Back To Babylonia

Per molti anni parlare di Biella ha significato parlare di industrie tessili, poi è arrivato il famigerato mobilificio Aiazzone e quidi il nulla o quasi, se si escludono Pistoletto e la serie di Zerocalcare. Io ho la speranza che la città nei pressi della quale vivo venga ricordata dagli appassionati di musica per quel locale che a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio dei duemila ha significato così tanto per i biellesi e non solo: Il Babylonia. Il primo contatto col locale l’ho avuto tramite Aldo, quello che poi sarebbe diventato il padrone del locale. Nel suo negozio di dischi (prima Fragole e panna e poi Paper moon, resiste ancora con un’altra gestione) mi disse che voleva aprire un club per la musica dal vivo che fosse un po’ esclusivo e che per accedervi sarebbe stato il caso di fare la tessera dal costo, per me all’ epoca non irrisorio, di 20000 lire.

Non se ne fece nulla per qualche mese, false partenze, situazioni poco chiare e un concerto fantasma dei Radiohead che, alla fine, non ho mai capito se abbiano o meno suonato nel locale. Alla fine però riuscì a partire e fu un punto di riferimento costante almeno per il nord-nord ovest del paese. Il primo concerto che ci vidi fu Cyco Miko e fu pazzesco: prima loro, poi gli Infectious Grooves e, in fine una jam sesion finale con 6 brani dal primo disco dei Suicidal Tendencies. Alla fine nemmeno mi ricordavo più delle 20000 lire iniziali finite chissà dove. Continuò in questo modo per un decennio circa, portando a pochi chilometri da casa gruppi che prima, se eri fortunato, passavano a Torino o Milano. Fu un’epoca gloriosa, potevi andarci al pomeriggio e salutare i gruppi prima del soundcheck, entrare dopo una certa ora quando Aldo apriva i cancelli oppure passare e stare fuori a chiacchierare con qualcuno con un’opportuna dose di birra nel bagagliaio.

Sabato scorso, presso il nuovo Hydro, sempre a Biella, ha avuto luogo Back to Babylonia: una giornata per ricordare il locale con interviste a vecchi frequentatori (tra cui il sottoscritto) e concerto con dj set in serata. A dire la verità il progetto di raccogliere materiale sui concerti (foto, video, registrazioni, locandine etc…) era già partito molto prima, poi è arrivata la pandemia e il progetto si era un po’ arenato, ora pare stia ripartendo e speriamo che porti a un giusto ricordo di quello che è stato e di ciò che ha significato il locale .

Non è solo una questione di nostalgia, è proprio una celebrazione di un posto che, a ripensarci, sembra incredibile sia esistito veramente. Risedersi sugli stessi divanetti per farsi intervistare (chissà come li avranno recuperati), non lo nascondo, mi ha fatto effetto, essendo fiducioso che, nel frattempo, qualsiasi residuo, di qualsiasi tipo, fosse abbondantemente defunto.

Nell’intervista varie domande e una simil conversazione con altri due ex-frequentatori del luogo, uno addirittura giunto da Torino, nella massima naturalezza. Poi l’intervista individuale con la classica domanda: “quali sono stati i tre migliori concerti visti al Baby?” sui primi due non ho avuto dubbi. I Neurosis furono stupefacenti con le proiezioni,  i loro brani apocalittici (credo che lì li vidi nel tour di “Times of Grace”) e la sensazione che fossero in grado di polverizzare chiunque dal vivo, poi i My Dying Bride (era il tour di “Like gods of the sun”) con i quali ci intrattenemmo un intero sabato pomeriggio e il terzo… nell’indecisione ho detto Voivod, ma col senno di poi direi sicuramente Queens of the stone age o Unida. Senza parlare del clamoroso exploit dei CSI che poi finirono per suonare al palasport per la troppa richiesta durante il tour di “Tabula rasa elettrificata”.

In serata mi sento di parlare solo del fantastico concerto dei Sabbia, il resto me lo sono un po’ perso salutando varia gente e gravitando attorno al bar. Però i Sabbia hanno dato vita a un concerto veramente speciale, come se non bastasse il disco (“Domomentál”, di cui ho già disquisito) che si è già inserito prepotentemente fra i miei preferiti per l’anno in corso, dal vivo sono stati qualcosa di assolutamente coinvolgente: un’ora circa di magia onirica, un’ atmosfera desertica e torrida, qualcosa che ti colpisce con  quella fisicità in più che solo un concerto dal vivo finalmente intenso può regalare, forse l’unica cosa impossibile da trasportare completamente su disco.

Quasi vent’anni dopo è un piacere constatare che abbiamo ancora qualche motivo per essere fieri della terra che ci ospita e questi sono i Sabbia e vederli dal vivo ha sicuramente consolidato quest’impressione. Il problema è che mi riesce difficile parlarne perché l’atmosfera che creano rende ardua qualsiasi razionalizzazione o descrizione. Come diceva Battiato “È bellissimo perdersi in quest’incantesimo” e quindi vi lascio tre dei loro brani. Il consiglio è quello di lasciarsi trasportare, fidatevi.

