Nostalgia, inquietudine e podcast infernali.

Esiste una cosa con la quale ogni metallaro deve fare i conti prima o poi. Non si scappa, soprattutto non ci fanno scappare da questa tematica i fatti di cronaca che inchiodano alcuni sedicenti ascoltatori di metal alle loro responsabilità che non possono essere eluse né dimenticate. È un fardello che chiunque asolti metal si vede costretto a portare e che viene raccontato da Antonio Cristiano (e collaboratori) in due podcast “Helvete” e “Bestie”. Ovviamente non ci sono solo quei fatti di cronaca, potremmo citare anche gli Absurd in Germania o altre situazioni che magari hanno avuto meno risalto da parte dei media.

Si tratta, riducendo la cosa ai minimi termini, dell’ omicidio di Euronimus (e di altri fatti legati alla scena norvegese come l’omicidio da parte di Frost e delle chiese bruciate) e dei fatti di cronaca legati alle bestie di satana in Italia (ancora omicidi, Chiara Marino, Fabio Tollis e altre morti collegate). Delle pagine oscurissime legate alla musica metal e dei risvolti giustamente indelebili nella memoria comune. Riascoltare quei podcast mi ha scatenato una serie di ricordi e qualche inquietudine. I ricordi sono legati essenzialmente al fatto di aver vissuto all’interno della scena in quegli anni, seppure molto di striscio rispetto ai protagonisti o a gente molto più a contatto con certe realtà. Nei primi anni dei ’90 ero a Milano praticamente tutti i fine settimana, ho frequentato tutti i negozi di dischi più famosi dell’epoca (da Maryposa al Soundcave, passando per Zabrinskie point e Supporti fonografici) e la fiera di Sinigallia, quando ancora era sui navigli, oggi mi fa tristezza. Ho corrisposto con gente da ogni parte d’ Italia e anche all’estero. Mi ricordo ancora quando comparse la prima recensione di “Deathcrush” su HM (era uno dei primi numeri che compravo), anche quello che pensai all’ epoca, qualcosa tipo: “chissà come fanno questi a essere così estremi… magari gli mando i soldi su in Norvegia” ma, alla fine, non lo feci mai. Ovviamente non sapevo nulla del satanismo, dell’ inner circle, di tutte queste cose.

 Potevo finirci dentro anche io, senza problemi. Fortunatamente vivevo in provincia, avevo una famiglia che mi voleva bene e non mi interessava farmi di qualsiasi cosa birra a parte. Il satanismo mi faceva paura anche se consideravo l’iconografia lecita all’interno della scena. Pensavo (e in parte ancora adesso) che, per esempio, gli Slayer non potessero parlare dei fiorellini e di quanto è bella la vita. Per mille motivi la vita faceva schifo pure a me, mi disgustava la musica che ascoltava la gente comune, la dignità fatta di vuoto e l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto, per dirla con Guccini. Consideravo lecito ogni mezzo di ribellione: lo shock, la provocazione, l’estremismo. Per tanto anche andare in giro coperto di borchie, vestito di nero e con la faccia perennemente incazzata (ERO perennemente incazzato). Era un modo per respingere il mondo adulto, i non-valori della gente comune, l’ipocrisia delle istituzioni e della chiesa.

La mia attitudine però era più simile a quella di un Alice Cooper, di un Marilyn Manson (faceva molta più paura lui alle mamme del black metal). Interpretavo un personaggio, era qualcosa che davo in pasto agli altri: un’immagine dura, respingente, nervosa e fatta di spigoli vivi. Era l’espressione di un malessere adolescenziale che si è protratto fino almeno alla metà dei miei vent’anni. Era qualcosa da dare in pasto alla gente perché mi evitasse, era come fare una sorta di selezione all’ingresso perché ero disgustato dal quieto vivere e dalla cosiddetta normalità, per tanto tenevo la gente a distanza e facevo entrare solo poche persone accuratamente selezionate.

Oggi mi fa sorridere tutto questo anche perché non mi ha messo al riparo da nulla. Le delusioni sono comunque arrivate e fanno parte del gioco, pur nella loro ingiustizia. Occorre conoscere le persone, anche e soprattutto quelle che senti più simili a te, perché, potenzialmente, sono quelle che possono farti più male. Diciamo che ogni tanto lo faccio ancora, ma ora lo faccio per divertirmi, mi fa sorridere la faccia scioccata della gente quando li metto di fronte alle mie convinzioni, senza filtri. Allora prendevo le cose seriamente. A quanto pare però c’era qualcuno che le prendeva molto più seriamente.

I due podcast parlano esattamente di questo. Credo che siano sufficientemente attendibili, molti fatti vengono narrati esattamente come me li ricordavo, personalmente avrei preferito un taglio più neutro e giornalistico, direi quasi tecnico (mi ricordo per esempio il libro di Cristina Cattaneo che parlava con un linguaggio più appropriato): alcune cose sono troppo enfatiche e forzate. Mi vengono in mente per esempio le descrizioni delle copertine che mi hanno francamente fatto sorridere: sembra che siano chissà cosa, in realtà erano foto in bianco e nero di qualcuno con del trucco in faccia, nulla che i Kiss non avessero già fatto 20 anni prima.

Inoltre il metal non era (è) solo quello e la parte positiva la gente normalmente non ci arriva a capirla. Come fai a spiegare la gioia di un concerto di un gruppo che hai seguito da anni, trovare finalmente un disco che cercavi da una vita, vedere una persona dopo che vi siete scambiati cento e più lettere e scoprire che poi ci rimarrai in contatto per una vita, il sorrisetto che ti viene quando apri la porta di un negozio di dischi e vieni investito da una sventagliata death metal a centomila decibel, leggere un’ intervista e rivedersi nelle parole del protagonista stabilendo un ponte ideale che poi si ritrova nelle sue canzoni. Non sono cose che possano essere spiegate o chi sei dentro o non ci sei. Poi c’è chi va oltre e per questo è possibile solo rimanere silenti, al massimo farci dei ragionamenti che lambiscono certe sofferenze molto da lontano poiché c’è chi ci ha perso dei figli. Non ci sono foto e video in questo post anche per questo motivo.

