminare come un etoile della Scala per non bagnarsi completamente i piedi.

Stasera suona Bonnie “Prince” Billy. Quando ho visto che veniva in concerto c’era qualcosa che mi diceva che dovevo vederlo. Come la maggior parte delle persone, forse, lo conosco grazie a “I see a darkness” e a Johnny Cash e anche ad una ragazza bolognese che seguiva questo blog millenni fa, forse quando ancora era su splinder, e che lo idolatrava letteralmente. Ok, forse non sono il massimo esperto per poterne parlare. Fatto sta che quando verso le dieci, quando tacciono le voci e parte a cantare con fuori la pioggia che tabureggia sulla città, è impossibile negare che si stia assistendo a qualcosa di assolutamente magico. La voce di Will in primis è pura magia, una vera meraviglia. Pensavo che fosse bravo, così tanto non era scontato. Strano tipo che è, sembra una sorta di camionista queer: cintura spessa, camicia a quadrettoni e cappellino col la retina sul retro ma poi eyeliner, smalto azzurro e polsini rosa, quasi fucsia. Si presenta sul palco con chitarra classica senza tracolla e due amici polistrumentisti del Kentucky, uno col sassofono e il flauto, imponente e con una vaga somiglianza con Russel Crowe, l’altro con cappello di paglia sorriso stampato, fender jazzmaster e clarinetto. C’è tutto, non serve altro.

Nella successiva ora e tre quarti è solo una voce, una chitarra e qualche strumento, tutti che volano altissimo. Grande spazio all’ultimo album con diversi estratti, ricordi sentitissimi (anche del recente grande scomparso Steve Albini, sia sempre lodato), canzoni più datate, sudore, brillantini sulle guance messi a scena aperta.

Per la mancanza della tracolla nella chitarra cambia mille posizioni (seduto, seduto sullo schienale, in ginocchio, accosciato con un piede sulla sedia, aventi e indietro) ma il risultato non cambia mai: ipnotizza, affascina e coinvolge. A tratti si disseta con del dolcetto (e, chissà perché, mi viene in mente Guccini) e, alla fine, rimane in canotta bianca a coste: volendo fare una battuta, quasi una versione redneck di Freddie Mercury. C’è spazio per fino per intonare una canzone di Mina, “L’ultima occasione”, della quale finge di non ricordare il testo, per poi esclamare “Mina forever!”. Probabilmente, come ci spiega, ha anche un po’ di DNA nel patrimonio genetico con un nonno di Torino emigrato a fare il calzolaio a San Antonio, Texas.  

Sulle prime c’ero rimasto male per il prezzo del biglietto, 25 euro, alla fine è valso ogni centesimo. Richiamato a gran voce sul palco dopo una prima interruzione non si risparmia e tira fuori dal cilindro altre tre canzoni con sommo gaudio di tutti quanti. Da qualche parte su bandcamp c’è scritto che la sua voce è una benedizione, non potrei essere più d’accordo.

La rivincita della musica strumentale

Premessa: Ho sempre avuto qualche problema con la musica strumentale, quella senza cantato. L’unica cosa che abbia mai seriamente tentato in campo musicale è stata cantare, forse è per quello. Comunque era ben difficile che mi appassionassi a un disco interamente strumentale, succedeva, ma era ben raro. Poi, a un certo punto è scattato qualcosa, soprattutto grazie ai Sabbia. L’ anno in corso, cominciato con quella bellissima serata al cinema, potrebbe benissimo rappresentare la rivincita della musica strumentale, almeno per quanto mi riguarda.

Parte 1: Dei Messthetics  avevo già parlato in occasione del loro concerto torinese del 2019, la sezione ritmica dei Fugazi, coadiuvata da Anthony Pirog alla chitarra, aveva già dato ampia dimostrazione del proprio valore. Ora va oltre e diventa un vero e proprio piccolo ensable jazz collaborando con il sassofonista James Brandon Lewis. Il risultato convince sotto tutti i punti di vista. Un disco ispirato e coinvolgente, che riporta anche alla mente molti grandi del genere e fa pensare che, effettivamente, alla formazione a tre mancasse qualcosa che hanno trovato adesso. Come se il sassofono avesse portato un maggiore equilibrio ed una maggiore completezza alle loro composizioni che ritmicamente rimangono ancora lontanamente imparentate con la band madre ma che, nel complesso, si muovono verso altri lidi altrettanto affascinanti.

Probabilmente non è un disco per tutti, soprattutto se eccessivamente nostalgici del passato di Brandon Canty e Joe Lally, ma se contemplate il jazz nel vostro spettro sonoro, un ascolto è doveroso. Credo proprio che non resterete delusi.

Parte 2. Quando ho saputo che arrivava a Biella Luca T. Maj degli Zu, ho avuto poche esitazioni nel voler andare a vedere di cosa si trattasse. Visto e rivisto molteplici volte nella sua band madre, stavolta torna in pista con componenti di altri gruppi (Zeus, Fuzz Orchestra…) con una nuova proposta che sono ansioso di scoprire. Decido però di non rovinarmi la sorpresa e non ascolto nulla prima. Arrivo all’ Hydro un po’ prima delle dieci con il mio solito compagno di avventura ci scoliamo una dab, invero un po’ impersonale come birra, e poi ci appropinquiamo all’ingresso. Iniziano i Sonic Wolves: si sente solo la batteria di quello che credo essere il batterista degli Ufomammut (non sono molto fisionomista e i suddetti non mi fanno proprio impazzire), gli altri strumenti non o poco pervenuti, il che mi fa già temere per il gruppo che effettivamente ero venuto a vedere. Dal casino della batteria emergono sporadicamente basso, voce e chitarra in maniera appena sufficiente per farmi capire che il chitarrista sa assolutamente il fatto suo mentre la bassista/cantante fa il suo senza troppi sussulti. Non sono particolarmente impressionato.