Stormo live: Blah Blah Torino 14/04/2023

Aspettavo questo concerto da tanto tempo, da qualche anno aspettavo che qualcuno facesse giustizia ad un gruppo che è fra i migliori d’Italia al momento, gli STORMO. Mi sono già più volte sperticato in lodi nei loro confronti, quindi non starò a ripetervi quanto io li stimi musicalmente (e anche come persone, visto che ci siamo scambiati qualche messaggio nel tempo) il punto è che però dal vivo necessitano di un fonico che li sappia valorizzare e di un locale con un’acustica decente, altrimenti quello che arriva è un suono confuso che non permette di apprezzare nulla dei loro sforzi.

Sembra incredibile eppure è vero, tanto più la musica è complessa, sfaccettata e a tratti caotica, tanto più c’è necessità di pulizia dei suoni. Il marchio di fabbrica dei feltrini infatti è un suono assolutamente simile ad una tempesta sonora, per quanto incredibilmente ben progettata. Rendere loro giustizia dovrebbe essere un obbligo (e probabilmente una sfida) per qualunque fonico abbia un minimo di passione per quello che fa aldilà dei gusti musicali.

Finalmente Giulio Favero, nella loro ultima fatica in studio di cui ho già parlato, era riuscito a farli suonare al meglio: finalmente le parole giungevano nitide all’ ascoltatore e ogni strumento si era dimostrato in grado di ritagliarsi un proprio spazio, anche nei momenti maggiormente frenetici. Insomma quel disco suona come dovrebbe suonare, è una vera e propria bomba. Paradossalmente mi ero già reso conto della cosa in ambito molto più estremo ascoltando i Nasum, li preferisco in maniera netta ai capisaldi del genere proprio in virtù del suono pulito dei loro dischi: sembra quasi un’ eresia e ho dovuto rileggere due volte la frase ma devo ammetterlo, soprattutto con me stesso, è proprio così. Riuscire a decfrare distintamente il lavoro di ogni musicista dona al disco un valore aggiunto immenso. Per quanto mi piacciano il lo-fi e i suoni dannatamente sporchi (come fai a non amare il suono sporco dei Misfits, dei Darkthrone e anche dei Napalm Death) in questo ambito generano solo confusione.

Tutto questo per dire che, dopo averli visti per la prima volta a Biella assieme agli O, volevo sentire un bel concerto degli STORMO e uscirne soddisfatto. A Biella (e mi rincresce dirlo perché l’Hydro era veramente un bel palco e sta ritornando) era stato un completo disastro, suoni inintelligibili e confusi, non una nota nitida per i due gruppi. Probabilmente nessuno dei fonici residenti era in grado di gestire suoni così estremi, fatto sta che fu una delusione anche se non per colpa loro: li vedevi suonare e intuivi… ma quello che arrivava era un suono informe e tremendo.

Per questo confidavo nel Blah Blah, anche se, vista la data degli Unida potevo avere dei seri dubbi, che purtroppo sono diventati reali. Gli Infall in apertura suonano un genere diverso, non era così necessario che i suoni fossero cristallini. Una sorta di post HC acido, sulla falsariga dei Neurosis più estremi e meno rifiniti. Del grezzume nel suono ci stava tutto. Ma gli STORMO sono un’altra cosa e spero che risulti lampante a chiunque abbia ascoltato la loro prova su disco. In sostanza la resa sonora è appena superiore a quella di Biella e nonostante sia assolutamente chiaro che loro siano bravissimi, e in particolar modo il batterista Stefano, quello che si sente permette appena di riconoscere i brani. D’altronde il posto è poco più di un corridoio certo, ma quando poi circolano delle foto che ritraggono il PC dei fonici sintonizzato su “quattro ristoranti” credo che non ci sia bisogno di aggiungere altro. Come dice la canzone “Parto (per casa) con il pianto nel cuor a Torino ho lasciato l’amor”… o qualcosa del genere.

Il report arriva con colpevole ritardo ma divento davvero triste a pensarci…

Cose ascoltate di recente, edizione Italia

MEO – Testarossa: Mi sono incuriosito a questo disco grazie a Blog Thrower e all’intervista fatta all’etichetta Fresh Outbreak, è una bellissima prova di questa (suppongo) giovane band torinese. Come anche nel caso degli Øjne non si tratta esattamente del genere che prediligo, eppure questo disco mi è piaciuto, i ragazzi dei MEO hanno un ottimo gusto musicale e compongono dei brani nient’affatto banali pur suonando un genere assolutamente riconoscibile. Complimenti, pur avendo qualche difficoltà, come per ogni gruppo emo, ad apprezzare anche i testi, questo è veramente un bel lavoro.

Lleroy – Nodi: Una vera mazzata in faccia consigliata da Neuroni. I tre ragazzi emiliani ci vanno giù duro, con un indie rock possente e greve come un pachiderma in corsa. Non fanno sicuramente complimenti: un muro del suono che difficilmente potrà avere eguali nel genere, la voce che, curiosamente, mi  ricorda Franz Goria dei Fluxus declama versi di difficile interpretazione che sembrano provenire da qualche dimensione difficile da decifrare. Sono in attività da un bel pezzo e mi sono pentito di averli scoperti solo ora (tra l’altro anche il disco precedente “Dissipatio HC” è assolutamente meritevole) e di essermeli persi in sede live dove sicuramente danno il meglio, viste le premesse su disco. Da sentire senza ritegno a volumi esagerati.