Per il resto le ricostruzioni funzionano, vale la pena di parlarne ancora e di ripensare a quei giorni e alla follia di certi personaggi, se non altro per avere un’idea di cosa possano arrivare a concepire dei tardo adolescenti troppo coinvolti e succubi di certe sottoculture. Ovviamente vanno ascoltate con mente aperta e senso critico, spiace solo che chi ha vissuto di persona la scena abbia a disposizione molti più elementi per capire quelle storie fino in fondo, le persone comuni resteranno comunque allo scuro di tutto il contesto e di molti particolari.

Una nota inquietante per quanto mi riguarda è che andai al Midnight per la prima volta un paio di settimane prima che i corpi di Fabio Tollis e Chiara Marino venissero ritrovati… non ci sono mai tornato.

La rivincita della musica strumentale

Premessa: Ho sempre avuto qualche problema con la musica strumentale, quella senza cantato. L’unica cosa che abbia mai seriamente tentato in campo musicale è stata cantare, forse è per quello. Comunque era ben difficile che mi appassionassi a un disco interamente strumentale, succedeva, ma era ben raro. Poi, a un certo punto è scattato qualcosa, soprattutto grazie ai Sabbia. L’ anno in corso, cominciato con quella bellissima serata al cinema, potrebbe benissimo rappresentare la rivincita della musica strumentale, almeno per quanto mi riguarda.

Parte 1: Dei Messthetics  avevo già parlato in occasione del loro concerto torinese del 2019, la sezione ritmica dei Fugazi, coadiuvata da Anthony Pirog alla chitarra, aveva già dato ampia dimostrazione del proprio valore. Ora va oltre e diventa un vero e proprio piccolo ensable jazz collaborando con il sassofonista James Brandon Lewis. Il risultato convince sotto tutti i punti di vista. Un disco ispirato e coinvolgente, che riporta anche alla mente molti grandi del genere e fa pensare che, effettivamente, alla formazione a tre mancasse qualcosa che hanno trovato adesso. Come se il sassofono avesse portato un maggiore equilibrio ed una maggiore completezza alle loro composizioni che ritmicamente rimangono ancora lontanamente imparentate con la band madre ma che, nel complesso, si muovono verso altri lidi altrettanto affascinanti.

Probabilmente non è un disco per tutti, soprattutto se eccessivamente nostalgici del passato di Brandon Canty e Joe Lally, ma se contemplate il jazz nel vostro spettro sonoro, un ascolto è doveroso. Credo proprio che non resterete delusi.

Parte 2. Quando ho saputo che arrivava a Biella Luca T. Maj degli Zu, ho avuto poche esitazioni nel voler andare a vedere di cosa si trattasse. Visto e rivisto molteplici volte nella sua band madre, stavolta torna in pista con componenti di altri gruppi (Zeus, Fuzz Orchestra…) con una nuova proposta che sono ansioso di scoprire. Decido però di non rovinarmi la sorpresa e non ascolto nulla prima. Arrivo all’ Hydro un po’ prima delle dieci con il mio solito compagno di avventura ci scoliamo una dab, invero un po’ impersonale come birra, e poi ci appropinquiamo all’ingresso. Iniziano i Sonic Wolves: si sente solo la batteria di quello che credo essere il batterista degli Ufomammut (non sono molto fisionomista e i suddetti non mi fanno proprio impazzire), gli altri strumenti non o poco pervenuti, il che mi fa già temere per il gruppo che effettivamente ero venuto a vedere. Dal casino della batteria emergono sporadicamente basso, voce e chitarra in maniera appena sufficiente per farmi capire che il chitarrista sa assolutamente il fatto suo mentre la bassista/cantante fa il suo senza troppi sussulti. Non sono particolarmente impressionato.

Il discorso cambia di molto con i Traum (sogno in tedesco): i suoni si mettono magicamente a posto e il quartetto, nel quale Maj si esprime soprattutto con diavolerie elettroniche e tastiere, restituisce una prova sfavillante. Una musica, manco a dirlo, onirica e psichedelica che spazia da certo kraut rock in odore di elettronica (il legame con la Germania in qualche modo si ripropone) a sprazzi di dub, in particolare un episodio nel quale Maj riprende in mano il sassofono. E in mezzo ci stanno mille sfumature sonore che sembrano in perfetta sintonia con certe proiezioni alle loro spalle, molto anni ’70, nelle quali si miscelano colori ed emozioni. Il tempo scivola davvero via tale è il coinvolgimento ascoltandoli.

Inizialmente ero quasi interdetto dalla sorpresa, ma già dal secondo brano mi avevano assolutamente catturato e così è stato fino alla fine. Il classico gruppo del quale ignori l’esistenza ma del quale poi non ti liberi più. Peccato per la scarsità di pubblico, tuttavia quelli che ci sono alla fine esplodono in un plauso sentito e sincero. Grandi Traum, ci mancavate e non lo sapevamo.

Alla fine torniamo a casa con due vinili e al banchetto ci dicono… Addirittura?

She reaches out

Il nuovo disco di Chelsea Wolfe mi arriva a casa dopo mesi di preordine, tanto che il fatto che dovesse uscire ad un certo punto, mi fosse uscito di testa. Era stato ordinato quasi in automatico, per la stima che mi lega all’artista, salvo che poi non mi ero fatto il conto alla rovescia ed alla fine è uscito. Dopo l’esperimento con i Converge, a parere di chi scrive riuscito soltanto a metà a distanza di qualche tempo adesso arriva questo disco dal titolo circolare e dalle atmosfere anni ’90. Perché comunque va detto che la Wolfe è cangiante nell’espressività e nonostante questo riesce a fare tutto bene nella maggior parte dei casi.