Il discorso cambia di molto con i Traum (sogno in tedesco): i suoni si mettono magicamente a posto e il quartetto, nel quale Maj si esprime soprattutto con diavolerie elettroniche e tastiere, restituisce una prova sfavillante. Una musica, manco a dirlo, onirica e psichedelica che spazia da certo kraut rock in odore di elettronica (il legame con la Germania in qualche modo si ripropone) a sprazzi di dub, in particolare un episodio nel quale Maj riprende in mano il sassofono. E in mezzo ci stanno mille sfumature sonore che sembrano in perfetta sintonia con certe proiezioni alle loro spalle, molto anni ’70, nelle quali si miscelano colori ed emozioni. Il tempo scivola davvero via tale è il coinvolgimento ascoltandoli.

Inizialmente ero quasi interdetto dalla sorpresa, ma già dal secondo brano mi avevano assolutamente catturato e così è stato fino alla fine. Il classico gruppo del quale ignori l’esistenza ma del quale poi non ti liberi più. Peccato per la scarsità di pubblico, tuttavia quelli che ci sono alla fine esplodono in un plauso sentito e sincero. Grandi Traum, ci mancavate e non lo sapevamo.

Alla fine torniamo a casa con due vinili e al banchetto ci dicono… Addirittura?

She reaches out

Il nuovo disco di Chelsea Wolfe mi arriva a casa dopo mesi di preordine, tanto che il fatto che dovesse uscire ad un certo punto, mi fosse uscito di testa. Era stato ordinato quasi in automatico, per la stima che mi lega all’artista, salvo che poi non mi ero fatto il conto alla rovescia ed alla fine è uscito. Dopo l’esperimento con i Converge, a parere di chi scrive riuscito soltanto a metà a distanza di qualche tempo adesso arriva questo disco dal titolo circolare e dalle atmosfere anni ’90. Perché comunque va detto che la Wolfe è cangiante nell’espressività e nonostante questo riesce a fare tutto bene nella maggior parte dei casi.

Fanno parte della sua espressività suggestioni acustiche, sferzate elettriche, abissi di droni e sfido chiunque a tenere legate le diverse anime mantenendo alto lo standard qualitativo della propria proposta. Lei ci riesce e le va dato atto di questo. Il primo brano che mi è giunto alle orecchie “Whispers in the Echo chamber” sa di Nine inch nails lontano chilometri, tanto da far quasi preoccupare: è un ottimo brano, peccato che Reznor certe cose le faceva già negli anni ’90, quando arriva la schitarrata sembra proprio che ci sia lui dietro a tutto quanto e che la registrazione arrivi proprio da dentro la casa di Sharon Tate. In tutto il disco si sente aria di citazioni, siano i Depeche Mode, i Killing Joke o Bjork. Una volta si chiamava “industrial” oggi non lo so. Fortunatamente, rispetto al primo brano, la personalità della signora Wolfe viene fuori alla grande nel disco: a proposito di Bjork una volta ebbe a dire che “l’elettricità c’è sempre stata, non è vero che la musica elettronica non ha anima, l’anima ce la deve metter l’artista” ed è esattamente ciò che la Wolfe fa.

Pochi artisti riescono a mettere così tanto di se stessi in quel che suonano, se le fonti di ispirazione, musicalmente parlando, si fanno sentire in questo nuovo disco, dal punto di vista lirico ed interpretativo il livello espressivo è assolutamente elevato. Prendendo spunto dalla personale battaglia contro la dipendenza da alcool e dalle esperienze di persone a lei vicine, riesce a rendere perfettamente il tumulto e l’impeto interiore di una persona che desidera rinascere e riscostruire se stessa, contando soprattutto sulle sue forze. Personalmente continuo a pensare che “Abyss” rimanga il suo lavoro migliore tuttavia non riesco ad individuare un solo lavoro debole nella sua discografia. Ogni episodio ha un proprio punto di forza e quello di quest’ultimo capitolo è quello di essere un’opera profondamente sentita ed ascoltando brani come l’intensa “Dusk”, la dilatata “Salt” ed il crescendo emotivo di “Unseen places” mi auguro che sia evidente anche al meno empatico degli ascoltatori.

Back in the days…

Intervista ai Carmona Retusa

Dopo aver parlato del nuovo disco, mi è sembrato naturale contattare i Carmona Retusa per fare un’intervista. Sono estremamente contento della loro risposta e sono orgoglioso di poter ospitare qui le loro parole legate al fantastico ritorno. Come immaginavo l’esperienza che si cela dietro al gruppo va oltre la classica routine estendendosi ad abbracciare la vita stessa dei componenti, in particolare quella di Benito che risponde alle domande di seguito:

Carmona Retusa -Fonte Facebook-

1. Togliamoci subito il dente, mi tocca chiedervelo. Chiunque abbia apprezzato il vostro esordio sulla lunga distanza se lo sarà domandato: cos’è succcesso dal 2018 a oggi? Sicuramente con l’apocalisse covid di mezzo è comprensibile che sia stata dura per qualunque gruppo tenere insieme le cose, ma è stato solo questo a far passare così tanto tempo tra un disco e l’altro?

R (Benito Antonio Carrozza): Rispetto al primo disco sono cambiati il batterista ed il cantante, due figure essenziali per una band come la nostra, quindi ripartire non è stato immediato, poi il covid di mezzo ha fatto il resto. Ma posso dirti che l’anima dei Carmona Retusa è sempre stata vivida e presente, e ci ha sostenuto anche quando la data di uscita del nuovo disco sembrava allontanarsi inesorabilmente. E’ un’anima multiforme ma con un’identità precisa.

2. Il disco nuovo è stato molto atteso ma sicuramente avrà ripagato chi vi segue, infatti si tratta ancora una volta di uno splendido lavoro. Tre etichette, uno studio nel quale, mi pare di capire, vi siete trovati molto bene, suppongo tanta voglia di tornare sul palco… come sono andate le cose durante la registrazione?