Oreyeon – Equations for the useless: Questa volta da La Spezia, città che sempre cara mi fu per essere stata la patria di Fall Out e Prof. Bad Trip. Qui però il discorso è diverso: partiti come Orion, ora Oreyeon, scagliano nello spazio un rocciosissimo hard rock cangiante e cosmico, lontanamente riconducibile ai filoni stoner, a tratti grunge e psichedelici, con una voce melodica. La miscela funziona alla grande con un’attenzione particolare ai riff e alla sezione ritmica, davvero molto solida.

NETN – s/t: Noise-rock da Ferrara, i punti di riferimento qui sono Shellac, Helmet e a tratti Unsane. Il genere proposto dal terzetto mi piace, credo che ogni amante del genere possa trovare nelle loro note qualcosa di sicuro interesse, personalmente li seguo fin dal loro precedente lavoro “Dangerfield” quando ancora erano un duo e si facevano chiamare Niet (No alla russa, per capirci). Da allora il loro sound è ancora evoluto, diventando maggiormente completo anche se non condivido molto l’impostazione della voce (opinione personale), il lavoro è assolutamente degno dell’attenzione generale.

…Il tutto ovviamente senza dimenticare che domani esce un serio candidato a disco dell’anno, ovvero il nuovo STORMO!

L’Italia vera che suona, resiste e urla dal basso è questa.

Il Blues dei libri venduti

Non vi è mai capitato di vendere dei libri ad un negozio di libri usati? Che sia una triste esperienza ne convengo assolutamente, un po’ perché separarsi da certi volumi è uno strazio, soprattutto perché poi quello che ne ricevi in cambio vale poco di più di un sorriso e di una pacca sulle spalle. Libri pagati a prezzo pieno per i quali si riceve in cambio meno di un euro e spesso sottoforma di buoni spendibili solo nel suddetto negozio. Devo dire che la prima cosa me la sono scampata: i libri che ho rivenduto sono sempre stati libri che ho detestato per un motivo o per un altro: vendere dei volumi a cui sei affezionato per l’irrisorio corrispettivo non avrebbe senso. Sulla seconda non ci si può fare molto, vorresti urlare al cielo la truffa ma il cielo stesso non ti ascolterebbe quindi ti tocca accettare la tristezza e tirare avanti, anche perché magari ancora ti maledici per aver comprato certi sprechi di carta e ti dici che in fondo, dopo aver buttato ore sempre preziose a leggerli, ora ti meriti anche il castigo finale.

Insomma mi capita di fare questo gesto sconsiderato e, a fronte di due scatoloni di volume consistente pieni di libri, ho ricevuto in cambio quattro miseri volumi, uno dei quali vede Nick Hornby parlare dei suoi brani di musica preferiti. Ora l’autore inglese che io ho apprezzato per come parla delle manie dei musicofili in “alta fedeltà” gode di una certa stima da queste parti e quindi, anche se molti dei brani descritti o non li conosco o mi fanno sentire a disagio, porto a casa il disco dicendomi che, in fondo, potrebbe aprirmi la mente o portare a mia conoscenza, pescando nel mucchio, qualcosa di valido.

Tutto bene (più o meno) finché arrivo al capitoletto che parla dei Led Zeppelin e di “Heartbreaker” in particolare. No Mr. Hornby, non ci siamo proprio. L’autore si interroga sul perché a un certo punto si sia appassionato a un genere “pesante” e soprattutto sul perché, a un certo punto, tale genere, nonostante ne riconosca l’appeal istintivo, abbia smesso di avere senso di essere ascoltato. L’autore dice di aver voluto nascondersi dietro quelle sonorità così pesanti ma che è un atteggiamento poco maturo, perché la persona matura è in grado di capire che nell’effimero, nel massificato e nel, passatemi il termine, “superficiale” sta il fascino della musica popolare. Dice che una persona matura non ha bisogno di chitarre roboanti e batterie rumorose. Niente bassi pulsanti e voci spavalde. Il punto è: anche fosse, e non credo, chissenefrega di essere ascoltatori maturi. Il mondo delle persone mature è noioso e triste. Prendete un disco dei Led Zeppelin e ditemi se, in tutta coscienza, riuscite a rilevare delle sensazioni del genere anche solo per mezzo secondo.

Ok, magari vi concedo qualcosa a fine carriera, ma ci sta. A un certo punto verso la fine dei ’70 saltarono fuori un sacco di diavolerie elettroniche e tutti quanti si misero a sperimentare anche cose senza troppo senso… ma almeno fino a “Presence” sono stati formalmente quasi inattaccabili. E come loro altri mostri sacri come Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep e molti altri.

Una cosa del genere la fecero notare anche a Lemmy, il quale rispose che non voleva che dei vecchi ascoltassero la sua musica, che poi faceva il paio col fatto che se pensi di essere troppo vecchio per il rock’n’roll, probabilmente lo sei. Aggiungeteci il fatto che maturi è come dire diversamente giovani e il bandolo della matassa è sotto i vostri occhi.

Il punto è che sono anni che chiunque si arroga il diritto di sparare sentenze sulla musica pesante, dall’alto di una presunta maturità o, peggio, supremazia musicale. Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti discriminatori. Anche perché, oltre al non voler crescere (che comunque è del tutto opinabile), c’è molto altro. Probabilmente in molti si aspettano che io mi spertichi in lodi nei confronti della musica che amo, mi sembra ridondante farlo e vorrei evitare.