Fanno parte della sua espressività suggestioni acustiche, sferzate elettriche, abissi di droni e sfido chiunque a tenere legate le diverse anime mantenendo alto lo standard qualitativo della propria proposta. Lei ci riesce e le va dato atto di questo. Il primo brano che mi è giunto alle orecchie “Whispers in the Echo chamber” sa di Nine inch nails lontano chilometri, tanto da far quasi preoccupare: è un ottimo brano, peccato che Reznor certe cose le faceva già negli anni ’90, quando arriva la schitarrata sembra proprio che ci sia lui dietro a tutto quanto e che la registrazione arrivi proprio da dentro la casa di Sharon Tate. In tutto il disco si sente aria di citazioni, siano i Depeche Mode, i Killing Joke o Bjork. Una volta si chiamava “industrial” oggi non lo so. Fortunatamente, rispetto al primo brano, la personalità della signora Wolfe viene fuori alla grande nel disco: a proposito di Bjork una volta ebbe a dire che “l’elettricità c’è sempre stata, non è vero che la musica elettronica non ha anima, l’anima ce la deve metter l’artista” ed è esattamente ciò che la Wolfe fa.

Pochi artisti riescono a mettere così tanto di se stessi in quel che suonano, se le fonti di ispirazione, musicalmente parlando, si fanno sentire in questo nuovo disco, dal punto di vista lirico ed interpretativo il livello espressivo è assolutamente elevato. Prendendo spunto dalla personale battaglia contro la dipendenza da alcool e dalle esperienze di persone a lei vicine, riesce a rendere perfettamente il tumulto e l’impeto interiore di una persona che desidera rinascere e riscostruire se stessa, contando soprattutto sulle sue forze. Personalmente continuo a pensare che “Abyss” rimanga il suo lavoro migliore tuttavia non riesco ad individuare un solo lavoro debole nella sua discografia. Ogni episodio ha un proprio punto di forza e quello di quest’ultimo capitolo è quello di essere un’opera profondamente sentita ed ascoltando brani come l’intensa “Dusk”, la dilatata “Salt” ed il crescendo emotivo di “Unseen places” mi auguro che sia evidente anche al meno empatico degli ascoltatori.

Back in the days…

92 minuti di applausi

Biella non è il posto più vivo del mondo culturalmente parlando eppure a volte accadono cose straordinariamente belle delle quali parlare è necessario. Molto di tutto ciò ruota attorno a un collettivo di artisti, attivi ormai da anni, che si chiama Kono dischi. In principio era il Babylonia, ma finito quello, il deserto avanzava su tutti noi: sono stati anni difficili nei quali ognuno ha cercato di riorganizzarsi per dare voce ad una cultura che vada oltre quella istituzionalmente proposta.

Non che non sia necessaria, non che a volte non faccia cose assolutamente meritevoli: cose come le mostre a Palazzo Gromo Losa o il festival Fuori Luogo sono assolutamente ciò che mantiene viva la cultura da noi. Ciò nonostante c’è bisogno di qualcosa che rompa gli schemi, che si proponga come indipendente e libero. E questo collettivo di artisti, nato dalle sale prove e dalla necessità di trovare un posto nel quale fosse possibile fare musica creando un circuito nuovo, rappresenta un tentativo riuscito di fare tutto questo.

Ne ho parlato qui in passato e lo rifaccio ora perché il 18 gennaio è stata una data da ricordare, un evento credo unico nel suo genere finora nel nostro territorio. Due realtà che mantengono assai alto il livello culturale sul territorio come Kono dischi e il Cinema Verdi d’ Essai di Candelo hanno unito le loro forze per dar vita alla meraviglia. Meraviglia di rivedere due corti di Buster Keaton musicati in diretta dai Sabbia.

Stavolta niente video o immagini. Solo la locandina qua sopra. Non me la sono sentita di tirare fuori il telefono e fotografare o filmare, tutto era talmente bello e ben fatto che interrompere la visione per fotografare o filmare mi sembrava un insulto, però fidatevi: è stato qualcosa di assolutamente grandioso.

E anche vedere la sala gremita, senza uno spazio libero, rinfranca il cuore. Finalmente un evento in grado di scuotere le persone, di unirle nel nome della bellezza e dell’ arte: un’ unione clamorosa, a circa cento anni di distanza, di immagini e suoni, di ombre e vibrazioni elettriche e, alla fine, anche di sorrisi -pur sempre di cinema comico si tratta- e di suggestioni oniriche.

Spesso qui da noi c’è sonnolenza, c’è un costante appiattimento culturale generalizzato. Ma la cosa bella è che se si guarda verso l’alto ci sono anche le vette che si stagliano al di sopra di tutto, ci sono le montagne a rappresentare che spesso ci si può (e ci si dovrebbe) elevare.

Scappare verso le vette è ciò che ogni biellese può fare quando ogni cosa attorno sembra invece puntare verso il basso. Le montagne sono lì, con il silenzio e l’aria pura, con la neve candida ed il cielo azzurro. E a volte, come giovedì sera, non è nemmeno necessario camminare tre ore o scalare delle rocce per andare più in alto di tutto.

Grazie di cuore.

Cinema Verdi Candelo

Sabbia

Chiedo scusa per l’ironica citazione fantozziana del titolo: si tratta solo del fatto che una delle prime cose che generalmente mi vengono in mente parlando dei film muti sono le famose scene di costrizione aziendale del povero ragioniere. Ovviamente nulla di ciò in questo caso, sia chiaro.

Unsane live Festa Radio Blackout Torino 03/06/2023

Ci suono uomini che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Chris Spencer è uno di questi. Quando aveva sciolto gli Unsane mi ero definitivamente rassegnato (dopo averli visti svariate volte) a non rivederli mai più. Ed era comprensibile: Vincent Signorelli aveva mostrato più volte degli evidenti problemi fisici al ginocchio e gli stessi Spencer e Curran non erano più propriamente dei giovincelli, Oltre a questo l’intensità di un concerto degli Unsane è qualcosa di difficilmente raccontabile a chi non ne è mai stato testimone.

