Bonnie “Prince” Billy live @ Spazio 211 Torino 15/05/2024

C’era bisogno di qualcosa di bello, di aulico, di rincuorante dopo una giornata lavorativa piena delle solite tensioni, dei soliti non detti, dei soliti sotterfugi tra colleghi. Onestamente c’è davvero gente che ancora si diverte in questo modo, rendendo l’incombenza di un lavoro ancora meno sopportabile di quello che già è. E alla fine è necessario lasciarsi tutto alle spalle e salpare alla volta di Torino per raggiungere lo scopo. Come consuetudine degli ultimi giorni, piove tanto nel capoluogo. Fuori dallo spazio 211 è uno stagno e bisogna camminare come un etoile della Scala per non bagnarsi completamente i piedi.

Stasera suona Bonnie “Prince” Billy. Quando ho visto che veniva in concerto c’era qualcosa che mi diceva che dovevo vederlo. Come la maggior parte delle persone, forse, lo conosco grazie a “I see a darkness” e a Johnny Cash e anche ad una ragazza bolognese che seguiva questo blog millenni fa, forse quando ancora era su splinder, e che lo idolatrava letteralmente. Ok, forse non sono il massimo esperto per poterne parlare. Fatto sta che quando verso le dieci, quando tacciono le voci e parte a cantare con fuori la pioggia che tabureggia sulla città, è impossibile negare che si stia assistendo a qualcosa di assolutamente magico. La voce di Will in primis è pura magia, una vera meraviglia. Pensavo che fosse bravo, così tanto non era scontato. Strano tipo che è, sembra una sorta di camionista queer: cintura spessa, camicia a quadrettoni e cappellino col la retina sul retro ma poi eyeliner, smalto azzurro e polsini rosa, quasi fucsia. Si presenta sul palco con chitarra classica senza tracolla e due amici polistrumentisti del Kentucky, uno col sassofono e il flauto, imponente e con una vaga somiglianza con Russel Crowe, l’altro con cappello di paglia sorriso stampato, fender jazzmaster e clarinetto. C’è tutto, non serve altro.

Nella successiva ora e tre quarti è solo una voce, una chitarra e qualche strumento, tutti che volano altissimo. Grande spazio all’ultimo album con diversi estratti, ricordi sentitissimi (anche del recente grande scomparso Steve Albini, sia sempre lodato), canzoni più datate, sudore, brillantini sulle guance messi a scena aperta.

Per la mancanza della tracolla nella chitarra cambia mille posizioni (seduto, seduto sullo schienale, in ginocchio, accosciato con un piede sulla sedia, aventi e indietro) ma il risultato non cambia mai: ipnotizza, affascina e coinvolge. A tratti si disseta con del dolcetto (e, chissà perché, mi viene in mente Guccini) e, alla fine, rimane in canotta bianca a coste: volendo fare una battuta, quasi una versione redneck di Freddie Mercury. C’è spazio per fino per intonare una canzone di Mina, “L’ultima occasione”, della quale finge di non ricordare il testo, per poi esclamare “Mina forever!”. Probabilmente, come ci spiega, ha anche un po’ di DNA nel patrimonio genetico con un nonno di Torino emigrato a fare il calzolaio a San Antonio, Texas.  

Sulle prime c’ero rimasto male per il prezzo del biglietto, 25 euro, alla fine è valso ogni centesimo. Richiamato a gran voce sul palco dopo una prima interruzione non si risparmia e tira fuori dal cilindro altre tre canzoni con sommo gaudio di tutti quanti. Da qualche parte su bandcamp c’è scritto che la sua voce è una benedizione, non potrei essere più d’accordo.

Nostalgia, inquietudine e podcast infernali.

Esiste una cosa con la quale ogni metallaro deve fare i conti prima o poi. Non si scappa, soprattutto non ci fanno scappare da questa tematica i fatti di cronaca che inchiodano alcuni sedicenti ascoltatori di metal alle loro responsabilità che non possono essere eluse né dimenticate. È un fardello che chiunque asolti metal si vede costretto a portare e che viene raccontato da Antonio Cristiano (e collaboratori) in due podcast “Helvete” e “Bestie”. Ovviamente non ci sono solo quei fatti di cronaca, potremmo citare anche gli Absurd in Germania o altre situazioni che magari hanno avuto meno risalto da parte dei media.

Si tratta, riducendo la cosa ai minimi termini, dell’ omicidio di Euronimus (e di altri fatti legati alla scena norvegese come l’omicidio da parte di Frost e delle chiese bruciate) e dei fatti di cronaca legati alle bestie di satana in Italia (ancora omicidi, Chiara Marino, Fabio Tollis e altre morti collegate). Delle pagine oscurissime legate alla musica metal e dei risvolti giustamente indelebili nella memoria comune. Riascoltare quei podcast mi ha scatenato una serie di ricordi e qualche inquietudine. I ricordi sono legati essenzialmente al fatto di aver vissuto all’interno della scena in quegli anni, seppure molto di striscio rispetto ai protagonisti o a gente molto più a contatto con certe realtà. Nei primi anni dei ’90 ero a Milano praticamente tutti i fine settimana, ho frequentato tutti i negozi di dischi più famosi dell’epoca (da Maryposa al Soundcave, passando per Zabrinskie point e Supporti fonografici) e la fiera di Sinigallia, quando ancora era sui navigli, oggi mi fa tristezza. Ho corrisposto con gente da ogni parte d’ Italia e anche all’estero. Mi ricordo ancora quando comparse la prima recensione di “Deathcrush” su HM (era uno dei primi numeri che compravo), anche quello che pensai all’ epoca, qualcosa tipo: “chissà come fanno questi a essere così estremi… magari gli mando i soldi su in Norvegia” ma, alla fine, non lo feci mai. Ovviamente non sapevo nulla del satanismo, dell’ inner circle, di tutte queste cose.