Però pensandoci bene… per essere maturo devo riconoscere al pop una dignità? A un genere ruffiano e compiacente per antonomasia? A un genere che ricerca il favore del pubblico ad ogni costo e che misura il proprio valore unicamente (o quasi) in base ai dati di vendita o in base a quel che tira in questo momento storico? A un genere che parla quasi unicamente di cose frivole e di sentimenti banalizzati? Per essere maturo devo accettare il fatto che modificare il proprio stile per renderlo accessibile sia non solo lecito ma un atteggiamento da condierare vincente? Allora perché dovrei desiderare esserlo?

Una volta ero estremamente più chiuso e forse davvero risultavo ottuso… Ma oggi ascolto molta altra musica rispetto alla musica pesante. Per me la discriminante sono diventati contenuti: aver qualcosa da dire non è una cosa banale né dal punto di vista strettamente musicale e né dal punto di vista dei testi e dei temi trattati.

…Canzoni senza fatti e soluzioni…

Poi è chiaro che il metal e tutti i suoi derivati e generi in qualche modo limitrofi, sono casa mia, sono ciò che conosco meglio e ciò di cui posso parlare con effettiva cognizione di causa, ma non sono (più?) così limitato da non trovare del bello nella musica classica, nel blues, nel jazz, nel rap, nel reggae, nel goth, nella new wave, financo nel pop dove oggettivamente è molto più difficile farlo. Sinceramente però ne ho abbastanza di sentirmi colpevolizzato perché la musica che ascolto è indigesta a qualcuno, ne ho abbastanza di sentirmi dare del retrogrado perché boicotto lo streaming selvaggio che sta uccidendo la musica, ne ho abbastanza di concerti a cifre assurde e bagarinaggi legalizzati per vedere spettacoli elitari e della gente che compra i biglietti per certi spettacoli. Se la musica sta morendo è per colpa degli ascoltatori maturi che fanno tutto questo.

Per assurdo avevo assegnato a Hornby il compito di alleggerire le mie letture quando sentivo di esserci andato troppo pesante con un libro (per tematiche, stile di scrittura o altro) arraffavo un suo scritto e tornavo a sentirmi più leggero. Il giochetto è durato fino a “Non buttiamoci giù” del 2005 che proprio non mi è piaciuto. Da allora non avevo mai più preso un suo libro in mano…

Live on the slaughter beach

Questo verrà ufficialmente ricordato come il live finito prima nella storia. Al Fabrique non si scherza e alle 22:30 tutti a casa o, più verosimilmente, parte la seconda serata tipo discoteca? Non lo sapremo mai. L’occasione era clamorosa: vedere all’opera Green Lung e Clutch in una sola serata, tra dubbi ed incertezze legate ad eventuali rimandi e cancellazioni siamo arrivati al fatidico 26 novembre. Tutto inizia prestissimo, addirittura pre-aperitivo, alle 19 il primo gruppo sta già lasciando il palco, faccio appena in tempo a vederne le facce e a non ricordarne il nome. Per la prima (forse) volta assisto ad un concerto dove tutte le tempistiche sono assolutamente rispettate, i cambi palco veloci e efficienti quasi come un pit stop di formula 1, se non si considera la volta in cui persero la gomma di Irvine.

Avevo quasi perso la speranza di vedere una cosa del genere e adesso paradossalmente mi rende il concerto quasi troppo asettico, anche se il fatto di essere a casa a mezzanotte ha un valore aggiunto innegabile per chi viene da fuori. Detto questo: i Green lung si fanno da soli un velocissimo check ai suoni e da subito da nell’ occhio il loro chitarrista che sembra la versione ringiovanita e vigorosa di Dave Chandler dei Saint Vitus, poi dei roadie montano veloci due bandierone coi caproni e si comincia.

L’attesa era tanta, visti i loro due pregevoli dischi e mezzo all’attivo, e non è stata vana. Musicalmente inappuntabili sono rodatissimi ed esaltati come la loro età relativamente giovane impone: sparano fuori le loro cannonate come “Ritual Tree”, “Old Gods” e l’esaltante “Reaper’s Scythe” con decisione e sicurezza da band conscia dei suoi mezzi e con dei suoni finalmente all’altezza anche trattandosi di un gruppo spalla. Nulla da dire, alla fine paiono anche troppo forzati nel cercare l’attenzione del pubblico ancora poco numeroso e in parte disattento, ma per un gruppo che vuole farsi strada ci sta. Il futuro per loro appare radioso a patto che non si facciano stritolare da quel tritagruppi che risponde al nome di Nuclear Blast.

Per i Clutch, la recensione potrebbe scriversi da sola. Tutta l’attenzione è focalizzata su Neil Fallon che da vero istrione trascina il pubblico con le sue occhiatacce, il suo gesticolare plateale, il suo indice accusatore e, ovviamente, il suo vocione inconfondibile. Gli altri si limitano a suonare, ma lo fanno veramente da manuale. Instancabili macinatori musicali miscelano blues, funk, hard rock tritando tutto come una schiacciasassi e poi fondendo tutto in una forgia dalle colate incandescenti. Un’ora e mezza di concerto, una carriera ormai più che trentennale alle spalle e sono ancora lì solidi e fieri nel loro credo che si chiama rock’n’roll.