R: Abbiamo registrato all’Oxygen Studio di Paride Lanciani in provincia di Cuneo, un’esperienza indimenticabile, giorni semplicemente perfetti, al di là della resa del disco, sono stati momenti incredibili per noi. Lo studio è caratterizzato dalla presenza di strumentazione per registrare in analogico, ed è stato pensato assieme a Steve Albini degli Shellac (un mio idolo assoluto in fatto di registrazioni! n.d.a.). Abbiamo registrato in presa diretta per restituire la dimensione del live, abbiamo tenuto anche degli errori. Paride si è occupato anche di mixare e masterizzare il disco, eravamo incantati dalla sua esperienza e competenza, oltre che essere una persona speciale che rimarrà sempre nella storia dei Carmona.

3. Molti gruppi si concentrano molto sulla musica, tenendo i testi un po’ a margine come se fossero da mettere in secondo piano rispetto alla musica. Sicuramente non è questo il vostro caso. Si capisce dopo tre strofe dei testi di Benito. Il primo disco aveva come nume tutelare Andrea Pazienza, questo sembra invece pescare direttamente dall’esperienza diretta, in molti momenti si percepisce quasi la frustrazione trasudare dalle parole… ovviamente però c’è molto altro dietro: vi va di parlarcene in maniera un po’ più diffusa? (a proposito: complimenti!)

R: (grazie!) sì per noi i testi hanno sempre rappresentato un valore che vogliamo si aggiunga alla musica. Noi componiamo prima la parte strumentale, poi in base alle atmosfere di ogni pezzo, e a quelle presenti nella mia testa, viene scritto il testo. In questo disco ho cercato di andare anche oltre le mie esperienze dirette, cercando di “vivere” situazioni estreme per agguantare quello che riguarda non solo me. L’idea era quella di iniziare a rompere lo specchio dell’auto-riflessione, che porta a raccontare sempre e solo di sé stessi, ma aprire le finestre per iniziare a vedere cosa c’è fuori. I sogni notturni, quelli che non possiamo decidere di vedere, sono stati le mie finestre in questi anni.

4. Diciamo qualcosa anche sulla copertina: è così bello vedere qualcuno che ancora produce dischi con copertine affascinanti, l’edizione su vinile assolutamente gli rende giustizia. Nasce da una collaborazione diretta con l’artista, ha sentito i vostri brani e ne ha tratto ispirazione o ha fatto tutto autonomamente?

R: L’artista è Liliana Caruso, in arte Dolce Mattatoio. E’un’illustratrice e tatuatrice di un talento straordinario, oltre che nostra amica da tempo. Per diversi anni la nostra sala prove è stata la sua rimessa, e con lei avevamo collaborato per un disegno del primo tour. E’ stato del tutto naturale rivolgerci a Liliana per “CENTO OCCHI URLANTI”, non le abbiamo dato nessuna indicazione, semplicemente ha ascoltato i pezzi ed un giorno è arrivata con sei illustrazioni… Il suo immaginario onirico-erotico ci è sembrato racchiudesse, ed aprisse, sia gli undici pezzi del nostro nuovo disco, che cinque anni delle nostre vite.

Il Vinile di “Cento occhi urlanti” -Fonte Facebook-

5. Parlavamo prima di Andrea Pazienza: c’è qualche altro artista (fumettista, musicista o altro) che sentite vicino e che magari vi ha ispirato?

R: Indubbiamente per questo disco è James Hillman la figura che ci ha influenzato maggiormente. E’ stato uno psicologo del profondo, allievo di Jung, e i suoi scritti mi hanno accompagnato nel corso di questi anni difficili anche dal punto di vista personale. Ogni volta che entravo in sala prove dovevo sottoporre agli altri tutte le riflessioni e ispirazioni che i suoi libri facevano scaturire in me con una rigogliosità che non avevo mai provato prima. Quindi è stato con naturalezza che il suo pensiero si è intrecciato alla nostra musica e ai nostri testi. Il libro più rappresentativo in questo testo, e lo intuisci anche dal titolo, è il suo “Il sogno e il mondo infero”, che potrebbe tranquillamente essere il sottotitolo del nostro nuovo disco.

6. Voi siete di Torino, una città che ha dato tantissimo in termini musicali. Non serve, o forse sì, che io stia qui a ricordare che è la città di Negazione, Nerorgasmo, Fluxus e, in tempi recenti, Tons e Turin Horse, solo per citare i primi che mi vengono in mente. In che rapporto siete con la città e con la musica che ha prodotto negli anni?

R: La premessa è che noi amiamo Torino, anche per gli artisti che hai citato. Mi viene naturale estendere al cuneese i vari riferimenti musicali, perché ad esempio per noi Ruggine, Cani Sciorri e Dead Elephant sono ascolti prioritari (sono assolutamente d’accordo, in particolare è bellissimo sentire qualcuno che cita i Dead Elephant: erano assolutamente grandiosi! n.d.a.). Detto questo forse per un periodo abbiamo temuto una certa mancanza di ricambio generazionale, ma adesso ci sono realtà come il collettivo emo Turin Moving Parts dove diversi ragazzi si stanno dando da fare per tenere viva una certa scena.

7. Restando in tema di Torino… mi sono sembrate incredibili le vicissitudini che hanno portato alla (quasi) chiusura di uno dei miei locali da concerto preferiti (lo spazio 211), per contro il Blah blah, sta avendo un riscontro non da poco e organizzando fior di concerti, ci sono poi delle realtà nelle vicinanze come Last one to die crew, che resistono con le unghie e coi denti… se ne avete esperienza, com’è la situazione dalle vostre parti?