 Potevo finirci dentro anche io, senza problemi. Fortunatamente vivevo in provincia, avevo una famiglia che mi voleva bene e non mi interessava farmi di qualsiasi cosa birra a parte. Il satanismo mi faceva paura anche se consideravo l’iconografia lecita all’interno della scena. Pensavo (e in parte ancora adesso) che, per esempio, gli Slayer non potessero parlare dei fiorellini e di quanto è bella la vita. Per mille motivi la vita faceva schifo pure a me, mi disgustava la musica che ascoltava la gente comune, la dignità fatta di vuoto e l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto, per dirla con Guccini. Consideravo lecito ogni mezzo di ribellione: lo shock, la provocazione, l’estremismo. Per tanto anche andare in giro coperto di borchie, vestito di nero e con la faccia perennemente incazzata (ERO perennemente incazzato). Era un modo per respingere il mondo adulto, i non-valori della gente comune, l’ipocrisia delle istituzioni e della chiesa.

La mia attitudine però era più simile a quella di un Alice Cooper, di un Marilyn Manson (faceva molta più paura lui alle mamme del black metal). Interpretavo un personaggio, era qualcosa che davo in pasto agli altri: un’immagine dura, respingente, nervosa e fatta di spigoli vivi. Era l’espressione di un malessere adolescenziale che si è protratto fino almeno alla metà dei miei vent’anni. Era qualcosa da dare in pasto alla gente perché mi evitasse, era come fare una sorta di selezione all’ingresso perché ero disgustato dal quieto vivere e dalla cosiddetta normalità, per tanto tenevo la gente a distanza e facevo entrare solo poche persone accuratamente selezionate.

Oggi mi fa sorridere tutto questo anche perché non mi ha messo al riparo da nulla. Le delusioni sono comunque arrivate e fanno parte del gioco, pur nella loro ingiustizia. Occorre conoscere le persone, anche e soprattutto quelle che senti più simili a te, perché, potenzialmente, sono quelle che possono farti più male. Diciamo che ogni tanto lo faccio ancora, ma ora lo faccio per divertirmi, mi fa sorridere la faccia scioccata della gente quando li metto di fronte alle mie convinzioni, senza filtri. Allora prendevo le cose seriamente. A quanto pare però c’era qualcuno che le prendeva molto più seriamente.

I due podcast parlano esattamente di questo. Credo che siano sufficientemente attendibili, molti fatti vengono narrati esattamente come me li ricordavo, personalmente avrei preferito un taglio più neutro e giornalistico, direi quasi tecnico (mi ricordo per esempio il libro di Cristina Cattaneo che parlava con un linguaggio più appropriato): alcune cose sono troppo enfatiche e forzate. Mi vengono in mente per esempio le descrizioni delle copertine che mi hanno francamente fatto sorridere: sembra che siano chissà cosa, in realtà erano foto in bianco e nero di qualcuno con del trucco in faccia, nulla che i Kiss non avessero già fatto 20 anni prima.

Inoltre il metal non era (è) solo quello e la parte positiva la gente normalmente non ci arriva a capirla. Come fai a spiegare la gioia di un concerto di un gruppo che hai seguito da anni, trovare finalmente un disco che cercavi da una vita, vedere una persona dopo che vi siete scambiati cento e più lettere e scoprire che poi ci rimarrai in contatto per una vita, il sorrisetto che ti viene quando apri la porta di un negozio di dischi e vieni investito da una sventagliata death metal a centomila decibel, leggere un’ intervista e rivedersi nelle parole del protagonista stabilendo un ponte ideale che poi si ritrova nelle sue canzoni. Non sono cose che possano essere spiegate o chi sei dentro o non ci sei. Poi c’è chi va oltre e per questo è possibile solo rimanere silenti, al massimo farci dei ragionamenti che lambiscono certe sofferenze molto da lontano poiché c’è chi ci ha perso dei figli. Non ci sono foto e video in questo post anche per questo motivo.

Per il resto le ricostruzioni funzionano, vale la pena di parlarne ancora e di ripensare a quei giorni e alla follia di certi personaggi, se non altro per avere un’idea di cosa possano arrivare a concepire dei tardo adolescenti troppo coinvolti e succubi di certe sottoculture. Ovviamente vanno ascoltate con mente aperta e senso critico, spiace solo che chi ha vissuto di persona la scena abbia a disposizione molti più elementi per capire quelle storie fino in fondo, le persone comuni resteranno comunque allo scuro di tutto il contesto e di molti particolari.

Una nota inquietante per quanto mi riguarda è che andai al Midnight per la prima volta un paio di settimane prima che i corpi di Fabio Tollis e Chiara Marino venissero ritrovati… non ci sono mai tornato.

La rivincita della musica strumentale

Premessa: Ho sempre avuto qualche problema con la musica strumentale, quella senza cantato. L’unica cosa che abbia mai seriamente tentato in campo musicale è stata cantare, forse è per quello. Comunque era ben difficile che mi appassionassi a un disco interamente strumentale, succedeva, ma era ben raro. Poi, a un certo punto è scattato qualcosa, soprattutto grazie ai Sabbia. L’ anno in corso, cominciato con quella bellissima serata al cinema, potrebbe benissimo rappresentare la rivincita della musica strumentale, almeno per quanto mi riguarda.