Fanno capolino anche un theremin, un campanaccio, un’armonica a bocca a colorire il suono, ma la sostanza rimane fermamente quella di un gruppo del Maryland che dagli anni ’90 non si è mai fermato e raramente ha dato segni di cedimento, nonostante qualche disco un po’ sottotono e i guai fisici partiti da Fallon ad un certo punto della sua carriera. Sciorinano brani vecchi (una lontanissima “Rats”) e nuovi con naturalezza e convinzione che coinvolge appieno il pubblico che vive momenti di vera e propria esaltazione come quando si esibiscono in “Earth Rocker” vero e proprio manifesto programmatico del gruppo.

Recentemente alla dipartita di Jerry Lee Lewis si è parlato di last man standing: per quanto concerne la sua generazione è sicuramente vero, per quelle successive ci sono ancora gruppi che, come i Clutch, dimostrano di non voler mollare ancora il colpo: non possiamo che ringraziarli per questo e auguarargli lunga vita e prosperità, con le corna alzate chiaramente.

Un post e una canzone

Un post solo per una canzone? Certo. In realtà sarebbero due, ma procediamo con ordine. La scorsa estate, rincorrendo il ramo materno delle mie radici, sono tornato a Feltre e l’ho fatto indossando una maglietta degli STORM{O}. Mi sono fatto fare una foto sotto il cartello della cittadina in provincia di Belluno (ma, se se la prendono come i miei parenti, guai a dirgli che sono bellunesi) e gliel’ho mandata. Sono dei bei tipi e l’hanno presa bene, anzi si sono esaltati.

Stessa cosa che è successa a me lo scorso fine settimana quando hanno fatto uscire il loro brano in anteprima per il nuovo disco che uscirà a febbraio con tanto di nuova etichetta discografica al seguito. Perché gli STORMO (che nel frattempo han perso per strada le parentesi), come il paese originario di mia bisnonna, sono veramente qualcosa che mi è molto caro. Come molti arrivo a conoscerli con il loro secondo lavoro “Ere” e poi da lì hanno saputo ritagliarsi un posto speciale nei miei sentimenti, e non temo di apparire troppo sdolcinato nel dirlo. Forse saranno le origini, ma alla fine sono soprattutto la loro musica, i loro testi, la loro attitudine a far si che questo sia successo. E mi ritengo un ascoltatore indurito da tutto quello che l’industria musicale è diventata, dalla sfiducia crescente negli artisti, dalla secolarizzazione della musica a me cara che non riesce a trovare vie esperssive che risultino credibili e personali.

Tuttavia, detto tutto questo, il gruppo di Feltre rappresenta per me un’isola felice, una delle poche che tengo strette a me assieme ai Messa, che guarda a caso,  provengono anch’essi dalla mia regione d’origine. Perché sono due gruppi veri, ragazzi che ci provano a dare il loro contributo artistico, a mettere in gioco la loro bravura per arrivare a proporre qualcosa che, nonostante i riferimenti che tutti i gruppi hanno, suoni come profondamente loro. Quindi la premiere del loro nuovo disco per me è un evento che voglio celebrare con un post fatto apposta. E poi la canzone è una bomba. Ascoltatela, riascoltatela e ascoltatela ancora fino a febbraio. Cogliete le differenze col passato, proiettate speranze per il futuro. Non l’avrete fatto invano.

P.s.: Visto che parliamo di affetto, segnalo che è anche uscita la canzone apriprista per gli Obituary, ovvero il gruppo che mi ha fatto amare il death metal. Al di là di tutto, voglio bene anche a loro e vedere il loro logo su un disco nuovo mi fa felice.

Cose ascoltate di recente…

Miscreance: Convergence

Death metal tecnico da Venezia: un disco che dona gloria a un genere poco frequentato, un impeto notevole di orgoglio, proprio dal nostro paese. Avendo ben presente la lezione magistrale impartita da gruppi come Death, Pestilence ed anche, in misura minore, Atheist, i Miscreance tirano fuori un lavoro che coinvolge dall’inizio alla fine. Merito dell’abilità in fase compositiva e della freschezza che riescono a esprimere, mantenendo alta l’attenzione, alle volte anche con passaggi e soluzioni inaspettati. Normalmente  direi che non è proprio il mio genere ma il gruppo veneziano mi ha proprio conquistato. Bravi bravi, da supportare assolutamente…

Russian Circles: Gnosis

Altro gruppo con uno scoglio da superare per il sottoscritto: l’assenza del cantato. Faccio sempre molta fatica con i gruppi strumentali, i Russian Circles non fanno eccezione. Però il disco nuovo mi ha conquistato, sarà per le atmosfere che riportano alla mente quasi subito il substrato dal quale sono nati (il post-tutto di fine anni ’90 inizio duemila che ha avuto in Neurosis e Isis i massimi esponenti), sarà che effettivamente mi sono trovato davanti un buon disco, particolarmente adatto a passeggiare sotto la fine pioggia di ottobre con la nebbia bassa e le foglie che cadono. In mezzo ai suoni attutiti un po’ di fragore ci sta.