R: Questa risposta si collega un po’ alla precedente. Credo che Spazio 211 nel frattempo abbia riaperto (in effetti pare che, in qualche modo si stiano rimettendo in piedi: forza! n.d.a.), al Blah Blah abbiamo fatto entrambi i release party quindi per noi è un posto unico, oltre ad esserlo per l’intera realtà torinese. Non posso non citare anche lo Ziggy di Giulio Forsi, che ha dato e dà tantissimo spazio all’underground torinese e non. Mi viene in mente anche il Magazzino sul Po e i tanti centri sociali che tengono aperte le porte nonostante l’inquietante clima attuale.

Release party Blah blah Torino -Fonte Facebook-

8. Date l’impressione di essere un gruppo estremamente “fisico”, si percepisce quasi a pelle l’enfasi irruenta delle vostre note e nonostante questa istintività che emerge preponderante si avverte anche una cura estrema nei suoni, si tratta di un processo di ricerca meticoloso, tra strumenti effetti, amplificatori? Come siete riusciti a sviluppare un suono così personale?

R: Su questo abbiamo avuto un’idea piuttosto chiara, cioè quella di “togliere” il più possibile per cercare di avere ed arrivare all’essenziale. Per aiutarci in questo abbiamo degli strumenti in alluminio realizzati da “Nude Guitars”, io al basso ad esempio non uso nessun tipo di effetto, l’unico pedale che mi è rimasto è l’accordatore. Il chitarrista si limita ad avere un distorsore ed un riverbero, per il resto cerchiamo di affidarci al suono più puro e netto possibile sia in fase di composizione che live.

9. Parliamo un po’ dei concerti… Io ho avuto l’enorme sfortuna di mancarvi per un soffio quando avete supportato gli Unsane con i Cani Sciorri, e, purtroppo, mi sono perso anche il release party di qualche giorno fa… avete qualche ricordo o aneddoto da raccontare in merito ai live passati?

R: Suonare in giro significa avere a che fare con posti, situazioni e soggetti molto improbabili. Ovviamente la metà della bellezza sta proprio in questo. Ricordo con affetto quando suonammo a Bari e dei ragazzini, all’epoca sbarbatelli, si avvicinarono a noi per chiederci se potessero citare un nostro brano (Piangere, del primo disco) durante i live della loro band. Noi ovviamente gli rispondemmo di sì, così rimanemmo in contatto. Qualche tempo dopo inviarono a me, per la coproduzione con la mia etichetta Rodomonte Dischi, il loro primo lavoro… semplicemente una bomba, loro si chiamano STREBLA, e consiglio a chiunque di ascoltarli. E’ stato bello vederli poi in tour e suonarci assieme qui a Torino, a breve usciranno con un altro lavoro pazzesco. Insomma si creano delle situazioni umane e musicali che vanno veramente “oltre”.

Eccoli qua:

10. Adesso supporterete il nuovo disco con altre date (così magari posso passare a salutarvi?), c’è già qualche data da segnalare?

R: Sì a breve usciremo con un tour che ci porterà a toccare molte città, la volta scorsa me ne occupai io, ma adesso è stato il nostro batterista Andrea che sta organizzando le varie traversate su e giù per la penisola e forse anche oltre. Per questo chi volesse rimanere aggiornato, è tramite le nostre pagine social che può farlo.

Ti ringrazio per l’intervista e la disponibilità!

Grazie a voi, davvero, per le belle risposte, non ho voluto mettere troppe note ma sappiate che ho annuito tutto il tempo durante la lettura con un sorriso in faccia. Spero che dall’ intevista emerga il valore artisitico e umano del gruppo: i Carmona Retusa sono una bella realtà, da supportare assolutamente. Di seguito i loro contatti:

Facebook

Instagram

Youtube

P.s.: Ancora grazie a Frank e a Blog thrower per avermeli fatti conoscere!

Sunn 0))) dal vivo al Live Club di Trezzo sull’ Adda 20/09/2023.

Mi trovo sempre molto in difficoltà a parlare di un concerto dei Sunn 0))). Forse perché non è un concerto: è un’esperienza, una liturgia, un rituale, un… qualcosa di diverso che si fa molta fatica a spiegare ai profani. Quello che posso dire è che nessun filmato, nessun disco o supporto fonografico, nessun media in generale può prepararvi a quello che sono i Sunn 0))) dal vivo. Per capire se vi piacciono o meno l’unica soluzione è vederli suonare di persona, credo che sia una sintonia che nasce a pelle e che, se si instaura, poi non ti lascia più, obbligandoti a comprare i loro dischi e a rivederli tutte le volte che riesci.

All’inizio di questa esibizione una cosa mi ha stupito. Cessata la musica di sottofondo (come al solito una cosa abbastanza fuori luogo), poco prima che iniziasse l’esibizione, c’era un silenzio irreale, quasi tutti smisero di parlare e fare rumore quando si sono spente le luci…. Poco prima qualcuno aveva gridato “fateci male!”, un siffatto incitamento mi ha lasciato a dir poco perplesso, au contraire, a me i Sunn 0))) fanno bene. Credo siano una delle massime espressioni della chiesa del rock’n’roll: quel culto che ha come candele le valvole, come altari i palchi, come sacerdoti i musicisti, come funzioni i concerti e così via. Intensi, meditativi, grevi… eppure spirituali alla massima potenza. Il fumo, le luci, i suoni servono proprio a farti raggiungere l’elevazione, a farti trascendere e quando smettono di suonare è come se ti ritrovassi di colpo nel mondo reale e non sapessi cosa fartene. Sei appena stato altrove per un’ora e mezza, hai dimenticato tutto e tutto ciò che ti ha invaso la mente erano luci, fumo e un suono in grado di farti vibrare ogni molecola che tu lo voglia o no. Nessun altro gruppo è in grado di fare una cosa del genere.