Parte 1: Dei Messthetics  avevo già parlato in occasione del loro concerto torinese del 2019, la sezione ritmica dei Fugazi, coadiuvata da Anthony Pirog alla chitarra, aveva già dato ampia dimostrazione del proprio valore. Ora va oltre e diventa un vero e proprio piccolo ensable jazz collaborando con il sassofonista James Brandon Lewis. Il risultato convince sotto tutti i punti di vista. Un disco ispirato e coinvolgente, che riporta anche alla mente molti grandi del genere e fa pensare che, effettivamente, alla formazione a tre mancasse qualcosa che hanno trovato adesso. Come se il sassofono avesse portato un maggiore equilibrio ed una maggiore completezza alle loro composizioni che ritmicamente rimangono ancora lontanamente imparentate con la band madre ma che, nel complesso, si muovono verso altri lidi altrettanto affascinanti.

Probabilmente non è un disco per tutti, soprattutto se eccessivamente nostalgici del passato di Brandon Canty e Joe Lally, ma se contemplate il jazz nel vostro spettro sonoro, un ascolto è doveroso. Credo proprio che non resterete delusi.

Parte 2. Quando ho saputo che arrivava a Biella Luca T. Maj degli Zu, ho avuto poche esitazioni nel voler andare a vedere di cosa si trattasse. Visto e rivisto molteplici volte nella sua band madre, stavolta torna in pista con componenti di altri gruppi (Zeus, Fuzz Orchestra…) con una nuova proposta che sono ansioso di scoprire. Decido però di non rovinarmi la sorpresa e non ascolto nulla prima. Arrivo all’ Hydro un po’ prima delle dieci con il mio solito compagno di avventura ci scoliamo una dab, invero un po’ impersonale come birra, e poi ci appropinquiamo all’ingresso. Iniziano i Sonic Wolves: si sente solo la batteria di quello che credo essere il batterista degli Ufomammut (non sono molto fisionomista e i suddetti non mi fanno proprio impazzire), gli altri strumenti non o poco pervenuti, il che mi fa già temere per il gruppo che effettivamente ero venuto a vedere. Dal casino della batteria emergono sporadicamente basso, voce e chitarra in maniera appena sufficiente per farmi capire che il chitarrista sa assolutamente il fatto suo mentre la bassista/cantante fa il suo senza troppi sussulti. Non sono particolarmente impressionato.

Il discorso cambia di molto con i Traum (sogno in tedesco): i suoni si mettono magicamente a posto e il quartetto, nel quale Maj si esprime soprattutto con diavolerie elettroniche e tastiere, restituisce una prova sfavillante. Una musica, manco a dirlo, onirica e psichedelica che spazia da certo kraut rock in odore di elettronica (il legame con la Germania in qualche modo si ripropone) a sprazzi di dub, in particolare un episodio nel quale Maj riprende in mano il sassofono. E in mezzo ci stanno mille sfumature sonore che sembrano in perfetta sintonia con certe proiezioni alle loro spalle, molto anni ’70, nelle quali si miscelano colori ed emozioni. Il tempo scivola davvero via tale è il coinvolgimento ascoltandoli.

Inizialmente ero quasi interdetto dalla sorpresa, ma già dal secondo brano mi avevano assolutamente catturato e così è stato fino alla fine. Il classico gruppo del quale ignori l’esistenza ma del quale poi non ti liberi più. Peccato per la scarsità di pubblico, tuttavia quelli che ci sono alla fine esplodono in un plauso sentito e sincero. Grandi Traum, ci mancavate e non lo sapevamo.

Alla fine torniamo a casa con due vinili e al banchetto ci dicono… Addirittura?

Trent’ anni dopo

La premessa è che io mal sopporto i necrologi on line. Mi mettono a disagio tutti questi RIP e queste tombe virtuali quando muore qualcuno di famoso, Ungaretti diceva che era il suo cuore il paese più straziato e spesso vale la stessa cosa per me, solo che mi mette a disagio metterlo in piazza, sia pure una piazza virtuale. Sia chiaro che questo non è un necrologio, un elogio o un piagnisteo, è un semplice discorso su una persona mancata trent’anni fa perché questa persona ha influito molto sulla mia vita, sulla musica che amo, sul modo di seguirla e su tutto quello che ci gira attorno.

Foto interna di “Nevermind” e saluto ai denigratori

E non ho voluto farlo il giorno preciso. Le date non importano. Trent’ anni e qualche giorno fa se ne andava Kurt Cobain. Come ogni rockstar che muore (a maggior ragione se suicida o con una morte eclatante) da quel momento in poi tutti hanno voluto dire la loro, alcuni per esaltare, altri per denigrare, altri ancora per fare altre considerazioni. Io ne sono uscito abbastanza impermeabile, una volta tanto avevo ben chiaro il quadro della situazione, ero disposto ad ascoltare molti, a ragionare su quel che dicevano e qualche sfumatura in più l’ho anche assorbita ma su tutto quello che concerne il musicista di Aberdeen ho sempre avuto la mia idea. Altre persone che sono state accomunate al lui per la fine della loro vita, sono troppo lontane nel tempo e nello spazio. Lui no. Lui era straordinariamente vicino. Almeno a me.