Dark Throne: Astral Fortress

Qui provo la stessa di difficoltà che avrei parlando di un gruppo di amici. Non vorrei mai e poi mai vorrei avere nulla da ridire su Fenriz e Nocturno Culto. Hanno fatto della guerra ai suoni plastificati e finti una bandiera, hanno saputo costruire su un passato leggendario e distaccarsene, sono un esempio fulgido di coerenza e attitudine. Il nuovo disco però dice poco di nuovo, dopo diverse evoluzioni, si sono definitivamente standardizzati su musica che sembra uscire direttamente da un bunker svizzero della prima metà degli anni ’80. Veri e genuini fino al midollo, però riscrivere per l’ennesima volta “Morbid Tales”, con tutto il bene che gli voglio, comincia a mettere a dura prova l’ascoltatore.

Mountains: Tides End

Un ottimo disco questo, ce ne era bisogno. I Mountains, trio da Londra, propongono la loro formula: semplice ma non scontata. Immaginate un doom dinamico e melodico, per quanto possibile loro lo incarnano perfettamente… Un piccolo prodigio: la batteria è l’elemento che lascia maggiormente incuriositi: estremamente presente, crea uno scenario inaspettato e perfettamente contestualizzato (mi vengono in mente i Mastodon meno arzigogolati), i passaggi acustici e voce riportano la barra al centro della melodia e le chitarre ruggiscono dal profondo. Un risultato niente affatto facile da ottenere. Per me sono da applausi, oltretutto con una copertina spettacolare.  

Duocane: Teppisti in azione nella notte

Da Bari con furore. Già il nome potrebbe dare adito a fraintendimenti di sorta (nessuno si azzardi a cambiare una vocale), poi la proposta si muove tra il serio, la musica, con delle soluzioni molto interessanti con un’ amalgama di stili ed influenze molto personale e il faceto, i testi, con una vena ironica delicatissima. A me sono venuti in mente i mai troppo lodati Zu, soprattutto in “Old man yells at clouds”, ma lo spettro sonoro è veramente ampio, considerate anche le ospitate di altri musicisti che completano l’opera.

Noise, sludge, math, hardcore… Basso e batteria: che spettacolo!

Musica scoperta anche grazie a Il raglio del mulo e Blogthrower lì troverete due gustose interviste…

El Cielo vent’anni dopo

L’ 8 ottobre compie 20 anni uno dei dischi definitivi del rock anni 2000. Si intitola “El Cielo” e il gruppo californiano Dredg ne è l’autore. All’epoca fu una vera rivelazione, nei forum ne parlavano tutti come di un piccolo capolavoro, ed in effetti lo è. Molto leggero e sognante, sembra una ventata d’aria fresca in una stanza che sia stata chiusa per anni. La cosa bella è che era totalmente fuori da qualsiasi scena e corrente musicale dell’epoca. Niente nu metal, niente post hardcore, semplicemente Dredg. Stavano da soli, erano personali, con un loro cammino che partiva da basi decisamente più rocciose: “Leitmotif”, il disco precedente, ere ancora imparentato con una sorta di alt-metal che troverà ben poco spazio nel successore.

In effetti il disco suona leggero, ma non stucchevole; aggraziato ma non facile. Le liriche nascono direttamente dal quadro di Salvador dalì “Sogno causato dal volo di un’ape attorno ad una melagrana un attimo prima del risveglio” che fa diretto riferimento alla sindrome di paralisi del sonno della quale pare soffrissero lo stesso pittore e sua moglie. Molti brani si intitolano infatti Brushstroke (“Pennellata”) con diverse identificazioni specificate, inoltre alcune lettere ricevute dal gruppo da parte di persone affette da paralisi del sonno vengono utilizzate nella stesura dei testi. Il gruppo sceglie di riportarne alcune nel booklet che esce in due formati, uno con un letto su sfondo marrone, l’altro con una finestra aperta sul cielo con le nuvole di sfondo, tuttavia sembra che ne esistano molte diverse versioni sia in digipak che in jewel case, anche nel formato superaudio CD e con bonus disc (dettaglio: ovviamente io beccai quella marrone che mi piaceva meno).

La particolarità di questo disco sta nel suo essere al di fuori dei generi: per qualcuno suona rock, per altri progressive, per altri ancora pop. È un insieme di tutte queste cose e nessuna di esse, quello che è certo è che in questo disco gli autori dimostrano di essere in grado di far convivere diversi stili in modo assolutamente armonico e con un gusto quasi insuperabile per la melodia. Visto il periodo in cui esce è un mezzo miracolo, uno di quei dischi in cui non c’è una nota fuori posto, una sbavatura, qualcosa che palesemente non funziona. Fluisce come se l’attrito non esistesse e a tratti ti trasporta lontano, personalmente mi ha sempre predisposto positivamente facendomi osservare particolari che, nel quotidiano, passavano sistematicamente inosservati. Il suo pregio principale è proprio di essere in grado di creare un mondo a sé. Fin dalle prime note di “Same ol’ road” è impossibile restare indifferenti a quello che i Dredg sono in grado di mettere sul piatto.

La voce di Gavin Hayes, si erge suprema sulle miserie del mondo, forte di una base ritmica solidissima, per poi esplodere come se fosse un fuoco d’artificio il quattro luglio. Il termine corretto per questa musica è emozionale, non me ne vengono altri. Un’ altra menzione la merita senza dubbio “Scissorlock” dove i nostri semplicemente compongono uno dei ritornelli più belli mai sentiti in un inno notturno e luminoso come se la luna piena, i lampioni e le stelle formassero un’unica costellazione.