Nessuno può dire che si risparmino. Mai. Tutti e tre sono sempre stati sugli scudi e li ho sempre visti provati a fine esibizione, tanto che era legittimo sempre chiedersi come avrebbero fatto il giorno dopo. Eppure andavano avanti, sempre. Oramai la formazione Spencer, Signorelli, Curran era consolidata da anni e, sciolta quella, era lecito aspettarsi che la strada finisse per gli Unsane.

Infatti era partito l’interessante progetto Human impact per l’indomito Spencer deciso a non mollare. Il materiale del gruppo era anche degno di nota, dove la base Unsane rimaneva assolutamente presente ma con diverse nuances di stampo post-industriale. Poi, a un certo punto, le cose cominciano a smuoversi.

L’avvento del COVID tarpa un po’ le ali al nuovo progetto che è costretto a cancellare diverse date. Nel frattempo Spencer ritrova, chissà come, il materiale che avrebbe dovuto costituire il primo disco degli Unsane, lo rimasterizza e lo fa uscire attraverso una neonata etichetta (Lamb Unlimited) e spergiura che a breve anche il primo lavoro omonimo della band, originariamente uscito per Matador e fuori catalogo da anni, subirà lo stesso trattamento. A quel punto, visto lo scioglimento, il mio vecchio cuore di fan comincia seriamente a sussultare anche perché il suddetto primo disco aveva raggiunto quotazioni sui 100$ su ebay e discogs e io sono diventato fan parecchio tempo dopo la sua uscita.

Tralasciando questo, succede l’imponderabile. Spencer comincia a provare con due (quasi) sconosciuti le primissime composizioni del gruppo che non venivano suonate da anni. La cosa funziona, il trio trova affiatamento e coesione, dopo poco si inizia a parlare di date dal vivo. Questo genera parecchia confusione: in molti pensano al rientro della formazione che aveva lasciato qualche anno prima, complice anche qualche promoter che utilizza vecchie foto del gruppo. La cosa fa abbastanza irritare Signorelli e Curran che proclamano da subito la loro estraneità alla cosa. Ma Spencer non si ferma, parte in tour con i suoi nuovi compagni e in pochi mesi, sbloccatasi la situazione pandemica, inizia un tour di concerti che, con qualche pausa sta andando a toccare parecchie località negli USA, in Europa e, pare, presto anche in Australia. Sabato scorso, in occasione della festa della radio autonoma per eccellenza di Torino, Radio Blackout, abbiamo finalmente avuto l’occasione di vedere i risultati degli sforzi dell’instancabile Spencer.

In una vecchia intervista gli Slayer dichiaravano di aver sempre avuto enormi problemi con i gruppi di supporto che regolarmente venivano bistrattati dal loro pubblico. L’unico gruppo che non subì mai questo trattamento furono gli Unsane, e chi li ha visti almeno una volta dal vivo sa il perché. A fronte del concerto di sabato posso dire che è ancora così. Sono semplicemente devastanti.

Tutti gli interrogativi della vigilia vengono fugati nel giro di una, due canzoni. I due sostituti si dimostrano fin dal primo momento all’altezza della situazione, tanto che lo stesso Spencer sembra molto meno serio di come me lo ricordavo… parte subito franando addosso al bassista che crolla sulla pedaliera causando una clamorosa falsa partenza che lascia tutti di sasso. Dopo poco riescono a ripartire peccato che questo episodio scateni nel pubblico una gran voglia di darsi da fare causerà non pochi problemi all’esibizione.

Si intuisce subito che Chris è in gran forma e gli altri due gli tengono dietro alla grande. Il più in difficoltà è il bassista, non tanto per sua imperizia, quanto per essere continuo bersaglio delle intemperanze del pubblico che continua ad esagitarsi franando più di una volta su pedaliere cavi e armamentario vario tanto che alla fine di un brano diranno “Thanks for letting us finish the song!”, ma anche “stop doing crazy shit or we won’t be able to play”. Tuttavia, al netto delle interruzioni e delle intemperanze, quello di sabato si è dimostrato un grandissimo concerto. Spencer come sempre da il 101% delle forze, urla, maltratta la povera telecaster nera, suda come un pazzo: la sua leggendaria smorfia di dolore mentre canta è sempre lì, ora come trenta e passa anni fa.

Rimpiazzare due mostri sacri come Signorelli e Curran non dev’essere facile. I nostri, tali Cooper (già nei Made Out Of Babies di Julie Christmas) e Jon Syverson (ex- Daughters), suppliscono con l’energia e la determinazione al carisma e alla bravura dei predecessori. Soprattutto il batterista stupisce: pur non avendo il tocco di Signorelli, mena come un ossesso e non smette mai di suonare (a parte quando i guai tecnici allungano a dismisura le pause), nemmeno tra un brano e l’altro come a dire: noi siamo qua e non molliamo di un centimetro, poi quando è ora, da un quattro sul charleston e si riparte.

In definitiva il concerto ci restituisce un gruppo in piena forma, nonostante non si contino quasi più gli anni che ci separano dall’ esordio. Appaiono affiatati, coesi e massicci, con un più un’iniezione di gioventù che negli ultimi tempi era decisamente assente. Eviterei troppi paragoni col passato: se vi capita andate a vederli e capirete perché l’operazione di rinnovo della formazione effettuata da Spencer ha un senso, al punto di rendermi assolutamente curioso circa quello che potrebbero combinare qualora decidessero di registrare del nuovo materiale come sembrano intenzionati a fare. Circa i due grandi esclusi dal progetto, adesso il mio sogno è che entrino a far parte dei Melvins come a suo tempo avevano fatto i due Big Business, quando il gruppo di King Buzzo aveva due batteristi in formazione, scalzando finalmente quel buffone con il nome da fast food che li sta palesemente rovinando adesso.

A proposito dell’esordio: alla fine avevo ceduto acquistandolo dagli States per circa 45 sudatissimi euro. Li avevo dati per morti troppo presto: al banchetto si potevano trovare delle copie vendute a 25, alla fine me lo merito: mai sottovalutare la determinazione e la voglia di suonare (“I love what I do” dirà durante il concerto) di un personaggio indispensabile come Chris Spencer.

Aggiornamento: siamo stati anche al Rock In Riot di Bergamo… Bel festival!