Detto questo, sul discorso Cobain è stato detto di tutto e di più, rimane ben poco da aggiungere. Una cosa su cui nessuno si sofferma mai è il contesto nel quale uscì “Nevermind”. Posso solo parlare per me, ovviamente, magari per chi viveva in una grande città non cambiò molto. La provincia, per di più italiana, era totalmente un’altra cosa. Come ho già detto non c’era molta speranza per noi.

La scena musicale era deprimente: dominata esclusivamente da ciò che passava la radio e i negozi di dischi erano luoghi improbabili che badavano a vendere solo ciò che erano sicuri di vendere, ignorando o quasi fenomeni laterali, rivoluzioni musicali o una qualsivoglia forma di anticonformismo.

“Nevermind” mi fu passato da un mio compagno di classe, registrato da una cassetta registrata da suo fratello, reduce da un viaggio in America. Credo di essermi spiegato. Fortunatamente da lì in poi le cose andarono in discesa, finalmente le menti cominciarono ad aprirsi, i dischi cominciarono ad arrivare i concerti ad esplodere. Gli anni novanta furono un periodo magico nel quale essere adolescenti, finalmente venne un po’ spazzato via il vuoto spinto del decennio precedente, come ho già scritto: probabilmente fu l’ultima volta in cui essere fu più importante che apparire.

Furono anni in cui sembrava far rivivere il decennio principe per la musica, gli anni ’70, solo un po’ più tecnologici e disillusi. Non voglio parlare della musica dei Nirvana, non voglio erigere sacrari, non voglio dire nient’altro se non che l’uscita di “Nevermind” diede una tale scossa all’ambiente che l’avvertimmo anche in provincia e, d’un tratto, per pochi secondi, smettemmo di essere quelli strani, quelli diversi e venimmo quasi accettati. Non che fosse importante il riconoscimento della società, ma trovare certi dischi che ci fecero crescere, guadagnarci certi spazi in cui poterci esprimere, quello fu fondamentale. E per un decennio funzionò, anche bene.

Come ogni cosa poi ci fu un riflusso e ognuno se ne tornò nel proprio vivere, per alcuni fu quieto (ma consapevole) per altri burrascoso. Una cosa è certa: senza quel disco con il bambino in copertina, tutto sarebbe stato più difficile.

Se potessi vorrei solo far capire a quel ragazzo ciò fece per tutti noi. Magari il suo malessere potrebbe acquisire un senso. E, in ogni caso, non posso che dirgli grazie, magari anche urlarglielo.

She reaches out

Il nuovo disco di Chelsea Wolfe mi arriva a casa dopo mesi di preordine, tanto che il fatto che dovesse uscire ad un certo punto, mi fosse uscito di testa. Era stato ordinato quasi in automatico, per la stima che mi lega all’artista, salvo che poi non mi ero fatto il conto alla rovescia ed alla fine è uscito. Dopo l’esperimento con i Converge, a parere di chi scrive riuscito soltanto a metà a distanza di qualche tempo adesso arriva questo disco dal titolo circolare e dalle atmosfere anni ’90. Perché comunque va detto che la Wolfe è cangiante nell’espressività e nonostante questo riesce a fare tutto bene nella maggior parte dei casi.

Fanno parte della sua espressività suggestioni acustiche, sferzate elettriche, abissi di droni e sfido chiunque a tenere legate le diverse anime mantenendo alto lo standard qualitativo della propria proposta. Lei ci riesce e le va dato atto di questo. Il primo brano che mi è giunto alle orecchie “Whispers in the Echo chamber” sa di Nine inch nails lontano chilometri, tanto da far quasi preoccupare: è un ottimo brano, peccato che Reznor certe cose le faceva già negli anni ’90, quando arriva la schitarrata sembra proprio che ci sia lui dietro a tutto quanto e che la registrazione arrivi proprio da dentro la casa di Sharon Tate. In tutto il disco si sente aria di citazioni, siano i Depeche Mode, i Killing Joke o Bjork. Una volta si chiamava “industrial” oggi non lo so. Fortunatamente, rispetto al primo brano, la personalità della signora Wolfe viene fuori alla grande nel disco: a proposito di Bjork una volta ebbe a dire che “l’elettricità c’è sempre stata, non è vero che la musica elettronica non ha anima, l’anima ce la deve metter l’artista” ed è esattamente ciò che la Wolfe fa.

Pochi artisti riescono a mettere così tanto di se stessi in quel che suonano, se le fonti di ispirazione, musicalmente parlando, si fanno sentire in questo nuovo disco, dal punto di vista lirico ed interpretativo il livello espressivo è assolutamente elevato. Prendendo spunto dalla personale battaglia contro la dipendenza da alcool e dalle esperienze di persone a lei vicine, riesce a rendere perfettamente il tumulto e l’impeto interiore di una persona che desidera rinascere e riscostruire se stessa, contando soprattutto sulle sue forze. Personalmente continuo a pensare che “Abyss” rimanga il suo lavoro migliore tuttavia non riesco ad individuare un solo lavoro debole nella sua discografia. Ogni episodio ha un proprio punto di forza e quello di quest’ultimo capitolo è quello di essere un’opera profondamente sentita ed ascoltando brani come l’intensa “Dusk”, la dilatata “Salt” ed il crescendo emotivo di “Unseen places” mi auguro che sia evidente anche al meno empatico degli ascoltatori.