Se con queste due canzoni non vi ho convinto, mi spiace, però continuerò a portarmi questo disco nel cuore e ne sarò geloso tanto gli sono affezionato. Per i suoi vent’anni gli autori ne faranno uscire una versione de luxe che promette faville, peccato che, pur mantenendo sempre un livello qualitativo altissimo, non toccheranno mai più queste vette, spostandosi progressivamente verso il pop e nonostante il successo commerciale del singolo “Bug eyes” del disco successivo, arriveranno a “mettersi in pausa” nel 2014, per annunciare poi un ritorno nel 2018 che non si è ancora concretizzato.

Nonostante tutto il loro nome è stato scritto a caratteri cubitali nella storia del rock, con un disco formidabile, e non è un’impresa da tutti.

It’s never ending and never surrendering

A un certo punto l’estate scorsa mi è quasi mancato il fiato, scorredo selvaggiamente le notizie sul mio telefono mi salta fuori un nome ed una data: Unida a Torino, il 4 ottobre. Lo rileggo un paio di volte ed è vero, in qualche modo gli Unida si sono riformati e vengono in Italia. Li avevo visti almeno vent’anni fa al Babylonia, e adesso ho nuovamente l’occasione di farlo senza che abbiano inciso nulla, come se fossero rimasti sospesi nel vuoto tutto questo tempo. Poi quasi quasi me lo dimentico.

A pochi giorni dalla data scopro che John Garcia non è più della partita (anche se ha cantato nei primi shows dopo che si erano riuniti, pare non potesse cantare in questo tour) e che praticamente il chitarrista Arthur Seay e il batterista Miguel Cancino sono gli unici membri originali superstiti. Doveva esserci la fregatura! Ma dopo tre anni di assenza da sotto al palco (tra sfortune varie non sono riuscito a vedere nemmeno mezzo concerto quest’estate e i miei amati Messa credo che non li vedrò per un pezzo, visto l’incidente stradale disastroso che li ha coinvolti…) decido che chi se ne frega e li vado a vedere lo stesso. Il rischio era quello di trovarsi davanti poco più di una cover band di uno dei gruppi più sfortunati sulla terra.

Credo che ormai sia inutile stare ancora a disquisire sul loro secondo album (detto per inciso: ne ho una versione bootleg su vinile ed era una bomba) e sulle vicissitudini che hanno fatto sì che non uscisse mai o sul fatto che siano autori forse della più bella canzone stoner di sempre che è questa:

Loro fanno a tutti gli effetti parte dei gruppi degni di venerazione, quindi buttare tutto nel cesso è un rischio grossissimo ritornando sulle scene vent’anni dopo, senza nuove pubblicazioni, con una formazione rimaneggiata ed un repertorio abbastanza scarno (ma non scarso).

Scacciato questo pensiero si parte alla volta di Torino,  la serata ha un clima mite e il capoluogo piemontese è quasi esattamente la stessa città del febbraio del 2019 quando andammo a vedere i Mondo Generator. Anche il posto è lo stesso, il Blah Blah in via Po, all’inizio sembrava suonassero allo Spazio 211 e onestamente avrei preferito: è decisamente più decentrato e spazioso, oltre che più comodo per chi arriva da fuori. Probabilmente anche l’acustica è migliore… però bando alle perplessità.

Aprono i locali Flying Disk, da Fossano. Niente male il loro repertorio, molto anni ’90 anche se lontano dallo stoner che invece contraddistingue gli headliner della serata, i loro punti di rifermento sembrano essere gruppi mai troppo allineati a correnti musicali come gli Helmet o i Fugazi. Riescono comunque a offrire una buona prova, da power trio duro e puro, senza fronzoli o cali di tensione, con una buona scaletta, sufficientemente personale nonostante i chiari numi tutelari. Hanno un disco che sta per uscire: dategli un ascolto, non ve ne pentirete.

E adesso passiamo agli Unida. Viste le premesse sarebbe dura per chiunque, il concerto riesce a non gettare fango su un nome storico e consegnato alla storia, quindi il pericolo più grosso è stato scongiurato. Ci sono però alcune perplessità abbastanza palesi che si sono addensate sul gruppo durante l’esibizione. Dal punto di vista strumentale sono tutti estremamente validi: Seay è un autentico mattatore appare in forma smagliante: sciorina riffoni, assoli e linguacce a tutto spiano, Cancino coordina la sezione ritmica con precisione e potenza, ma l’autentica rivelazione della serata è Collyn McCoy al basso: a vederlo sembra un pacioso signore di mezza età tranquillo, ti aspetti che faccia il suo senza strafare. Invece è un vero virtuoso del suo strumento, sciorina delle linee di basso assolutamente azzeccate ed eclettiche, riesce a mettersi in evidenza più volte senza far rimpiangere quell’altro maestro che si chiama Scott Reeder. Complimenti a lui, in un paio di occasioni mi ha fatto staccare la mandibola dalla sorpresa, bravissimo.

Sì, direte voi, ma il sostituto di Garcia, tale Mark Sunshine (se poi è il suo vero nome)? Se fosse una pagella di un quotidiano sportivo, un commento adatto sarebbe: non pervenuto. La sua voce si sente poco e male (problemi di soundcheck o oscurantismo volontario?) e per quel poco che si sente sembra che voglia tenere dietro a Garcia riuscendoci solo a sprazzi, infilandoci qualche acuto che sa di gallinaccio spennato (avete presente il buon W. Axl Rose che pena faceva dal vivo?) e non lasciando una buona impressione di sé. A questo aggiungete un look da capello lungo e unto da far invidia a “er monnezza” di miliana memoria e delle movenze goffe che ricordano da vicino quello zuzzurellone di bassista che sta rovinando i Melvins che si chiama Steven Mac Donald (licenziatelo!). Insomma un altro commento beffardo e azzeccato sul soggetto è stato “è bello da vedere”… ma sarebbe meglio non rivederlo in questa veste.