Back To Babylonia

Per molti anni parlare di Biella ha significato parlare di industrie tessili, poi è arrivato il famigerato mobilificio Aiazzone e quidi il nulla o quasi, se si escludono Pistoletto e la serie di Zerocalcare. Io ho la speranza che la città nei pressi della quale vivo venga ricordata dagli appassionati di musica per quel locale che a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio dei duemila ha significato così tanto per i biellesi e non solo: Il Babylonia. Il primo contatto col locale l’ho avuto tramite Aldo, quello che poi sarebbe diventato il padrone del locale. Nel suo negozio di dischi (prima Fragole e panna e poi Paper moon, resiste ancora con un’altra gestione) mi disse che voleva aprire un club per la musica dal vivo che fosse un po’ esclusivo e che per accedervi sarebbe stato il caso di fare la tessera dal costo, per me all’ epoca non irrisorio, di 20000 lire.

Non se ne fece nulla per qualche mese, false partenze, situazioni poco chiare e un concerto fantasma dei Radiohead che, alla fine, non ho mai capito se abbiano o meno suonato nel locale. Alla fine però riuscì a partire e fu un punto di riferimento costante almeno per il nord-nord ovest del paese. Il primo concerto che ci vidi fu Cyco Miko e fu pazzesco: prima loro, poi gli Infectious Grooves e, in fine una jam sesion finale con 6 brani dal primo disco dei Suicidal Tendencies. Alla fine nemmeno mi ricordavo più delle 20000 lire iniziali finite chissà dove. Continuò in questo modo per un decennio circa, portando a pochi chilometri da casa gruppi che prima, se eri fortunato, passavano a Torino o Milano. Fu un’epoca gloriosa, potevi andarci al pomeriggio e salutare i gruppi prima del soundcheck, entrare dopo una certa ora quando Aldo apriva i cancelli oppure passare e stare fuori a chiacchierare con qualcuno con un’opportuna dose di birra nel bagagliaio.

Sabato scorso, presso il nuovo Hydro, sempre a Biella, ha avuto luogo Back to Babylonia: una giornata per ricordare il locale con interviste a vecchi frequentatori (tra cui il sottoscritto) e concerto con dj set in serata. A dire la verità il progetto di raccogliere materiale sui concerti (foto, video, registrazioni, locandine etc…) era già partito molto prima, poi è arrivata la pandemia e il progetto si era un po’ arenato, ora pare stia ripartendo e speriamo che porti a un giusto ricordo di quello che è stato e di ciò che ha significato il locale .

Non è solo una questione di nostalgia, è proprio una celebrazione di un posto che, a ripensarci, sembra incredibile sia esistito veramente. Risedersi sugli stessi divanetti per farsi intervistare (chissà come li avranno recuperati), non lo nascondo, mi ha fatto effetto, essendo fiducioso che, nel frattempo, qualsiasi residuo, di qualsiasi tipo, fosse abbondantemente defunto.

Nell’intervista varie domande e una simil conversazione con altri due ex-frequentatori del luogo, uno addirittura giunto da Torino, nella massima naturalezza. Poi l’intervista individuale con la classica domanda: “quali sono stati i tre migliori concerti visti al Baby?” sui primi due non ho avuto dubbi. I Neurosis furono stupefacenti con le proiezioni,  i loro brani apocalittici (credo che lì li vidi nel tour di “Times of Grace”) e la sensazione che fossero in grado di polverizzare chiunque dal vivo, poi i My Dying Bride (era il tour di “Like gods of the sun”) con i quali ci intrattenemmo un intero sabato pomeriggio e il terzo… nell’indecisione ho detto Voivod, ma col senno di poi direi sicuramente Queens of the stone age o Unida. Senza parlare del clamoroso exploit dei CSI che poi finirono per suonare al palasport per la troppa richiesta durante il tour di “Tabula rasa elettrificata”.

In serata mi sento di parlare solo del fantastico concerto dei Sabbia, il resto me lo sono un po’ perso salutando varia gente e gravitando attorno al bar. Però i Sabbia hanno dato vita a un concerto veramente speciale, come se non bastasse il disco (“Domomentál”, di cui ho già disquisito) che si è già inserito prepotentemente fra i miei preferiti per l’anno in corso, dal vivo sono stati qualcosa di assolutamente coinvolgente: un’ora circa di magia onirica, un’ atmosfera desertica e torrida, qualcosa che ti colpisce con  quella fisicità in più che solo un concerto dal vivo finalmente intenso può regalare, forse l’unica cosa impossibile da trasportare completamente su disco.

Quasi vent’anni dopo è un piacere constatare che abbiamo ancora qualche motivo per essere fieri della terra che ci ospita e questi sono i Sabbia e vederli dal vivo ha sicuramente consolidato quest’impressione. Il problema è che mi riesce difficile parlarne perché l’atmosfera che creano rende ardua qualsiasi razionalizzazione o descrizione. Come diceva Battiato “È bellissimo perdersi in quest’incantesimo” e quindi vi lascio tre dei loro brani. Il consiglio è quello di lasciarsi trasportare, fidatevi.

El Cielo vent’anni dopo

L’ 8 ottobre compie 20 anni uno dei dischi definitivi del rock anni 2000. Si intitola “El Cielo” e il gruppo californiano Dredg ne è l’autore. All’epoca fu una vera rivelazione, nei forum ne parlavano tutti come di un piccolo capolavoro, ed in effetti lo è. Molto leggero e sognante, sembra una ventata d’aria fresca in una stanza che sia stata chiusa per anni. La cosa bella è che era totalmente fuori da qualsiasi scena e corrente musicale dell’epoca. Niente nu metal, niente post hardcore, semplicemente Dredg. Stavano da soli, erano personali, con un loro cammino che partiva da basi decisamente più rocciose: “Leitmotif”, il disco precedente, ere ancora imparentato con una sorta di alt-metal che troverà ben poco spazio nel successore.