E il discorso potrebbe esaurirsi qui. Poi rimangono le questioni di contorno:

Il live club di Trezzo sull’ Adda è un posto troppo canonico per un loro concerto… il miglior concerto per atmosfera, resa sonora e scenica fu quello alle carceri storiche di Torino qualche anno fa, vi lascio immaginare il perché. Sulla carta anche il labirinto della Magione sarebbe stato suggestivo, ed in effetti fu un grande concerto, però credo che all’ aperto rendano meno che in un locale chiuso… Anche se, se è vero che in quel luogo dimora anche Sgarbi, vederlo spettinato dall’onda d’urto non avrebbe avuto prezzo.

La formazione a due (Greg Anderson e Stephen O’ Malley, per l’occasione sbarbato) è la mia preferita, apprezzo anche Steve Moore, Attila Csihar e compagnia, ma il duo rimane il duo, meno fronzoli più muro del suono e monoliti sonici a valanga. Le aperture e le sperimentazioni rimangono una gran cosa, però un concerto duro e puro non lo vedevo dalla prima volta che li vidi a Bologna, in occasione dell’anniversario dei Grimmrobe demos ed in effetti mi mancava ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo oooh.

Worshipping the tubes… Yeah!

Melvins live Torino 11/07/2023

Parlare di un live dei Melvins è quasi impossibile per me: li ho visti oramai costantemente ogni volta che sono venuti dal 2007 in poi. Conosco le canzoni, l’atmosfera, la criniera di King Buzzo e se a fine concerto ci facessimo una birra insieme potrei anche dire che siamo amici. La data nel parchetto dietro allo Spazio 211 di Torino è comunque un evento che non volevo perdermi anche perché quest’anno festeggiano i 40 anni (!!!) di onorata attività. Comincio col dire che non faccio mistero della mia antipatia per il loro attuale bassista cui spero tocchi in sorte quanto prima ciò che è successo a chi l’ha preceduto ovvero venire dismesso in malo modo.

Nonostante le parole di elogio spese da mr. Crover in persona durante il concerto a me continua a non convincere. Non è un incapace, altrimenti non suonerebbe con loro ma quando chi ti ha preceduto si chiama Mark Deutrom (il mio preferito), Kevin Rutmanis, Joe Preston, Trevor Dunn o anche solo Jeff Pinkus è ovvio che hai un compito difficile. Compito nel quale lui non riesce…

– per attitudine: è un buffone fatto e finito che si permette di prendersi fin troppo la scena, senza avere un centigrammo del carisma degli altri due.

– per come suona: stasera tira fuori dei “suonini” che sanno tanto di presa per il culo e che non dovrebbero uscire dal basso dei Melvins.

– per le sue origini: il suo gruppo “madre”, tali red kross (o come cacchio si scrive) fanno davvero pietà. Sembrano degli Who spompati, e per spompare gli Who ce ne vuole!

Detto questo, il concerto riprende molti dei loro classici, alcune cose inaspettate (“I want to hold your hand dei Beatles, per dire…) e c’è da dire che non deludono: ciò che fanno lo fanno bene, assolutamente all’altezza della loro fama pluridecennale. La pecca è, forse, la durata risicata: un’ora e quindici minuti con il loro repertorio è decisamente un po’ poco. Magari è il caldo (comunque King non rinuncia alla sua veste solita da un po’ di anni a questa parte), l’età che si fa sentire (59 anni King e 56 anni Dale) o chissà cos’ altro comunque era lecito aspettarsi una durata superiore anche perché non sono certo dei personaggi che si siano mai risparmiati.

Ho voluto essere pignolo, perché gli voglio bene. Adesso dimentico queste due cose e mi rendo conto che oramai sono delle leggende viventi e che ho avuto la fortuna e l’onore di vederli dal vivo per l’ennesima volta. Che non sia mai l’ultima.

The Obsessed live @ Blah Blah Torino 15/06/2023

E venne anche il momento per gli Obsessed che finalmente giungono in Italia dopo anni di assenza. Sono l’ennesima testimonianza di come la tenacia, la necessità e la forza di volontà giochino un ruolo fondamentale nel tenere in vita un gruppo. Scott “Wino” Weinrich non ha bisogno di presentazioni, è sulle scene da sempre, come solista, con mille altri gruppi (Hidden Hand, Spirit Caravan, Probot, Shrinebuilder e, ovviamente, St. Vitus) e con la sua primissima creatura che vide la luce nel 1976, gli Obsessed. Sembra incredibile vederlo ancora sul palco, eppure è una figura titanica quella che spicca nei palchi piccoli che lo ospitano. Un uomo di oltre sessant’anni che ancora non demorde fosse anche solo per pochissimi presenti. lui c’è e ci sarà, non può essere nulla di diverso da quello che è, aggrappato alla propria arte con le unghie e con i denti.

Passato più o meno indenne a mille traversie, riprende in mano la sua creatura (così come i Saint Vitus sono quella di Dave Chandler) e ritorna a calcare le assi di mezzo mondo. Ed è dannatamente in forma. Con una formazione rinnovata per l’ennesima volta, ora con due chitarre, sono in grado di esibirsi senza fronzoli e solidi come una roccia fiera di fronte alle intemperie. Finalmente anche il suono del Blah Blah è all’altezza della situazione: si sente tutto forte e chiaro e a tratti percepisci quasi il suono sulla pelle.

Suonano poco più di un’ora che però sembra passare alla velocità della luce, intensa e colma di emozioni e per questo appare molto più fugace di quanto sia stata in realtà. Oltre a brani tratti dai classici album del gruppo c’è spazio anche per due estratti dal nuovo disco che, secondo le speranze di Wino potrebbe uscire antro la fine dell’anno. Non son tipi da dar troppo peso alle scadenze però il disco promette bene e sarà un piacere ascoltarlo così come lo fu con Sacred, l’ultimo rilasciato, e con tutti i dischi dove Wino si è ritrovato a suonare che molto raramente hanno deluso le aspettative.