Back in the days…

92 minuti di applausi

Biella non è il posto più vivo del mondo culturalmente parlando eppure a volte accadono cose straordinariamente belle delle quali parlare è necessario. Molto di tutto ciò ruota attorno a un collettivo di artisti, attivi ormai da anni, che si chiama Kono dischi. In principio era il Babylonia, ma finito quello, il deserto avanzava su tutti noi: sono stati anni difficili nei quali ognuno ha cercato di riorganizzarsi per dare voce ad una cultura che vada oltre quella istituzionalmente proposta.

Non che non sia necessaria, non che a volte non faccia cose assolutamente meritevoli: cose come le mostre a Palazzo Gromo Losa o il festival Fuori Luogo sono assolutamente ciò che mantiene viva la cultura da noi. Ciò nonostante c’è bisogno di qualcosa che rompa gli schemi, che si proponga come indipendente e libero. E questo collettivo di artisti, nato dalle sale prove e dalla necessità di trovare un posto nel quale fosse possibile fare musica creando un circuito nuovo, rappresenta un tentativo riuscito di fare tutto questo.

Ne ho parlato qui in passato e lo rifaccio ora perché il 18 gennaio è stata una data da ricordare, un evento credo unico nel suo genere finora nel nostro territorio. Due realtà che mantengono assai alto il livello culturale sul territorio come Kono dischi e il Cinema Verdi d’ Essai di Candelo hanno unito le loro forze per dar vita alla meraviglia. Meraviglia di rivedere due corti di Buster Keaton musicati in diretta dai Sabbia.

Stavolta niente video o immagini. Solo la locandina qua sopra. Non me la sono sentita di tirare fuori il telefono e fotografare o filmare, tutto era talmente bello e ben fatto che interrompere la visione per fotografare o filmare mi sembrava un insulto, però fidatevi: è stato qualcosa di assolutamente grandioso.

E anche vedere la sala gremita, senza uno spazio libero, rinfranca il cuore. Finalmente un evento in grado di scuotere le persone, di unirle nel nome della bellezza e dell’ arte: un’ unione clamorosa, a circa cento anni di distanza, di immagini e suoni, di ombre e vibrazioni elettriche e, alla fine, anche di sorrisi -pur sempre di cinema comico si tratta- e di suggestioni oniriche.

Spesso qui da noi c’è sonnolenza, c’è un costante appiattimento culturale generalizzato. Ma la cosa bella è che se si guarda verso l’alto ci sono anche le vette che si stagliano al di sopra di tutto, ci sono le montagne a rappresentare che spesso ci si può (e ci si dovrebbe) elevare.

Scappare verso le vette è ciò che ogni biellese può fare quando ogni cosa attorno sembra invece puntare verso il basso. Le montagne sono lì, con il silenzio e l’aria pura, con la neve candida ed il cielo azzurro. E a volte, come giovedì sera, non è nemmeno necessario camminare tre ore o scalare delle rocce per andare più in alto di tutto.

Grazie di cuore.

Cinema Verdi Candelo

Sabbia

Chiedo scusa per l’ironica citazione fantozziana del titolo: si tratta solo del fatto che una delle prime cose che generalmente mi vengono in mente parlando dei film muti sono le famose scene di costrizione aziendale del povero ragioniere. Ovviamente nulla di ciò in questo caso, sia chiaro.

2023

Arrivo a fine anno svogliato nel tirare le somme di quanto mi ha coinvolto durante lo scorso anno. È stato un anno con poche soddisfazioni vere, ma quelle poche autentiche e sentitissime. Per questo il listone si ferma a cinque nomi e un gruppone di inseguitori come direbbe il compianto Adriano De Zan. I primi cinque mi hanno fatto venire veramente una passione sconfinata nei loro confronti al punto che, in cinque momenti di quest’anno i loro dischi sono diventati un’ossessione e li ho ascoltati a ripetizione come non faccio da anni. Sono una delle persone con la soglia della noia più bassa che esista, per questo non ascolto mai troppo un disco cui tengo tanto: ho una paura tremenda che mi venga a noia.

Stranamente questi cinque dischi non solo li ho ascoltati tanto, ma non mi hanno nemmeno mai stancato. Sono cinque dischi a cui voglio bene, sono dischi del cuore. Detto questo prima ci sono gli inseguitori. Dei Turin horse non posso che parlare bene, sono intensi, personali e passionali. Da applausi, spero che continuino ed espandano ancora i loro orizzonti. Di PJ Harvey non devo essere certo io a scriverne, è un’artista che non ha bisogno di presentazioni, l’ultimo disco è oggettivamente bello, ma mi è venuto a noia prestissimo, mi sento quasi in colpa ma è così. Una bella sferzata me l’hanno data i Burner un ensamble albionico che davvero non le manda a dire, echi di furioso death metal, imbastardito con i Botch (sia sempre gloria a loro) e carico di groove, ogni tanto c’è davvero bisogno di bordate senza guardare dove. 20 minutes ovvero la Val d’ Ossola alla riscossa: dalle ceneri quasi disperse dei Diserzione rinascono in questa nuova formula molto urgente e rock’n’roll, divertenti e senza fronzoli. Ho avuto poi una bella rimpatriata a inizio anno con gli Obituary, mi fa sempre piacere ascoltare un loro disco e l’ultimo mi sembra anche uno dei migliori dell’ultimo periodo: Trevor Peres e i fratelly Tardy sono una certezza, anzi no, una leggenda. Ho avuto una sbandata anche per Great cold emptiness che mi sono piaciuti molto per la loro ispirazione trasversale, anche se quell’ultima traccia unz-unz mi ha fatto scadere un disco altrimenti veramente bello. Dall’intervista ai Carmona Retusa, ho tratto gli Strebla il loro disco è antecedente al 2023, ma è stato un piacere scoprirlo e spero che facciano prestissimo uscire un seguito. Altra bella scoperta i Tar Pond dalla Svizzera, credo che non abbiano inventato chissà quale formula ma l’abbiano comunque fatta al meglio e la (lieve) somiglianza tra il loro cantante e il mai troppo compianto Layne Staley, devo dire, ha fatto la sua parte. Una mezza delusione, molto amara invero, me l’hanno data i Green lung: non che abbiano fatto un brutto disco solo che non mi fomenta come i precedenti: non escludo di poterlo rivalutare in futuro ma, ora come ora, non mi viene nemmeno voglia di ascoltarlo di nuovo. Ottimi gli TSUBO, autori di una bella prova spaccatutto con nulla da invidiare ai grandi nomi del Grindcore internazionale, anzi.