In effetti il disco suona leggero, ma non stucchevole; aggraziato ma non facile. Le liriche nascono direttamente dal quadro di Salvador dalì “Sogno causato dal volo di un’ape attorno ad una melagrana un attimo prima del risveglio” che fa diretto riferimento alla sindrome di paralisi del sonno della quale pare soffrissero lo stesso pittore e sua moglie. Molti brani si intitolano infatti Brushstroke (“Pennellata”) con diverse identificazioni specificate, inoltre alcune lettere ricevute dal gruppo da parte di persone affette da paralisi del sonno vengono utilizzate nella stesura dei testi. Il gruppo sceglie di riportarne alcune nel booklet che esce in due formati, uno con un letto su sfondo marrone, l’altro con una finestra aperta sul cielo con le nuvole di sfondo, tuttavia sembra che ne esistano molte diverse versioni sia in digipak che in jewel case, anche nel formato superaudio CD e con bonus disc (dettaglio: ovviamente io beccai quella marrone che mi piaceva meno).

La particolarità di questo disco sta nel suo essere al di fuori dei generi: per qualcuno suona rock, per altri progressive, per altri ancora pop. È un insieme di tutte queste cose e nessuna di esse, quello che è certo è che in questo disco gli autori dimostrano di essere in grado di far convivere diversi stili in modo assolutamente armonico e con un gusto quasi insuperabile per la melodia. Visto il periodo in cui esce è un mezzo miracolo, uno di quei dischi in cui non c’è una nota fuori posto, una sbavatura, qualcosa che palesemente non funziona. Fluisce come se l’attrito non esistesse e a tratti ti trasporta lontano, personalmente mi ha sempre predisposto positivamente facendomi osservare particolari che, nel quotidiano, passavano sistematicamente inosservati. Il suo pregio principale è proprio di essere in grado di creare un mondo a sé. Fin dalle prime note di “Same ol’ road” è impossibile restare indifferenti a quello che i Dredg sono in grado di mettere sul piatto.

La voce di Gavin Hayes, si erge suprema sulle miserie del mondo, forte di una base ritmica solidissima, per poi esplodere come se fosse un fuoco d’artificio il quattro luglio. Il termine corretto per questa musica è emozionale, non me ne vengono altri. Un’ altra menzione la merita senza dubbio “Scissorlock” dove i nostri semplicemente compongono uno dei ritornelli più belli mai sentiti in un inno notturno e luminoso come se la luna piena, i lampioni e le stelle formassero un’unica costellazione.

Se con queste due canzoni non vi ho convinto, mi spiace, però continuerò a portarmi questo disco nel cuore e ne sarò geloso tanto gli sono affezionato. Per i suoi vent’anni gli autori ne faranno uscire una versione de luxe che promette faville, peccato che, pur mantenendo sempre un livello qualitativo altissimo, non toccheranno mai più queste vette, spostandosi progressivamente verso il pop e nonostante il successo commerciale del singolo “Bug eyes” del disco successivo, arriveranno a “mettersi in pausa” nel 2014, per annunciare poi un ritorno nel 2018 che non si è ancora concretizzato.

Nonostante tutto il loro nome è stato scritto a caratteri cubitali nella storia del rock, con un disco formidabile, e non è un’impresa da tutti.

It’s never ending and never surrendering

A un certo punto l’estate scorsa mi è quasi mancato il fiato, scorredo selvaggiamente le notizie sul mio telefono mi salta fuori un nome ed una data: Unida a Torino, il 4 ottobre. Lo rileggo un paio di volte ed è vero, in qualche modo gli Unida si sono riformati e vengono in Italia. Li avevo visti almeno vent’anni fa al Babylonia, e adesso ho nuovamente l’occasione di farlo senza che abbiano inciso nulla, come se fossero rimasti sospesi nel vuoto tutto questo tempo. Poi quasi quasi me lo dimentico.

A pochi giorni dalla data scopro che John Garcia non è più della partita (anche se ha cantato nei primi shows dopo che si erano riuniti, pare non potesse cantare in questo tour) e che praticamente il chitarrista Arthur Seay e il batterista Miguel Cancino sono gli unici membri originali superstiti. Doveva esserci la fregatura! Ma dopo tre anni di assenza da sotto al palco (tra sfortune varie non sono riuscito a vedere nemmeno mezzo concerto quest’estate e i miei amati Messa credo che non li vedrò per un pezzo, visto l’incidente stradale disastroso che li ha coinvolti…) decido che chi se ne frega e li vado a vedere lo stesso. Il rischio era quello di trovarsi davanti poco più di una cover band di uno dei gruppi più sfortunati sulla terra.

Credo che ormai sia inutile stare ancora a disquisire sul loro secondo album (detto per inciso: ne ho una versione bootleg su vinile ed era una bomba) e sulle vicissitudini che hanno fatto sì che non uscisse mai o sul fatto che siano autori forse della più bella canzone stoner di sempre che è questa:

Loro fanno a tutti gli effetti parte dei gruppi degni di venerazione, quindi buttare tutto nel cesso è un rischio grossissimo ritornando sulle scene vent’anni dopo, senza nuove pubblicazioni, con una formazione rimaneggiata ed un repertorio abbastanza scarno (ma non scarso).

Scacciato questo pensiero si parte alla volta di Torino,  la serata ha un clima mite e il capoluogo piemontese è quasi esattamente la stessa città del febbraio del 2019 quando andammo a vedere i Mondo Generator. Anche il posto è lo stesso, il Blah Blah in via Po, all’inizio sembrava suonassero allo Spazio 211 e onestamente avrei preferito: è decisamente più decentrato e spazioso, oltre che più comodo per chi arriva da fuori. Probabilmente anche l’acustica è migliore… però bando alle perplessità.

Aprono i locali Flying Disk, da Fossano. Niente male il loro repertorio, molto anni ’90 anche se lontano dallo stoner che invece contraddistingue gli headliner della serata, i loro punti di rifermento sembrano essere gruppi mai troppo allineati a correnti musicali come gli Helmet o i Fugazi. Riescono comunque a offrire una buona prova, da power trio duro e puro, senza fronzoli o cali di tensione, con una buona scaletta, sufficientemente personale nonostante i chiari numi tutelari. Hanno un disco che sta per uscire: dategli un ascolto, non ve ne pentirete.