Se cercate il vero spirito del rock’n’roll non guardate nelle grandi arene ma nei grandi uomini che hanno glorificato questo genere. Guardate verso quelli che non demordono e non arretrano di fronte a nulla, verso coloro che accanto al cuore hanno una valvola incandescente che non vuole saperne di spegnersi.

Unsane live Festa Radio Blackout Torino 03/06/2023

Ci suono uomini che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Chris Spencer è uno di questi. Quando aveva sciolto gli Unsane mi ero definitivamente rassegnato (dopo averli visti svariate volte) a non rivederli mai più. Ed era comprensibile: Vincent Signorelli aveva mostrato più volte degli evidenti problemi fisici al ginocchio e gli stessi Spencer e Curran non erano più propriamente dei giovincelli, Oltre a questo l’intensità di un concerto degli Unsane è qualcosa di difficilmente raccontabile a chi non ne è mai stato testimone.

Nessuno può dire che si risparmino. Mai. Tutti e tre sono sempre stati sugli scudi e li ho sempre visti provati a fine esibizione, tanto che era legittimo sempre chiedersi come avrebbero fatto il giorno dopo. Eppure andavano avanti, sempre. Oramai la formazione Spencer, Signorelli, Curran era consolidata da anni e, sciolta quella, era lecito aspettarsi che la strada finisse per gli Unsane.

Infatti era partito l’interessante progetto Human impact per l’indomito Spencer deciso a non mollare. Il materiale del gruppo era anche degno di nota, dove la base Unsane rimaneva assolutamente presente ma con diverse nuances di stampo post-industriale. Poi, a un certo punto, le cose cominciano a smuoversi.

L’avvento del COVID tarpa un po’ le ali al nuovo progetto che è costretto a cancellare diverse date. Nel frattempo Spencer ritrova, chissà come, il materiale che avrebbe dovuto costituire il primo disco degli Unsane, lo rimasterizza e lo fa uscire attraverso una neonata etichetta (Lamb Unlimited) e spergiura che a breve anche il primo lavoro omonimo della band, originariamente uscito per Matador e fuori catalogo da anni, subirà lo stesso trattamento. A quel punto, visto lo scioglimento, il mio vecchio cuore di fan comincia seriamente a sussultare anche perché il suddetto primo disco aveva raggiunto quotazioni sui 100$ su ebay e discogs e io sono diventato fan parecchio tempo dopo la sua uscita.

Tralasciando questo, succede l’imponderabile. Spencer comincia a provare con due (quasi) sconosciuti le primissime composizioni del gruppo che non venivano suonate da anni. La cosa funziona, il trio trova affiatamento e coesione, dopo poco si inizia a parlare di date dal vivo. Questo genera parecchia confusione: in molti pensano al rientro della formazione che aveva lasciato qualche anno prima, complice anche qualche promoter che utilizza vecchie foto del gruppo. La cosa fa abbastanza irritare Signorelli e Curran che proclamano da subito la loro estraneità alla cosa. Ma Spencer non si ferma, parte in tour con i suoi nuovi compagni e in pochi mesi, sbloccatasi la situazione pandemica, inizia un tour di concerti che, con qualche pausa sta andando a toccare parecchie località negli USA, in Europa e, pare, presto anche in Australia. Sabato scorso, in occasione della festa della radio autonoma per eccellenza di Torino, Radio Blackout, abbiamo finalmente avuto l’occasione di vedere i risultati degli sforzi dell’instancabile Spencer.

In una vecchia intervista gli Slayer dichiaravano di aver sempre avuto enormi problemi con i gruppi di supporto che regolarmente venivano bistrattati dal loro pubblico. L’unico gruppo che non subì mai questo trattamento furono gli Unsane, e chi li ha visti almeno una volta dal vivo sa il perché. A fronte del concerto di sabato posso dire che è ancora così. Sono semplicemente devastanti.

Tutti gli interrogativi della vigilia vengono fugati nel giro di una, due canzoni. I due sostituti si dimostrano fin dal primo momento all’altezza della situazione, tanto che lo stesso Spencer sembra molto meno serio di come me lo ricordavo… parte subito franando addosso al bassista che crolla sulla pedaliera causando una clamorosa falsa partenza che lascia tutti di sasso. Dopo poco riescono a ripartire peccato che questo episodio scateni nel pubblico una gran voglia di darsi da fare causerà non pochi problemi all’esibizione.

Si intuisce subito che Chris è in gran forma e gli altri due gli tengono dietro alla grande. Il più in difficoltà è il bassista, non tanto per sua imperizia, quanto per essere continuo bersaglio delle intemperanze del pubblico che continua ad esagitarsi franando più di una volta su pedaliere cavi e armamentario vario tanto che alla fine di un brano diranno “Thanks for letting us finish the song!”, ma anche “stop doing crazy shit or we won’t be able to play”. Tuttavia, al netto delle interruzioni e delle intemperanze, quello di sabato si è dimostrato un grandissimo concerto. Spencer come sempre da il 101% delle forze, urla, maltratta la povera telecaster nera, suda come un pazzo: la sua leggendaria smorfia di dolore mentre canta è sempre lì, ora come trenta e passa anni fa.

Rimpiazzare due mostri sacri come Signorelli e Curran non dev’essere facile. I nostri, tali Cooper (già nei Made Out Of Babies di Julie Christmas) e Jon Syverson (ex- Daughters), suppliscono con l’energia e la determinazione al carisma e alla bravura dei predecessori. Soprattutto il batterista stupisce: pur non avendo il tocco di Signorelli, mena come un ossesso e non smette mai di suonare (a parte quando i guai tecnici allungano a dismisura le pause), nemmeno tra un brano e l’altro come a dire: noi siamo qua e non molliamo di un centimetro, poi quando è ora, da un quattro sul charleston e si riparte.