Altri dubbi riguardano il repertorio proposto, ok le vecchie canzoni, ben fatte, ma poco di nuovo all’ orizzonte, assoli a tratti prolissi, una sorta di medley di brani di altri che pare piazzato lì per guadagnare tempo a metà esibizione e, soprattutto, la cri-mi-na-le esclusione di “You Wish” richiesta a gran voce dal pubblico (e dai Flying Disk in particolare) ma lasciata da parte dal gruppo che, alla richiesta, risponde con sguardi persi nel vuoto di non averla preparata. Per me, che venero quel brano, è la nota più negativa della serata.

Luci ed ombre dunque di un progetto rinato e con delle potenzialità ma che deve svilupparsi e decidere che direzione intraprendere, possibilmente non dimenticandosi del passato (soprattutto di “You Wish”!) e trovando un sostituto migliore per Garcia, se non proprio Garcia stesso che comunque non viene considerato ancora fuori dal gruppo.

Postilla: a vedere il video la voce si sente e non è nemmeno male, magari sono stato anche troppo severo con il buon Sunshine… però dal vivo si sentiva veramente poco e quel poco non era un granché, lo garantisco. E comunque guardate le mossette che fa…

Muschio: Acufene al cubo

Verbania, e con essa tutta la parte nord del piemonte nota come verbano-cusio-ossola, è un posto che ho sempre percepito come vicino, non solo per chilometri ma anche in spirito. Sembra uno di quei classici posti dimenticati dal tempo e dallo spazio, un luogo sospeso dove non ti fermi per caso: devi proprio volerci andare e per me, è il caso di dirlo, è un bene. Tempo fa un gruppo di amici, meglio noti come Adam 7, ci hanno fatto scoprire la zona anche come luogo di concerti con la storica associazione Perché No? Responsabile tra l’altro di aver fatto suonare gente non da poco come i Converge all’epoca di Jane Doe, tanto che poi, ogni volta che mi è ricapitato di vederli dal vivo ho sempre visto l’organizzatore spuntare, segno del legame che si era creato col gruppo.

Nel tempo non è mancata l’occasione per concerti memorabili tra cui una storica data degli Zu con Joe Lally dei Fugazi nella sede denominata Kantiere, dopo essersi spostati dallo storico scantinato in centro città. Da questa realtà, se vogliamo defilata ma vitale, nel panorama italico, nasce il gruppo di cui parlo oggi. Poco tempo fa ho avuto modo di elogiare i Totem prog-rockers di quelle parti, oggi è il momento dei Muschio.

Per qualche stana ragione entrambi i gruppi propongono musica tendenzialmente solo strumentale ed è una scelta difficile: demanda agli strumenti tutta l’espressività artistica del gruppo senza mai ricorrere alle parole. L’impianto che sorregge questa scelta deve dimostrarsi solido ed all’altezza del compito affidato, cosa che succede in entrambi i casi, sebbene sia per i Totem che per i Muschio, in qualche modo, si è affacciato anche uno sparuto tentativo di incursione vocale.

Rispetto ai conterranei i Muschio la buttano molto più sul concreto: le loro radici indie-rock sono stabili e solide. Un acufene o tinnito in medicina, è un disturbo uditivo costituito da rumori (come fischi, ronzii, fruscii, pulsazioni, ecc.) che l’orecchio percepisce come fastidiosi a tal punto da influire sulla qualità della vita del soggetto che ne è affetto.

Questo è il titolo che decidono di dare alla loro terza uscita discografica. Non solo: Acufene al cubo. Terzo disco dall’anno di formazione 2011, qualcosa che si muove all’interno delle orecchie, una distorsione percettiva. Solo che non è spiacevole, anzi. In alcuni momenti richiamano certe progressioni sonore, come se fossero dei GY!BE minimalisti, con solo tre strumenti (“Dave cocks”), in altri si palesano certi spettri da Washington DC (“Tramontana scura” nella seconda parte richiama i Fugazi), tentano perfino la via del cantato in quella che forse è la migliore traccia del disco “FFF” o l’assalto quasi stoner di “Sicario”. Sono assolutamente in grado di rimodellare secondo i loro canoni una materia sonora che è patrimonio comune di tutti gli amanti certe sonorità, arrivando a imbastire un disco riesce nell’intento di coinvolgere e farsi ricordare, cosa non proprio scontata per una prova quasi interamente strumentale. Inoltre la produzione ed il suono di questo disco portano ancora più in alto il risultato finale, facendo letteralmente saltare per aria le casse se lo suonate a un volume consono.

Adesso la speranza è che si presentino finalmente le possibilità di proporre questo materiale dal vivo, dove le senzazioni fisiche si ampliano e un gruppo come i Muschio può realmente dare il meglio. Forti di una invidiabile esperienza dal vivo su palchi di mezza Europa, non mancheranno di dar vita a dei concerti memorabili.

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