E adesso passiamo agli Unida. Viste le premesse sarebbe dura per chiunque, il concerto riesce a non gettare fango su un nome storico e consegnato alla storia, quindi il pericolo più grosso è stato scongiurato. Ci sono però alcune perplessità abbastanza palesi che si sono addensate sul gruppo durante l’esibizione. Dal punto di vista strumentale sono tutti estremamente validi: Seay è un autentico mattatore appare in forma smagliante: sciorina riffoni, assoli e linguacce a tutto spiano, Cancino coordina la sezione ritmica con precisione e potenza, ma l’autentica rivelazione della serata è Collyn McCoy al basso: a vederlo sembra un pacioso signore di mezza età tranquillo, ti aspetti che faccia il suo senza strafare. Invece è un vero virtuoso del suo strumento, sciorina delle linee di basso assolutamente azzeccate ed eclettiche, riesce a mettersi in evidenza più volte senza far rimpiangere quell’altro maestro che si chiama Scott Reeder. Complimenti a lui, in un paio di occasioni mi ha fatto staccare la mandibola dalla sorpresa, bravissimo.

Sì, direte voi, ma il sostituto di Garcia, tale Mark Sunshine (se poi è il suo vero nome)? Se fosse una pagella di un quotidiano sportivo, un commento adatto sarebbe: non pervenuto. La sua voce si sente poco e male (problemi di soundcheck o oscurantismo volontario?) e per quel poco che si sente sembra che voglia tenere dietro a Garcia riuscendoci solo a sprazzi, infilandoci qualche acuto che sa di gallinaccio spennato (avete presente il buon W. Axl Rose che pena faceva dal vivo?) e non lasciando una buona impressione di sé. A questo aggiungete un look da capello lungo e unto da far invidia a “er monnezza” di miliana memoria e delle movenze goffe che ricordano da vicino quello zuzzurellone di bassista che sta rovinando i Melvins che si chiama Steven Mac Donald (licenziatelo!). Insomma un altro commento beffardo e azzeccato sul soggetto è stato “è bello da vedere”… ma sarebbe meglio non rivederlo in questa veste.

Altri dubbi riguardano il repertorio proposto, ok le vecchie canzoni, ben fatte, ma poco di nuovo all’ orizzonte, assoli a tratti prolissi, una sorta di medley di brani di altri che pare piazzato lì per guadagnare tempo a metà esibizione e, soprattutto, la cri-mi-na-le esclusione di “You Wish” richiesta a gran voce dal pubblico (e dai Flying Disk in particolare) ma lasciata da parte dal gruppo che, alla richiesta, risponde con sguardi persi nel vuoto di non averla preparata. Per me, che venero quel brano, è la nota più negativa della serata.

Luci ed ombre dunque di un progetto rinato e con delle potenzialità ma che deve svilupparsi e decidere che direzione intraprendere, possibilmente non dimenticandosi del passato (soprattutto di “You Wish”!) e trovando un sostituto migliore per Garcia, se non proprio Garcia stesso che comunque non viene considerato ancora fuori dal gruppo.

Postilla: a vedere il video la voce si sente e non è nemmeno male, magari sono stato anche troppo severo con il buon Sunshine… però dal vivo si sentiva veramente poco e quel poco non era un granché, lo garantisco. E comunque guardate le mossette che fa…

Trent’anni di Rumore

La copertina del trentennale (fonte: rumoremag.com)

In questi giorni una delle poche riviste di musica sopravvissute celebra i propri trent’anni. Trent’anni: una di quelle cose che ti fanno riflettere per forza sul tempo trascorso. Non voglio scrivere uno di quei post vittimisti sul fatto che mi fa sentire vecchio, perché vecchio io non mi ci sento, però vale la pena ricordare. Ricordare che sentii per la prima volta nominare il giornale vicino alla stazione di Porta Nuova a Torino, da un ragazzo dal nome francese di Torre Pellice che faceva il politecnico come me. Io l’avevo notato perché aveva un’ amica bellissima della quale sapevo solo il nome ed il fatto che avesse i capelli rossi, di quelli in grado di brillare in mezzo ad un’aula di trecento persone. Ovviamente non ci scambiai mai nemmeno una parola e anche di quel ragazzo persi presto le tracce. Il giornale però lo presi, in più e più occasioni.

Mi ricordo anche che quel ragazzo, accennando a Rumore, mi nominò per la prima volta PJ Harvey, mi disse che suonava una “specie di Nirvana più indie e con la voce femminile”, fa sorridere a pensarci adesso, anche perché lo stesso Cobain disse in più di un’occasione di apprezzare molto “Dry”. In particolare una volta pubblicarono un’ illustrazione della sua canzone “Fountain” che mi perseguitò per tantissimo tempo, dando quasi forma ai miei pensieri più autodistruttivi, in un periodo veramente buio che non accennava a passare mai.  

Una canzone lacerante e bellissima che non smette di riaprire ferite

Spesso mi ci trovavo in disaccordo, non riuscivo a leggerlo nemmeno tutto (va detto che c’è sempre una gran quantità di contenuti), sapeva un po’ di critica a tutto tondo, era un po’ troppo generalista e saputello per i miei gusti. Però sicuramente era sempre fonte di riflessione, mi fece scoprire cose che non avrei mai sospettato di essere in grado di ascoltare (i Nine inch nails, per dirne una…) e la copertina dedicata a Kurt Cobain nel mese in cui morì la tagliai via e me la appesi in camera. Ci restò per degli anni. Leggere Rumore era un po’ come ampliare gli orizzonti, spesso troppo limitati da una sedicente fedeltà al proprio genere musicale preferito. Mi facevano anche arrabbiare parecchio, tipo quando glorificavano musica pessima tipo i fratelli chimici o quelli con punk nel nome ma che di punk non avevano proprio nulla, oppure quando si permettevano di criticare Electric Ladyland. Recensivano sempre dischi del mio genere musicale preferito, ma sono spesso gruppi che nessun altro tratta. Non ho mai capito perché ma era, a suo modo, affascinante come pure il fatto che ci scrivesse il bravissimo Claudio Sorge (e ancora lo fa…), che seguivo anche in radio nel suo spazio “Rumore 3: essi vivono” all’interno di Planet Rock, nientemeno che sulla rete nazionale.