In definitiva il concerto ci restituisce un gruppo in piena forma, nonostante non si contino quasi più gli anni che ci separano dall’ esordio. Appaiono affiatati, coesi e massicci, con un più un’iniezione di gioventù che negli ultimi tempi era decisamente assente. Eviterei troppi paragoni col passato: se vi capita andate a vederli e capirete perché l’operazione di rinnovo della formazione effettuata da Spencer ha un senso, al punto di rendermi assolutamente curioso circa quello che potrebbero combinare qualora decidessero di registrare del nuovo materiale come sembrano intenzionati a fare. Circa i due grandi esclusi dal progetto, adesso il mio sogno è che entrino a far parte dei Melvins come a suo tempo avevano fatto i due Big Business, quando il gruppo di King Buzzo aveva due batteristi in formazione, scalzando finalmente quel buffone con il nome da fast food che li sta palesemente rovinando adesso.

A proposito dell’esordio: alla fine avevo ceduto acquistandolo dagli States per circa 45 sudatissimi euro. Li avevo dati per morti troppo presto: al banchetto si potevano trovare delle copie vendute a 25, alla fine me lo merito: mai sottovalutare la determinazione e la voglia di suonare (“I love what I do” dirà durante il concerto) di un personaggio indispensabile come Chris Spencer.

Aggiornamento: siamo stati anche al Rock In Riot di Bergamo… Bel festival!

Fare musica ha le sue leggi.

Alla fine chiunque si dica amante della musica dovrebbe almeno provare a farla una volta. Capirebbe molto di più delle dinamiche che stanno dietro ai gruppi, alle sale prove, alle registrazioni e così via. Soprattutto, chi ascolta, tende a banalizzare molti dei processi che stanno dietro a quello che normalmente si identifica con la musica. Non ci sono solo palchi e canzoni, anzi, sono appena la punta dell’ iceberg. Registrare un brano è abbastanza lontano dal mettere un gruppo in una stanza e premere il tasto rec. Suonare un concerto non è solo salire su un palco attaccarsi agli ampli e cominciare a strimpellare. Far nascere una canzone è un processo che difficilmente riesce di getto. Tutto è parecchio più incasinato di quanto si pensi.

Il pregio è che arrivi a capire delle leggi perentorie quanto quella di Murphy e altrettanto preoccupanti. La musica non sarà mai più solo quella cosa che esce dalle cuffie o dagli altoparlanti.

Legge di Byrne sulla musica: Pensare di riuscire a scrivere un libro esaustivo su come funziona la musica è utopico. Però ci si può provare.

Prima legge del silenzio di Cage: Alcune volte è impossibile suonare e basta. Ognuno entra in saletta con le sue idee e deve esprimerle per forza.

Seconda legge del silenzio di Cage: Evitare le menate è un traguardo spesso irraggiungibile.

Assioma di Crew: Tutto funzionava perfettamente un minuto fa.

Legge di Arantes sulla composizione: Per quanto tu abbia in mente una composizione nei minimi dettagli, il risultato finale sarà differente.

Assioma di Valentine sugli effetti delle chitarre: Gli effetti dei chitarristi si moltiplicano come i Gremlins bagnati. La quantità di effetti è direttamente proporzionale alla disponibilità finanziaria del chiarrista. La maggior parte di essi sono inutili, emettono suoni sgradevoli e faranno zittire la chitarra nel più bello dell’ esibizione.

Assioma di Bozzio sulla batteria: I pezzi della batteria non sono mai abbastanza. Crescono esponenzialmente con il crescere del patrimonio del batterista. Oltre a un certo numero sono inutili o emettono differenze di suono non udibili da essere umano, oltre che essere odiosi da montare, smontare e disporre sul palco.  

Legge di Lombardo: Registrare le parti di batteria è un casino fottuto. Se cambi i pezzi della batteria a ogni brano diventa un calvario.

Legge di Taylor: I batteristi mancini sono la maledizione dei festival con diversi gruppi in cartellone.

Teorema di Fallon: Sentire decentemente gli strumenti o la voce in spia è un’ utopia.

Dimostrazione del teorema di Fallon:  Ogni strumentista diventerà inconsapevole di ciò che sta suonando un secondo dopo essere salito sul palco.

Corollario al teorema di Fallon: Qualunque cantante che non riesce a sentire ciò che canta è un pessimo cantante.

Primo principio di Current: Attaccare tutte le utenze necessarie per suonare ad un’ unica presa non è una bella idea, ma a volte non c’è scelta.

Secondo principio di Current: Le ciabatte non sono mai abbastanza.

Terzo principio di Current: Le prolunghe non sono mai lunghe abbastanza.

Quarto principio di Current: Il cavo in più che ti serviva è rimasto in sala prove.

Quinto principio di Current: Ad Libitum.

Detto di Tesla applicato ai concerti: La terra è un’ immensa cassa di risonanza. Ciò risulta inutile se non c’è nessuno che ascolta.

Assioma di Scrooge: Suonare gratis spalanca le possibilità di esibirsi.

Primo corollario all’ assioma di Scrooge: Pagare per esibirsi uccide l’arte, questo non esclude che succeda. Spesso e volentieri.

Secondo corollario all’ assioma di Scrooge: Dare per scontato che le bevande consumate dalla band siano gratis può portare a spiacevoli malintesi.

Terzo corollario all’ assioma di Scrooge: Spesso il cibo viene offerto alla band. Con le dovute eccezioni sul menù.

Assioma di Buell: Le groupies non esistono, se esistono seguono altri gruppi.

Legge di Stage: Sii il roadie di te stesso, nessun altro lo farà.

Legge della teoria musicale: La musica è un mezzo, non un fine.

Corollario alla legge della teoria musicale: Chiunque non sia d’accordo con la legge della teoria musicale, suona ma non comunica.

Legge delle Cover band: Le cover band suonano e guadagnano di più, ciò è inversamente proporzionale al loro valore artistico.

Legge degli strumenti musicali: Esistono musicisti innamorati del proprio strumento ma non innamorati della musica.