Una menzione d’onore per i Crushed curcuma che finiscono fuori dalla cinquina solo perché hanno confezionato un disco veramente eccellente ma che comunque ho ascoltato meno degli altri.

Bosco Sacro “Gem”: un disco che ha suscitato il mio interesse, ammetto, per il fatto che la loro cantante ha aperto qualche data ai mai troppo celebrati Messa. Però veramente una bella prova la loro, riminiscente dei Dead Can Dance ai quali però applicano un trattamento molto doom con suoni grevi ed atmosfere cupe e dilatate. Da rimarcare anche l’idea dei testi multilingue che si adattano perfettamente al contesto. Non è ancora chiaro se si tratterà di un episodio isolato ma, visto l’esordio c’è da augurarsi di no.

Motorpsycho “Yay!”: È una delle cose più difficili del mondo fare un disco positivo, leggero e solare che non risulti stucchevole o pieno di ipocrisie. ancora più difficile darlo in pasto ad un ascoltatore che mal digerisce la leggerezza come il sottoscritto. I Motorpsycho ci sono riusciti e con un risultato assolutamente maiuscolo. L’ennesima prova che sono un grandissimo gruppo che non si adagia sul proprio blasone ma è in grado di assumere una forma cangiante e sfaccettata, sempre di qualità altissima.

Carmona Retusa “Cento occhi urlanti”: Storia recente, disco atteso da anni e attese ripagate. La formula è sempre quella, le sfumature diffrenti ma attitudine e solidità da vendere. Un gruppo sincero e profondo che tiene duro in modo egregio. Cento occhi urlanti, una sola voce!

Sabbia “Domomental”: Più che un disco un compagno di percorso. Avvolgente e coinvolgente. Un’atmosfera densa voluttuosa come un rivolo di fumo e crepuscolare come un tramonto rosso sul deserto. Descriverlo diversamente mi riesce difficile: è una sensazione di meraviglia, una predisposizione spirituale… uno stato di grazia.

Stormo “Endocannibalismo”: L’avevo già detto quando uscì che era un disco del cuore. Ineguagliabili, intensi e implacabili. Una vera e propria tempesta sonora dalla quale è bellissimo farsi travolgere. L’unico peccato è che spesso non ci sono fonici in grado di esaltarli dal vivo, supereranno anche questo, ogni disco è un passo avanti verso l’eccellenza.

Mi restano da ascoltare con più calma: Deadly Carnage e Nothing/Full of hell. Promettenti, ma non ho ancora avuto tempo.

A meaning to the end

Non ci ho mai capito nulla di Pasolini. Pasolini, per me, è come un dribbling di Garrincha, formalmente incredibile, ti passa davanti e non capisci come abbia fatto. Eppure ti accorgi che non tutto è perfetto, a volte è una gamba più corta dell’altra a volte un’ombra che ti accompagna tutta la vita. Non ci ho mai capito nulla, ma alcune cose le so, per esempio so che Salò è stato uno dei film più terrorizzanti che io abbia mai visto e non c’è horror che tenga. So che ammiro l’uso del friulano, so che in ogni suo film c’è un elemento che mi disturba, so che la lunghissima scampagnata in vespa di Nanni Moretti in “Caro diario” è una delle cose più commoventi e belle mai finita su una pellicola (complice Keith Jarret, questo è sicuro) e credo di averlo già scritto allo sfinimento. Mi sono anche ascoltato tutto il podcast di Walter Siti sulla sua vita e ne ho cavato, al solito, opinioni contrastanti, senza mai giungere ad un pensiero compiuto, senza farmi un’idea precisa.

Del resto lui stesso è un incompiuto visto come hanno terminato la sua vita senza che avesse la possibilità portare a termine uno dei suoi progetti più ambiziosi, quel “Petrolio” che non avrà mai una forma definitiva. L’interruzione brutale di una vita lascia noi colmi di interrogativi irrisolti, di pensieri incompiuti di parole non dette. Che continuano a fare male. In un periodo della mia vita, e in parte ancora adesso, le cose incompiute hanno avuto un fascino enorme su di me: la fine brutale di “Easy Rider”, i romanzi di Kafka, il finale de “Il Giovane Holden”, sono solo le prime cose che mi vengono in mente. Tutte le volte che rimane del non detto. Da una parte c’è spazio per l’immaginazione, dall’altro l’ horror vacui per quel vuoto che non si riempirà mai: possiamo riempirlo noi, ma solo di ipotesi. Trattandosi di un film o di un libro mi può anche stare bene colmare il vuoto con la fantasia, se si tratta di rapporti con le persone il gioco si fa difficile.