Nella fase iniziale era coinvolto anche il mai troppo ricordato Marco Mathieu, che viene giustamente citato nel numero del trentennale, insieme con molte altre storie che sicuramente si possono accumulare seguendo il mondo della musica e le sue evoluzioni dal punto di vista editoriale. Interviste saltate, concerti in condizioni impossibili, litigi con i promoter, errori di ogni tipo, copertine uguali ad altre riviste, recensioni negative di dischi diventati poi epocali (mi ricordo una recensione di “Grace” di Jeff Buckley decisamente tiepidina per il gran disco che è o la stroncatura di “Ok Computer”), gruppi esaltati e poi rivelatisi fuochi di paglia… in trent’ anni ci sta tutto ed è giusto celebrarlo. Soprattutto è bello che ancora esista e resista.

Ultimamente acquisto una copia ogni tanto, quando vedo cose interessanti, ma stavo valutando l’idea di abbonarmi, tanto per andare controcorrente e per ricordare a me stesso che, oltre al formato fisico della musica, anche quello della rivista continua proprio ad avere tutt’un altro fascino.

L’ultimo profeta!

Dovendo scrivere un post su  Mauro Guazzotti, in arte MGZ, non so davvero da dove cominciare. La prima immagine che ho di lui è in un’improbabile costumino rosso attillato da pseudo lottatore che saltella ovunque durante il leggendario concerto dei Negazione al 2 di Cigliano lamentandosi di qualcuno che gli aveva staccato la coda e voleva tenersela come cimelio. Durante un concerto hardcore (il primo conecrto della tua vita scelto autonomamente, tra l’altro) vedi questo tizio peloso ma calvo, coi capelli laterali lunghi saltare fuori dal nulla, misurando a balzelli il palco e facendo delle smorfie improbabili. Sicuramente un’immagine che lasciò il segno… solo che non avevo la minima idea di chi fosse.

Occorrerà aspettare qualche anno perché torni a farsi viso sul palco del Babylonia anche se non collegai le cose e mancai l’appuntamento. E poi, a forza di frequentazioni, articoli su riviste, amici vari il Profeta mi apparve. Più o meno all’epoca dell’uscita di “Cambio vita”, imprescindibile primo capitolo discografico del nostro. Non assomigliava a nulla di quanto avessi visto fino a quel momento. La musica mi era resa sopportabile solo dalla chitarra di Roberto “Tax” Farano o di Dome La Muerte, per il resto era elettronica piuttosto tamarra e mi schifava abbastanza. Solo che aveva dei test geniali e, alla fine, riuscii a contestualizzare anche quella.

La sua proposta era teatro, cabaret, musica: punk, elettronica… solo apparentemente demenziale. Personale, sognante e visionario come solo un personaggio assolutamente fuori dal mondo può essere. Su di lui girano leggende e dicerie, oscuri esordi nell’ambiente punk fatti di performance sullo sfondo di diafane lastre a raggi x. Chissà cosa c’è di vero. Io Mi ricordo leggendari concerti, questo sì. Sempre seguito da gruppi di persone, all’epoca furono “Le Signore” in seguito le “Buru buru girls” e poi chissà che altro, sul palco è uno spettacolo multicolore con travestimenti, balli e saltimbanchi. Coriandoli, bolle di sapone, stelle filanti, trucco e bandiere sventolanti in quello che potrebbe sembrare un circo deviato o una festa per bambini cresciuti con qualche turba, ma non di quelle moleste.

Alcuni dei concerti di MGZ resteranno nella storia, purtroppo non ho grandi rifermenti temporali, le date si confondono nella memoria, eppure la prima volta dopo tantissimo tempo dopo che ne avevamo perso le tracce fu una storica serata al CSA “Il Gabrio” di Torino. Un vero e proprio evento che fece sì che ci muovessimo in quattro dalla provincia con due bottiglie di CocaCola truccata col rum del discount. Sapeva di acquaragia e ne bevetti mezzo sorso per poi lasciarlo ai compagni di viaggio. Ovviamente uno finì per disegnarmi una “fiamma delle hot wheels” di vomito sulla portiera mentre parcheggiavo una volta giunti a destinazione: aspettare di scendere no eh?! Il concerto fu divertentissimo e dissacrante… peccato che due settimane dopo chiusero il centro sociale a causa di un’infestazione da vibrione che si pensava estinto in Italia. Ad ogni modo sopravvivemmo.

Un’altra volta finimmo nel nulla cuneese a una specie di festa di paese alla quale il signore solo sa come mai decisero di farlo suonare. Avvicinato da un compare ebbe a commentare “Lascia stare… è un posto allucinante!”, comunque poi salì sul palco e fu anche una grande festa, credo che comunque in parecchi affrontarono la trasferta, del resto un profeta è pur sempre un profeta.

Ci fu poi la data, l’ultima volta che lo vedemmo, all’Hiroshima mon amour a pochi giorni di distanza da un altro storico concerto degli Einstürzende Neubauten all’ auditorium RAI (nientemeno) dove incontrammo Tax Farano. Roberto era presente anche a quella serata e ci salutammo, noi assolutamente increduli, due volte in un mese.

Ed eccolo, fotografato da me, all’ Hiroshima Mon Amour nel 2014

In ogni occasione fu una grande occasione di divertimento, anche nel suo caso una performance che va assolutamente vista e vissuta.

Il suo nuovo album “Vale tutto” è uscito da poco e porta una ventata di spensieratezza in questi tempi difficili. Sogniamo tutti in coro Burulandia dove tutti sono luminosi, telepatici, innamorati e immensamente liberi e felici!

Laura Filippi ART

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