Legge di Onan applicata al suono: La ricerca del suono perfetto è un’ operazione assimilabile alla masturbazione.

Corollario alla legge di Onan applicata al suono: Il suono perfetto non esiste.

Applicazione pratica della legge di Onan applicata al suono: Se vuoi un suono decente fatti accompagnare da un fonico di fiducia.

Suprema legge di Kilmister: Se pensi di essere troppo vecchio per il rock’n’roll allora lo sei.

Estensione della legge di Kilmister: Non esiste musica per i giovani, esistono vecchi che ascoltano la musica e spesso esprimono pareri non richiesti.

Suprema legge di Nietzsche: La vita senza musica sarebbe un errore.

Nonostante tutto questo c’è chi suona in un negozi di dischi… e lo fa benissimo.

Back To Babylonia

Per molti anni parlare di Biella ha significato parlare di industrie tessili, poi è arrivato il famigerato mobilificio Aiazzone e quidi il nulla o quasi, se si escludono Pistoletto e la serie di Zerocalcare. Io ho la speranza che la città nei pressi della quale vivo venga ricordata dagli appassionati di musica per quel locale che a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio dei duemila ha significato così tanto per i biellesi e non solo: Il Babylonia. Il primo contatto col locale l’ho avuto tramite Aldo, quello che poi sarebbe diventato il padrone del locale. Nel suo negozio di dischi (prima Fragole e panna e poi Paper moon, resiste ancora con un’altra gestione) mi disse che voleva aprire un club per la musica dal vivo che fosse un po’ esclusivo e che per accedervi sarebbe stato il caso di fare la tessera dal costo, per me all’ epoca non irrisorio, di 20000 lire.

Non se ne fece nulla per qualche mese, false partenze, situazioni poco chiare e un concerto fantasma dei Radiohead che, alla fine, non ho mai capito se abbiano o meno suonato nel locale. Alla fine però riuscì a partire e fu un punto di riferimento costante almeno per il nord-nord ovest del paese. Il primo concerto che ci vidi fu Cyco Miko e fu pazzesco: prima loro, poi gli Infectious Grooves e, in fine una jam sesion finale con 6 brani dal primo disco dei Suicidal Tendencies. Alla fine nemmeno mi ricordavo più delle 20000 lire iniziali finite chissà dove. Continuò in questo modo per un decennio circa, portando a pochi chilometri da casa gruppi che prima, se eri fortunato, passavano a Torino o Milano. Fu un’epoca gloriosa, potevi andarci al pomeriggio e salutare i gruppi prima del soundcheck, entrare dopo una certa ora quando Aldo apriva i cancelli oppure passare e stare fuori a chiacchierare con qualcuno con un’opportuna dose di birra nel bagagliaio.

Sabato scorso, presso il nuovo Hydro, sempre a Biella, ha avuto luogo Back to Babylonia: una giornata per ricordare il locale con interviste a vecchi frequentatori (tra cui il sottoscritto) e concerto con dj set in serata. A dire la verità il progetto di raccogliere materiale sui concerti (foto, video, registrazioni, locandine etc…) era già partito molto prima, poi è arrivata la pandemia e il progetto si era un po’ arenato, ora pare stia ripartendo e speriamo che porti a un giusto ricordo di quello che è stato e di ciò che ha significato il locale .

Non è solo una questione di nostalgia, è proprio una celebrazione di un posto che, a ripensarci, sembra incredibile sia esistito veramente. Risedersi sugli stessi divanetti per farsi intervistare (chissà come li avranno recuperati), non lo nascondo, mi ha fatto effetto, essendo fiducioso che, nel frattempo, qualsiasi residuo, di qualsiasi tipo, fosse abbondantemente defunto.

Nell’intervista varie domande e una simil conversazione con altri due ex-frequentatori del luogo, uno addirittura giunto da Torino, nella massima naturalezza. Poi l’intervista individuale con la classica domanda: “quali sono stati i tre migliori concerti visti al Baby?” sui primi due non ho avuto dubbi. I Neurosis furono stupefacenti con le proiezioni,  i loro brani apocalittici (credo che lì li vidi nel tour di “Times of Grace”) e la sensazione che fossero in grado di polverizzare chiunque dal vivo, poi i My Dying Bride (era il tour di “Like gods of the sun”) con i quali ci intrattenemmo un intero sabato pomeriggio e il terzo… nell’indecisione ho detto Voivod, ma col senno di poi direi sicuramente Queens of the stone age o Unida. Senza parlare del clamoroso exploit dei CSI che poi finirono per suonare al palasport per la troppa richiesta durante il tour di “Tabula rasa elettrificata”.

In serata mi sento di parlare solo del fantastico concerto dei Sabbia, il resto me lo sono un po’ perso salutando varia gente e gravitando attorno al bar. Però i Sabbia hanno dato vita a un concerto veramente speciale, come se non bastasse il disco (“Domomentál”, di cui ho già disquisito) che si è già inserito prepotentemente fra i miei preferiti per l’anno in corso, dal vivo sono stati qualcosa di assolutamente coinvolgente: un’ora circa di magia onirica, un’ atmosfera desertica e torrida, qualcosa che ti colpisce con  quella fisicità in più che solo un concerto dal vivo finalmente intenso può regalare, forse l’unica cosa impossibile da trasportare completamente su disco.

Quasi vent’anni dopo è un piacere constatare che abbiamo ancora qualche motivo per essere fieri della terra che ci ospita e questi sono i Sabbia e vederli dal vivo ha sicuramente consolidato quest’impressione. Il problema è che mi riesce difficile parlarne perché l’atmosfera che creano rende ardua qualsiasi razionalizzazione o descrizione. Come diceva Battiato “È bellissimo perdersi in quest’incantesimo” e quindi vi lascio tre dei loro brani. Il consiglio è quello di lasciarsi trasportare, fidatevi.

Laura Filippi ART

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