Per quanto mi riguarda, molto difficile. La fine è un concetto arduo da gestire, forse nemmeno troppo spesso affrontato, qualcosa che si preferisce non vedere o non considerare ma che fatalmente arriva. Ci sono persone che lo considerano naturale, che pensano che qualsiasi cosa succeda faccia parte della vita, che lo accettano, non dico serenamente ma più facilmente. Io no. Io sono il classico tipo kicking against the pricks, uno che scalcia deciso anche se il pungolo è in mano ad un altro e facilmente mi toccherà andare nella direzione nella quale vuole lui e, come dice il passaggio bibblico è dura.

L’accettazione costa meno fatica ma non fa per me. Quindi ogni volta che qualcosa finisce, non finisce mai per davvero, ovvero non finisce mai per me, contro tutto e tutti. Salvo che tu rimani fermo a quando la fine di qualcosa ha avuto luogo e nel frattempo il mondo ha continuato a girare. Salvo che sei rimasto ibernato in una condizione e ti sei limitato a guardare fuori dal finestrino  mentre gli altri vivevano, mentre l’indifferenza del paesaggio esterno, ne suo scorrere, si trascinava via il tempo. La morte apparente. La vita latente. Un inferno di accidia personale.

L’unica ricompensa è che, se ti sei autoinflitto quest’inferno, questo lutto eterno, questo rimescolamento di pensieri stagnanti ed infecondi, è che poi difficilmente vedrai di peggio.

L’apocalisse è quello che c’è già, ironica soap opera.

O magari vedrai di peggio, ma con la conspevolezza di esserti tirato fuori dagli inferi già una volta. E a un certo punto del percorso, per colpa dei Klimt 1918, ti rendi conto che solo l’amare conta solo conoscere conta, non l’aver amato non l’aver conosciuto e ciò ti colpisce in faccia e capisci che non puoi cercare di rispondere e di parlare al passato perché non lo conosci più.

le persone non sono risposte, sono solo domande in più.

Carmona Retusa – Cento occhi urlanti

 Cinque anni sono tantissimi. Non ho aspettato tutto questo tempo ma solo perché ho scoperto in ritardo (e grazie a Blogthrower) il loro disco d’esordio “Solo un po’ di terra e un albero sopra”, un lavoro che è stato una rivelazione per un gruppo finalmente in grado di esprimere una proposta musicale con una personalità forte e ben definita, assolutamente in grado di spiccare nella marea di epigoni che ci sono in giro. Sono riuscito a perdermeli di supporto agli Unsane in una data storica a Caramagna piemonte ma solo perché era a un’ora e quaranta da casa e quel giorno eravamo in ritardo e anche il release party di qualche giorno fa ha purtroppo subito la stessa sorte. Nell’attesa di colmare questa lacuna intanto ho tra le mani il loro vinile che appare affascinante fino dalla copertina.

Non so cosa abbiano fatto in questi cinque anni, posso solo immaginare che difficoltà possa avere un gruppo a far progredire musica nuova lavorando e vivendo quotidianamente. È stata una lunga attesa, per quanto mi concerne anche piena di aspettative, quindi prima di ascoltare ho fatto un sospirone e sono partito. Ho ritrovato la stessa atmosfera, lo stesso suono nervoso e abrasivo, gli stessi testi urgenti e tesi, la stessa atmosfera intrisa del migliore noise rock, forse di derivazione straniera, ma assolutamente italiano nella fattura. Perché in Italia ormai c’è (e c’è stato) un vero e proprio movimento con tutti gli onori del caso.

Carmona Retusa, Fonte Bandcamp

Ed in effetti, l’apporto dei Carmona Retusa mancava perché sono realmente in grado di dire la loro. Il nuovo disco, nonostante il tempo trascorso, riprende esattamente da dove il predecessore aveva lasciato, diventando il proseguimento naturale di quello splendido esordio ispirato da Andrea Pazienza.

Stilisticamente nessuna grossa novità, lo stile è talmente personale e definito che alla fine non ce n’è bisogno perché nessun gruppo suona come i Carmona Retusa: benché siano ravvisabili alcune influenze, loro li riconosci dopo la prima nota, anche per l’uso peculiare che fanno della voce. Cambia qualcosa nel modo in cui suonano: la produzione risulta molto secca ed asciutta, abbastanza diversa da come suonavano prima, i brani si muovono urtando ogni cosa, prendendo quasi a spallate i timpani e, ancora una volta, c’è da fare un applauso ai testi incuneati nel personale, conficcati a forza nella vita.

Personalmente “Pietra” mi ha davvero fatto sobbalzare dalla sedia, come se fosse mia, anzi probabilmente lo è. Ma ognuno può trovare di che riconoscersi in qualsiasi altro brano, questo è un altro valore aggiunto di questo disco: parla schietto all’interiorità. Basta saper ascoltare.

Bentornati.

Sunn 0))) dal vivo al Live Club di Trezzo sull’ Adda 20/09/2023.

Mi trovo sempre molto in difficoltà a parlare di un concerto dei Sunn 0))). Forse perché non è un concerto: è un’esperienza, una liturgia, un rituale, un… qualcosa di diverso che si fa molta fatica a spiegare ai profani. Quello che posso dire è che nessun filmato, nessun disco o supporto fonografico, nessun media in generale può prepararvi a quello che sono i Sunn 0))) dal vivo. Per capire se vi piacciono o meno l’unica soluzione è vederli suonare di persona, credo che sia una sintonia che nasce a pelle e che, se si instaura, poi non ti lascia più, obbligandoti a comprare i loro dischi e a rivederli tutte le volte che riesci.

All’inizio di questa esibizione una cosa mi ha stupito. Cessata la musica di sottofondo (come al solito una cosa abbastanza fuori luogo), poco prima che iniziasse l’esibizione, c’era un silenzio irreale, quasi tutti smisero di parlare e fare rumore quando si sono spente le luci…. Poco prima qualcuno aveva gridato “fateci male!”, un siffatto incitamento mi ha lasciato a dir poco perplesso, au contraire, a me i Sunn 0))) fanno bene. Credo siano una delle massime espressioni della chiesa del rock’n’roll: quel culto che ha come candele le valvole, come altari i palchi, come sacerdoti i musicisti, come funzioni i concerti e così via. Intensi, meditativi, grevi… eppure spirituali alla massima potenza. Il fumo, le luci, i suoni servono proprio a farti raggiungere l’elevazione, a farti trascendere e quando smettono di suonare è come se ti ritrovassi di colpo nel mondo reale e non sapessi cosa fartene. Sei appena stato altrove per un’ora e mezza, hai dimenticato tutto e tutto ciò che ti ha invaso la mente erano luci, fumo e un suono in grado di farti vibrare ogni molecola che tu lo voglia o no. Nessun altro gruppo è in grado di fare una cosa del genere.

E il discorso potrebbe esaurirsi qui. Poi rimangono le questioni di contorno:

Il live club di Trezzo sull’ Adda è un posto troppo canonico per un loro concerto… il miglior concerto per atmosfera, resa sonora e scenica fu quello alle carceri storiche di Torino qualche anno fa, vi lascio immaginare il perché. Sulla carta anche il labirinto della Magione sarebbe stato suggestivo, ed in effetti fu un grande concerto, però credo che all’ aperto rendano meno che in un locale chiuso… Anche se, se è vero che in quel luogo dimora anche Sgarbi, vederlo spettinato dall’onda d’urto non avrebbe avuto prezzo.

La formazione a due (Greg Anderson e Stephen O’ Malley, per l’occasione sbarbato) è la mia preferita, apprezzo anche Steve Moore, Attila Csihar e compagnia, ma il duo rimane il duo, meno fronzoli più muro del suono e monoliti sonici a valanga. Le aperture e le sperimentazioni rimangono una gran cosa, però un concerto duro e puro non lo vedevo dalla prima volta che li vidi a Bologna, in occasione dell’anniversario dei Grimmrobe demos ed in effetti mi mancava ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo oooh.

Worshipping the tubes… Yeah!
Laura Filippi ART

Matite acquerellabili

a band a day.

www.daily.band

Doom Charts

A one-stop shop for the best new heavy albums in the world...

Nine Circles

We, The Blog

Sugli Anelli di Saturno

Camminare attorno al tuo pianeta

Shoegaze Blog

Punk per gente introversa

Less Talk.More Rock

ON THE SCENE SINCE 1994

miss mephistopheles

Satan Is A Lady

Head-Banger Reviews

Daily Reviews for the Global Domination of Metal and Rock Music

Un Italiano in Svezia

Le avventure di un emigrato

rockvlto

be rock be cvlt

Il Raglio del Mulo

Raccolta disordinata di interviste

neuroni

non so chi abbia bisogno di leggerlo

10.000 Dischi

I dischi sono tutti belli, basta saper coglierne gli aspetti positivi

Blast Off

How heavy metal reached the peak of its stupidity with me

Sull'amaca blog

Un posto per stare, leggere, ascoltare, guardare, viaggiare, ricordare e forse sognare.

Note In Lettere

Note in lettere, per l'appunto.

Blog Thrower

Peluria ovunque, ma non sulla lingua

Layla & The Music Oddity

Not only a music blog

.:alekosoul:.

Just another wanderer on the road to nowhere

Stregherie

“Quando siamo calmi e pieni di saggezza, ci accorgiamo che solo le cose nobili e grandi hanno un’esistenza assoluta e duratura, mentre le piccole paure e i piccoli pensieri sono solo l’ombra della realtà.” (H. D. Thoreau)

dirimpa.wordpress.com/

pensieri sparsi di una coccinella felice

Polimiosite: nome in codice RM0020.

La polimiosite è una malattia muscolare rara ancora poco conosciuta. Aiutami a informare e sostenere chi ne è affetto!!!

BASTONATE

Still Uncompromising Blog

metalshock.wordpress.com/

Perché la gente non sa che si perde a non essere metallari

Words and Music

Michael Anthony's official blog and book site

Fumettologicamente

Frammenti di un discorso sul Fumetto. Un blog di Matteo Stefanelli

Appreciation of Trevor Dunn

Appreciation of Trevor Roy Dunn, composer, bass and double bass player extraordinaire.

Briciolanellatte Weblog

Navigare con attenzione, il Blog si sbriciola facilmente

laglorificazionedelleprugne

perché scrivere è anche questo

ages of rock

Recensioni e pensieri sulla Musica Rock di tutti i tempi

Fuochi Anarchici

Fuoco fatuo, che arde senza tregua. Inutile tentare di estinguermi o di alimentarmi, torno sempre me stessa.

fardrock.wordpress.com/

Ovvero: La casa piena di dischi - Webzine di canzonette e affini scritta da Joyello Triolo